A Roma un ingegnere di origini etiopi, Costantino Bonaiuti 61 anni ha ammazzato la ex-compagna, Martina Scialdone, un'avvocatessa di 35. In un paese normale, con un diritto funzionante, con un giornalismo serio, parleremmo di "omicidio". Ed essendo questo avvenuto non perché la compagna abbia cercato a sua volta di ucciderlo, parleremmo di omicidio volontario e questo chiuderebbe la questione, esponendo l’assassino alla riprovazione della gente e alle conseguenze preposte dalla legge. Viceversa, la stampa italiana e la politica parlano di femminicidio. E sempre in quel paese normale - che non siamo - qualsiasi operatore dell'informazione scrivesse e pronunziasse una parola di questo tipo – grammaticalmente errata – verrebbe licenziato da ogni editore serio, per palese somaraggine. Nondimeno, nel paese dove il rovescio diventa diritto, dove la stampa non informa ma fa propaganda, è divenuta una parola di gran moda. Ma ciò non toglie che essa nasca da una lunga serie di errori logici. Vediamo quali.
Come si sa, il diritto penale distingue l’omicidio volontario da quello preterintenzionale, da quello del consenziente, dall’infanticidio, dall’istigazione al suicidio e da quello colposo. Per non parlare delle circostanze attenuanti e aggravanti.
Questo ha ovviamente un senso: un conto è chi uccide per denaro e altro conto è chi uccide per difendere una persona cara o per un tragico errore. Ma nel momento in cui conveniamo che l’omicidio volontario rappresenti l’aberrazione per eccellenza che va contro l’interesse della specie, non ha il minimo senso per il diritto stabilire se la vittima sia una donna, un uomo, un figlio o un genitore, perché il semplice fatto di togliere la vita ad una persona pone già l'assassino al di fuori del consesso civile. E tuttavia, nel momento in cui si stabilisce che uccidere una "femmina" è infinitamente più grave che uccidere un "maschio", noi stiamo automaticamente dicendo che la vita di un maschio vale meno della vita di una femmina. Ragionamento a sua volta aberrante.
A questa obiezione, una donna, specialmente se ammantata di femminismo isterico, risponde che il femminicidio ha la particolarità di essere più frequente perché le donne sono fisicamente più deboli. Pur non mancando i casi di “maschicidio”, è vero che in una colluttazione tra un maschio e una femmina, salvo che la femmina non pratichi arti marziali o sia una bodybuilder e il maschio sia una pappamolla, l’esito è scontato. Ma questo non toglie nulla all’erronea pretesa distinzione che si vorrebbe introdurre sul piano legale. Il diritto pone già in essere la pena adeguata per chi uccide una donna che è la medesima per la donna che uccide l’uomo. A convincere le donne della necessità di una nuova legge è la presunzione che l’ordinamento giuridico non punisca gli assassini. Ma tutto questo non ha nulla a che fare con le leggi, bensì con la loro applicazione. Se anche si introducesse il femminicidio, se i tribunali continueranno a tirare fuori dopo pochi anni il femminicida, nell’idea che egli sia recuperato, a quel punto anche la nuova fattispecie sarà totalmente inutile.
L’opinione pubblica sembra non rendersi conto che il vero problema non è l’approvazione di nuove leggi ma l’applicazione di quelle già presenti. Per esempio, non occorreva introdurre il reato di stalking: c’è già quello di molestie. Non occorreva introdurre il reato di omicidio stradale in quanto mettersi alla guida in condizioni precarie e provocare perciò la morte di qualcuno ERA GIA’ una circostanza aggravante dell’omicidio colposo. Prima di introdurre nuove norme, oltretutto scritte malissimo – come nel caso della legge sullo stalking – occorre applicare le leggi che già sono presenti, avvalersi delle tecnologie già a disposizione. Perché è dalla loro mancata applicazione che scaturiscono i fenomeni che conosciamo. Occorre mettere le donne vessate e minacciate nelle condizioni di denunciare agevolmente i compagni violenti. Se poi si vuole far passare il principio che esista una dolorosa piaga relativa alle violenze domestiche contro le donne – come se non esistessero violenze anche a carico degli uomini – non è compito del diritto cambiare le cose ma delle scuole, delle famiglie e dunque dell’educazione in generale.
Come si sa, il diritto penale distingue l’omicidio volontario da quello preterintenzionale, da quello del consenziente, dall’infanticidio, dall’istigazione al suicidio e da quello colposo. Per non parlare delle circostanze attenuanti e aggravanti.
Questo ha ovviamente un senso: un conto è chi uccide per denaro e altro conto è chi uccide per difendere una persona cara o per un tragico errore. Ma nel momento in cui conveniamo che l’omicidio volontario rappresenti l’aberrazione per eccellenza che va contro l’interesse della specie, non ha il minimo senso per il diritto stabilire se la vittima sia una donna, un uomo, un figlio o un genitore, perché il semplice fatto di togliere la vita ad una persona pone già l'assassino al di fuori del consesso civile. E tuttavia, nel momento in cui si stabilisce che uccidere una "femmina" è infinitamente più grave che uccidere un "maschio", noi stiamo automaticamente dicendo che la vita di un maschio vale meno della vita di una femmina. Ragionamento a sua volta aberrante.
A questa obiezione, una donna, specialmente se ammantata di femminismo isterico, risponde che il femminicidio ha la particolarità di essere più frequente perché le donne sono fisicamente più deboli. Pur non mancando i casi di “maschicidio”, è vero che in una colluttazione tra un maschio e una femmina, salvo che la femmina non pratichi arti marziali o sia una bodybuilder e il maschio sia una pappamolla, l’esito è scontato. Ma questo non toglie nulla all’erronea pretesa distinzione che si vorrebbe introdurre sul piano legale. Il diritto pone già in essere la pena adeguata per chi uccide una donna che è la medesima per la donna che uccide l’uomo. A convincere le donne della necessità di una nuova legge è la presunzione che l’ordinamento giuridico non punisca gli assassini. Ma tutto questo non ha nulla a che fare con le leggi, bensì con la loro applicazione. Se anche si introducesse il femminicidio, se i tribunali continueranno a tirare fuori dopo pochi anni il femminicida, nell’idea che egli sia recuperato, a quel punto anche la nuova fattispecie sarà totalmente inutile.
L’opinione pubblica sembra non rendersi conto che il vero problema non è l’approvazione di nuove leggi ma l’applicazione di quelle già presenti. Per esempio, non occorreva introdurre il reato di stalking: c’è già quello di molestie. Non occorreva introdurre il reato di omicidio stradale in quanto mettersi alla guida in condizioni precarie e provocare perciò la morte di qualcuno ERA GIA’ una circostanza aggravante dell’omicidio colposo. Prima di introdurre nuove norme, oltretutto scritte malissimo – come nel caso della legge sullo stalking – occorre applicare le leggi che già sono presenti, avvalersi delle tecnologie già a disposizione. Perché è dalla loro mancata applicazione che scaturiscono i fenomeni che conosciamo. Occorre mettere le donne vessate e minacciate nelle condizioni di denunciare agevolmente i compagni violenti. Se poi si vuole far passare il principio che esista una dolorosa piaga relativa alle violenze domestiche contro le donne – come se non esistessero violenze anche a carico degli uomini – non è compito del diritto cambiare le cose ma delle scuole, delle famiglie e dunque dell’educazione in generale.
Il diritto non ha questi compiti. Interviene quando si compie il reato. E quando il reato è commesso, se la vittima ha il pisellino o la farfallina, ai genitori e agli amici che ne piangono la scomparsa, cambia poco.