Nessuno si salva da solo, ma la donna deve salvarsi da sola, scalare l'Everest col pupo tra le braccia, mentre è in conference call con l'AD di una multinazionale cinese.


La cosa che più ci rende felici e ci nobilita, l'Amore, non viene contemplato, se non come una forma di sudditanza al proprio compagno, marito, fidanzato. Se ami, sei debole.

Se ti affidi, non dico al principe azzurro, ma a quel povero Cristo che tenta di vivere come può standoti accanto (standoti accanto, e tu non è che sia proprio sempre sempre sempre sopportabile), allora sei rinchiusa nello stereotipo della principessa che ha bisogno di essere aiutata, di essere salvata.


Come se non avessimo davvero bisogno di una mano amica, di uno sguardo che sappia cogliere, tra le pieghe innumerevoli delle nostre miserie, la nostra più intima bellezza e sappia valorizzarla tramite il sentimento più alto che possa unire due esseri umani.


A Dante bastava il saluto di Beatrice per vivere bene in questo mondo. Salutare, augurare salute; in senso più ampio, salvare. Beatrice ha salvato Dante, perché lo ha visto, unico tra tanti, e lo ha riconosciuto nella sua unicità.

E, vedendolo, lo ha salutato, lo ha salvato.
E da questa forma di compassione è nata la più grande opera letteraria del genere umano. E a questo saluto deve molto anche la nostra lingua.


Pensateci, quando ripetete a pappagallo che una donna debba salvarsi da sola.

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Mina Vagante
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