La notizia è dello scorso luglio, ma apprendo solo ora che alcuni Paesi nord-europei in cui si parla più diffusamente inglese stanno cercando di limitarne l'uso. Olanda, Finlandia, Danimarca e Norvegia, in cui sino ad oggi è stato possibile seguire interi corsi di studi universitari interamente in inglese, hanno in diversa maniera avanzato proposte per limitare questa possibilità e affiancarla all'uso delle rispettive lingue nazionali.

Il tema è di quelli che mi hanno sempre appassionato, anche perché, fra le mie varie perversioni, c'è quella di aver studiato lo svedese quasi esclusivamente per poter approfondire la storia di quel Paese, ed essendo questa una ragione che i più non hanno mai voluto prendere sul serio, ho dovuto per decenni sopportare la stessa, beota domanda: “Ma che te ne fai? Tanto in Svezia parlano tutti l'inglese”. Naturalmente, anche se fosse stato vero, non mi avrebbe fattocaldo né freddo, ma questa semplificazione, come tutte le semplificazioni, nascondeva anche un atteggiamento di scarso rispetto per il tema che vorrebbe ridurre ad una battuta. Ed è proprio a questa mancanza di rispetto che le autorità di quei Paesi hanno pensato di reagire. Quando sei un Paese la cui lingua nazionale non è diffusa al di fuori dei tuoi confini, ma hai pure un alto tasso di popolazione che parla bene un'altra lingua e in quest'ultima è possibile anche conseguire una laurea o un master in una delle tue ottime università locali, il rischio è che non solo la tua lingua venga snobbata dagli studenti di lingue stranieri, ma che persino entro ai tuoi confini ci si senta dispensati dal fare il minimo sforzo per apprenderla. Come risultato, si affermerà la convinzione che la tua lingua sia inutile, e studiarla una perdita di tempo, e finirà che solo qualche matto con la fissa per la tua cultura o qualcuno costretto a conviverci la impari. Un effetto-ghetto che viene rinnovato quando, per attirare studenti stranieri, assumi anche insegnanti stranieri che ovviamente parlino solo la lingua internazionale e la propria e non siano capaci di rispondere ad una domanda nella lingua locale da parte dei loro stessi studenti.

Che si sarebbe arrivati a questa situazione non era una conclusione degna di un genio, quindi non è sorprendente che si siano arrivati anche gli olandesi e gli scandinavi. Più sorprendente è che costoro, sempre così avanti nel costruire di sé un'immagine “internazionale”, accogliente e inclusiva, ossia priva di qualsiasi identità e colore locale che non sia puro dato meteorologico o paesaggistico, se ne preoccupino. E infatti le misure prese sono state timidissime e, nel caso della Danimarca, persino accantonate a stretto giro di posta. Ma è interessante osservare questo fenomeno e trarne qualche conclusione.

So bene che le lingue sono organismi vivi e che si modificano naturalmente nel tempo, anche con l'apporto di vocaboli ed espressioni straniere, sia per motivi di xenofilia, sia quando si debba nominare qualcosa di nuovo per cui una parola, nella propria lingua, non c'è, quindi non sono contrario ai vocaboli stranieri in modo assoluto. Ad esempio, c'è il caso del russo, che più di ogni altra lingua ha accolto stabilmente nel suo vocabolario lemmi da lingue dell'Europa occidentale e centrale, e questo per ragioni storiche: isolata sino alla fine del XVII secolo, la Moscovia viveva come in una dimensione propria, e i contatti con gli stranieri erano rari e poco rilevanti, oppure fonte di conflitti. Divenuta d'un tratto una potenza europea con Pietro I, la Russia invitò un esercito di precettori, insegnanti, ingegneri, istruttori militari, architetti e scienziati provenienti prevalentemente da Francia, Inghilterra, Germania e Austria, ma anche Italia (furono italiani a progettare il Cremlino nel XVI secolo, interi quartieri di San Pietroburgo nel XVIII e di Odessa nel XIX secolo). Andando per le spicce con l'obbiettivo principale di rendere il Paese moderno ed “europeo”, senza badare alla purezza della lingua, entrarono nell'uso comune già dal '700 termini ed intere espressioni, a volte appena storpiate, dal francese, dal tedesco, dall'inglese e persino dall'italiano. Non per questo la cultura e la lingua russa sono cadute in disuso o hanno perso la loro originalità.

Un caso opposto è stato quello del ceco. Per secoli la Boemia e la Moravia, regioni costitutive l'attuale Repubblica Ceca, sono state sotto al dominio austriaco. La lingua d'élite e dell'amministrazione civile e militare era il tedesco, e i dialetti locali vennero semplicemente relegati nelle campagne e parlati solo dai contadini. Quando nel XIX secolo emerse anche in quelle terre il sentimento nazionale romantico, ci si rese conto che, a differenza dei vicini polacchi, ungheresi e tedeschi, i cechi non avevano neppure una lingua nazionale. Essa venne quindi letteralmente ricostruita, artificialmente, a partire dai dialetti locali, usando radici slave per inventare ogni termine o concetto moderno per cui una parola slava non c'era già. Come conseguenza, il ceco è forse la lingua europea col minor numero di parole “d'importazione”, e anche per questo fra le più difficili da padroneggiare. E non sono neppure casi unici: al giapponese è successo qualcosa di simile al russo, e il finlandese invece è in una situazione simile al ceco.

I problemi, secondo me, iniziano quando una lingua inizia ad inserire massicciamente termini stranieri nell'uso comune quando neppure ce ne sia bisogno, semplicemente per imitazione, perché fa tanto alla moda, o persino senza nemmeno averne coscienza, solo perché esposta ad un'influenza immateriale, e perciò molto più subdola di quella del bisogno o della forza. È stato il caso del francese e dell'italiano, lingue che più prestigiose e ricche di letteratura e mezzi espressivi non si poteva immaginare alla metà del XX secolo, che però, come conseguenza della presenza di truppe “di liberazione” (sia mai che le si definisca “di occupazione”) statunitensi, e quindi invase una seconda volta da una marea di produzioni musicali e cinematografiche, e poi anche televisive, di provenienza anglosassone, hanno iniziato ad accostare termini inglesi ai propri prima, e a sostituire direttamente i propri vocaboli con i corrispettivi anglicismi poi. Che non di arricchimento si tratti, in questo caso è evidente anche ad un bambino (sempre che non sia un bambino americano): se io ho una lingua capace di esprimere tutti i concetti che mi servono, e invece di usarla la infarcisco di vocaboli ed espressioni tratte di peso da un'altra lingua eliminando e facendo cadere in disuso i miei, è chiaro che questo è vandalismo linguistico. Non mi sto arricchendo, sto solo distruggendo il mio patrimonio per poter esporre, a mo' di lustrini, roba altrui che non sarà neppure mai la mia. La reazione dei parlanti però è stata diametralmente opposta: in Francia, negli anni '90, era ancora presente un certo orgoglio nazionale per quanto di più proprio vi sia in una cultura, ossia la lingua, e partì una campagna per preservare il francese quanto più possibile dagli anglicismi. Termini francesi furono coniati anche per quelli tecnici legati all'automazione, e si eliminarono gli anglicismi dalla comunicazione pubblica. Non fu certo effetto di una legge, ma la recettività del francese medio, che per quanto male se ne dica è una persona cosciente del valore della propria identità nazionale, aiutò parecchio.

Esattamente l'opposto è accaduto in Italia, e sappiamo tutti cos'è successo negli ultimi trent'anni: niente. Assolutamente niente è stato fatto di fronte al dilagare di anglicismi anche e soprattutto quando termini italiani già esistevano per esprimere gli stessi concetti, o sarebbe stato facile coniarne di nuovi. La patria di Dante, di Tasso e di Leopardi si fece allegramente infarcire di parole straniere senza neppure chiedersi perché. Se qualcuno ne parlava a livello pubblico restavano chiacchiere oziose, perché mai fu posto come problema e men che meno come minaccia. Come risultato abbiamo non solo una pletora di parole inglesi per descrivere l'informatica, ma una quantità ancora maggiore per dar conto di mestieri, attività e situazioni inserite in discorsi in italiano con risultati grotteschi e, spesso, incomprensibili. Il tutto per uniformarsi a quella che è percepita come una semplice tendenza a cui non ci si deve né può opporsi, come se fosse qualcosa di natura geologica o chimica. Tanto che siamo arrivati all'assurdo di un capo di governo, la tanto vantata “prima donna nella storia etc.”, che agli incontri internazionali parla inglese e per farcela capire devono tradurcela in italiano, pur se in quei contesti è pieno di interpreti e traduttori simultanei che stanno là apposta per quello. (Apro una parentesi di ulteriore confronto con i francesi, a nostra ulteriore vergogna. Molti anni fa, quando vivevo in Francia, il presidente Chirac andò ad una conferenza stampa in ambito europeo. Una volta in sala gli fu comunicato che avrebbe dovuto esprimersi in inglese perché non c'era un interprete e alcuni dei giornalisti non capivano il francese. Benché conoscesse abbastanza la lingua per poterli accontentare, preferì alzarsi e lasciare la sala, dato che, come spiegò, “il Presidente della Repubblica francese parla francese”, almeno in situazioni ufficiali. Si spiega anche così perché fosse tanto popolare presso ad un popolo particolarmente orgoglioso.)

Ora, non sono un purista, e non pretendo che le lingue, come in certe teorie razziali, debbano preservare in eterno la loro “purezza”, dato che non l'hanno mai fatto. Le lingue, come detto, sono elementi vivi, e accolgono influenze reciproche anche senza i casi estremi di invasioni o colonizzazioni. Si chiama “interferenza”, ed è un normale caso di scambio che può funzionare in entrambe le direzioni, e spiega la presenza, ad esempio, di parole di radice slava nelle lingue baltiche e persino nello svedese. Così come neppure nego che, nel caso di materie tecniche per cui non esistano termini precisi nella propria lingua, si possano usare come base vocaboli stranieri per tradurli nella propria. Il problema per una lingua, e una cultura, inizia quando si assume che essa non serve semplicemente così com'è e, invece di aggiornarla e rimetterla in corsa, la si mette da parte per usare direttamente una lingua straniera. In certi casi, magari, può essere anche un percorso obbligato: quando ai primi del Novecento i missionari europei nel bacino del Congo si misero ad usare la lingua locale, il Lingala, per insegnare ai bambini le materie normali in Europa, si resero conto che quella lingua non era assolutamente adatta per spiegare concetti matematici, filosofici o scientifici oltre un grado molto elementare. Ma era normale: la lingua era servita per millenni a descrivere azioni e concetti in ambito tribale, e a quello era adatta. Per aggiornarla sarebbe servito un lavoro di completa riscrittura che i missionari non erano nemmeno competenti a fare. Ma le lingue scandinave, e così l'italiano, non sono lingue che si trovano ad affrontare l'impatto con la modernità come uno shock improvviso: si può dire che la modernità gli è cresciuta attorno, e il caso del francese dimostra che si può benissimo arricchirle per renderle capaci di esprimere qualsiasi concetto serva. Se non lo si fa, è per effetto di quella sudditanza psicologica che deriva dal colonialismo culturale che subiamo da quasi un secolo, e qualcuno anche da più tempo, per cui il mondo anglosassone è quello che ci fa da esempio in tutto ciò che conta, dall'assetto politico ideale alle scienze, dalle mode ai consumi, e poi sono quelli che vincono le guerre, quindi a che pro opporsi? Se parlano inglese vuol dire che hanno ragione loro (ragionamento rozzo e surreale ma che ho sentito esprimere seriamente da qualcuno che mi magnificava i pregi della globalizzazione). Questo porta a quello svuotamento culturale che si traduce in servilismo psicologico (e naturalmente politico, economico e quant'altro) verso chi è percepito come superiore al punto di scimmiottarne la lingua o assumerla per insegnare nelle proprie università. Anche perché non se ne vedono vantaggi tali da bilanciare la degradazione delle proprie lingue nazionali. Per dire, i patrizi romani che fra di loro parlavano greco, così come gli aristocratici russi di Tolstoj che parlavano francese, lo facevano come simbolo di educazione superiore oltre che di omaggio ad una cultura più antica e raffinata della propria. I nostri giornalisti, e peggio ancora i manager anche di livello inferiore, che dicono “dare l'input” invece di “imbeccata”, “deadline” invece di “scadenza”, “shutdown” invece di “chiusura”, “target” invece di “bersaglio”, sino a raggiungere il ridicolo dell'invenzione di espressioni “inglesi” che nei paesi anglosassoni neppure esistono, come “baby-gang”, fenomeno che nei paesi di lingua inglese è invece espresso come “juvenile criminals” (e paradossalmente con termini di origine latina...), facendo così, credono di dimostrare cosa? Probabilmente nulla, perché neppure se ne rendono conto. E neanche si rendono conto che un sacco di persone, sentendoli, neppure li capisce, quindi falliscono nel primo obbiettivo, che è quello di comunicare un messaggio. Ma lo fanno perché consciamente o inconsciamente convinti di essere nel giusto, che così dev'essere e così si deve fare nei tempi che viviamo. Psicologicamente svuotati e riprogrammati a parlare come cloni del modello generale in voga, quello di professionista anglosassone produttivo e rapido, privo di fronzoli e di passato. Il “self-made man”, non dicono così? (Fra l'altro espressione così assurda che sfida ogni traduzione in italiano.) La decomposizione della nostra civiltà è rispecchiata, in ambito linguistico, da questo abbandono e/o vandalizzazione delle lingue nazionali. Così come sparisce la sovranità interna degli Stati, la coscienza nazionale dei popoli, l'identità religiosa e culturale, si degrada anche la lingua e il suo uso. È interessante che anche laddove esistano strumenti creati proprio per vegliare sul corretto uso della lingua, come le Accademie (e ne esistono ovunque), esse non sembrano particolarmente attive su questo versante, anzi, addirittura non paiono accorgersi di nulla, mentre perdono il tempo in giochi di parole (in tutti i sensi) riunendosi per approvare lo status di “petaloso” ma restando inerti sulla morte della lingua nel suo complesso.

Naturalmente, in quanto parte di un fenomeno di perdita generale di identità, non è risolvibile in maniera facile. Per prima cosa servirebbe un'autorità politica dotata di autonomia. Non per fare il nostalgico, ma durante il Ventennio si assistette ad una reazione del Regime contro l'uso di parole straniere, con tanto di liste di “traduzioni” diffuse agli operatori di cinema, radio e giornali, tramite le quali si imparava a non usare “taxi” ma “auto pubblica”, “pellicola” invece di “film” e “primato” invece di “record”. Persino il gioioso “gol” dovette allungarsi in “rete”... E però lo sciovinismo e le dittature non c'entrano nulla, se guardiamo al caso francese. Quello che in Francia si è avuto, e ha garantito una certa sopravvivenza della terminologia locale rispetto ai termini importati d'oltremanica (quando non d'oltreoceano), è anche un atteggiamento collaborativo da parte dei parlanti. Che non si impone con i decreti-legge. E questo, in Paesi sempre più evanescenti sotto ad ogni punto di vista, non si può sperare di trovare. Qui, stavolta, l'Italia è in nutrita, se non proprio buona, compagnia.

Non deve meravigliare, quindi, se l'italiano, per secoli una delle lingue più prestigiose, amate e studiate all'estero, stia velocemente perdendo posti nella lista di quelle attualmente più studiate al mondo. Il declino del nostro Paese lo rende assai meno appetibile che in passato sotto a tutti i rispetti, e lingue come il turco, il cinese, il portoghese e il russo garantiscono perlomeno un futuro. Futuro che ci siamo venduti per un piatto di lenticchie. Perché dovrebbero sforzarsi gli altri di farsi capire da noi, quando persino la Meloni parla inglese come la segretaria di una multinazionale?

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Friedrich von Tannenberg
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