Accadeva trentasei anni fa.
7 novembre 1987. Il primo ministro tunisino Zine El Abidine Ben Ali si consulta con i medici curanti del presidente Habib Bourguiba (classe 1903) per certificare che le condizioni mentali non gli consentivano l’esercizio delle funzioni inerenti la sua carica. Era quindi giunto il momento di mettere in pratica l’articolo 57 della Costituzione del 1975 che permetteva al primo ministro di assumere il potere qualora il presidente fosse in uno stato di “impedimento assoluto”. La mattina del 7 novembre, Radio Tunisi trasmise il discorso che diventerà celebre come la Déclaration. Il nuovo presidente nel pomeriggio prestò giuramento davanti al parlamento, sancendo l’inizio di una “nuova era”. Dall’avvento al potere di Ben Ali e fino al 2011, la data del 7 novembre 1987 fu celebrata come festa nazionale. La successione colse di sorpresa l’opinione pubblica nazionale e internazionale tanto per il carattere epocale del cambiamento (dopo trent’anni di “regno” di Bourguiba, eroe della decolonizzazione), quanto per la modalità rapida e apparentemente pacifica, che fu definito dagli osservatori del tempo un golpe “medico-legale”. L’economia tunisina era al collasso, vi erano forti tensioni sociali. Tra il 1986 e il 1987 si erano susseguite imponenti manifestazioni monopolizzate dal Movimento della Tendenza Islamica guidato da Rachid Ghannouchi. Nella primavera del 1987 era iniziato un braccio di ferro tra gli islamisti e il regime: il MTI controllava ormai completamente le periferie di Tunisi e nel marzo Ghannouchi era stato arrestato insieme a una trentina di dirigenti del movimento, dopo la scoperta di una rete terroristica legata all’Iran. C'erano tutte le condizioni per l'avvento dell'uomo forte. Il super flic Ben Ali, benedetto anche dalla CIA, si era guadagnato il favore del laico forsennato Bourguiba utilizzando il pugno di ferro nei confronti dei fondamentalisti, facendone arrestare migliaia e mettendo in pratica le condanne a morte. Un’intransigenza che aveva portato i suoi frutti, permettendogli di ottenere il 2 ottobre la carica di primo ministro, ambita anticamera del potere presidenziale. In questo frangente secondo l’ammiraglio Fulvio Martini, al tempo direttore del SISMI, Craxi e Andreotti, preoccupati della reazione “troppo energica” di Bourguiba al problema islamista, ordinarono ai servizi italiani di adoperarsi affinché la transizione avvenisse spargimenti di sangue: la definizione ufficiale fu “rivoluzione dei gelsomini”, la stessa paradossalmente utilizzata dai media occidentali in riferimento ai moti del 2010-2011. Ben Ali riconobbe i meriti del predecessore, che non era però più chiamato presidente o Combattente supremo com’era consuetudine, ma semplicemente leader. Ben Ali ottenne una grande popolarità sia tra gli intellettuali che tra la popolazione comune per la moderata liberalizzazione politica. Promuovendo la democrazia e la partecipazione, il nuovo uomo forte aveva saputo approfittare di una situazione caotica e sclerotizzata nei suoi estremismi: da una parte, l’estremismo religioso e la corsa al colpo di stato islamista; dall’altra il vecchio ordine. Nel febbraio 1988, durante il congresso del partito – che da Parti socialiste destourien cambiò nome e funzionari divenendo il Rassemblement constitutionnel démocratique (RCD) –, Ben Ali propose un patto nazionale tra tutte le componenti partitiche e associative per fronte alle difficoltà. Monsieur le président mitigò il laicismo esasperato del predecessore svolgendo l’omra, la visita privata ai luoghi santi, e promosse una “reislamizzazione dall’alto” caratterizzata da alcuni provvedimenti simbolici: riapertura dell’Università islamica della Zitouna, introduzione dell’appello alla preghiera alla radio e alla televisione. Nel quadro della liberalizzazione politica anche il MTI doveva essere sdoganato e il 6 novembre 1988 Ghannouchi, a cui era stata risparmiata la vita, venne ricevuto a palazzo. Durante il periodo successivo si assistette all’allontanamento progressivo del governo dai propositi iniziali. Le elezioni legislative e presidenziali dell’aprile 1989 segnarono la fine dello “stato di grazia”. Il presidente raccolse tutti i partiti del Patto nazionale in unica lista alla quale avrebbero potuto partecipare anche gli islamisti, che per ottenere l’agognata legalizzazione cambiarono il nome da MTI in Ennahda (“Rinascita”), seguendo una norma comune ad altri paesi arabi, che impone l’eliminazione di ogni riferimento alla religione nella sigla del partito. Nell’imminenza dello scrutinio Ennahda rifiutò la proposta del fronte nazionale, presentandosi con candidati indipendenti. Ben Ali e il RCD conquistarono l’80 per cento dei voti, ma le liste sostenute dagli islamisti ottennero in media il 14,5 per cento con punte del 30-35 nelle periferie di Tunisi. Quando Ennahda condannò le frodi delle votazioni, perse ogni speranza di legalizzazione. Il 12 maggio 1989 Ghannouchi lasciò la Tunisia per stabilirsi a Londra fino al rientro in patria nel 2011. Ben Ali allora rinnovò l'alleanza con la parte laica e modernista nominando Mohammed Charfi, ex presidente della Lega tunisina per i diritti umani (LTDH), alla carica di ministro dell’educazione nazionale. Il nuovo ministro vietò il velo nelle scuole e negli atenei e ordinò la cancellazione dai manuali scolastici i richiami alla morale islamica. La reazione degli islamisti non si fece attendere: gli studenti della Zitouna cominciarono uno sciopero che durerà sei mesi e movimenti di sostegno dilagarono ovunque. Ben Ali difese l'ordine costituito con caparbietà e, ossessionato dal contagio islamista, seguì con apprensione l’evoluzione politica della vicina Algeria, dove il FIS aveva ottenuto la prima vittoria elettorale nel giugno 1990. Durante l’estate del 1990 la crisi del Golfo fornì al regime l’occasione di recuperare i consensi del popolo profondo, schierato al fianco di Saddam Hussein: l'astuto Ben Ali, pur avendo denunciato l’invasione del Kuwait, si schierò nettamente contro l’intervento della coalizione internazionale. Colorati di nazionalismo arabo, i suoi interventi sedussero la sinistra tunisina, che si alleò al potere nella lotta contro Ennahda, il nemico N. 1 della democrazia laica. Ciò avvenne nel febbraio 1991, quando ebbe luogo l’“operazione di Bab Souika”, l’incendio da parte di presunti membri del partito di Ghannouci della sede del comitato di coordinazione del partito di governo, situata presso una delle porte della medina di Tunisi. Il nuovo corso celebrò l’associazionismo. I dirigenti delle più importanti organizzazioni non governative erano spesso personaggi di spicco del partito al potere e i membri del RCD erano ufficialmente invitati a impegnarsi sul terreno della cooperazione sociale. In questo modo le associazioni non poterono fare da controllore. Nel 1977 Bourguiba aveva sdoganato la Lega per i diritti dell’uomo, la quale negli anni novanta criticò gli abusi del regime, ma al tempo stesso fu utilizzata da Ben Ali contro gli islamisti e la loro ideologia lesiva dei diritti umani. Il rispetto dei diritti e delle libertà dei cittadini oltre che dei meccanismi elettorali democratici fu, nei ventitré anni del regime, sbandierato all’estero come fiore all’occhiello del paese. L’altra grande questione scottante all'esame del Patto nazionale fu lo sviluppo economico. Il Piano di aggiustamento strutturale imposto dal FMI era entrato in vigore ufficialmente nel 1986 e Ben Ali portò avanti le riforme necessarie all’affermazione di un’economia di mercato, che permisero alla Tunisia di raggiungere i livelli socioeconomici più avanzati della regione. Con una crescita stabile e un deficit pubblico modesto il paese fu assunto a modello di sviluppo e si parlò negli anni novanta di “miracolo tunisino”. Nel 1995 la Tunisia, prima tra le realtà nordafricane, firmò un accordo bilaterale con la Comunità europea in vista della realizzazione di una zona di libero scambio, divenuta effettiva nel 2008. Nel 1992 fu istituito un Fondo di solidarietà nazionale per combattere la povertà, su cui ogni anno privati e imprese erano invitati a versare il proprio contributo. Le possibilità di accesso nel sistema economico erano strettamente legate al partito RCD. Con più di 2 milioni di aderenti (su 9 milioni di abitanti!), il RCD costituiva la spina dorsale del “sistema Ben Ali”. Le cellule del partito sorvegliavano la popolazione per prevenire ogni rischio di contestazione. Il clientelismo di stato forniva lavori, licenze per attività legali e addirittura per quelle illegali, facilitazioni amministrative e bancarie, alloggi e, ai suoi membri attivi, la possibilità di una rapida ascesa sociale. La first lady Leila Trabelsi e la sua famiglia controllavano il settore immobiliare e quello della grande distribuzione. La corruzione del regime era nota a quegli stessi organismi internazionali che riempivano di elogi la buona volontà tunisina, ma che ritenevano non fosse rilevante dal punto di vista macroeconomico. Dopo l’11 settembre 2001, Ben Ali, castigamatti del fondamentalismo islamico, aveva presentato la Tunisia come paese arabo in prima linea nella lotta al terrore e nell’affermazione di una democrazia per gradi, ma anche all’avanguardia nella legislazione sulle donne nonché esemplare nell'applicare le ricette del FMI. La dura legge antiterrorismo del 2003 aveva reso il presidente tunisino un alleato chiave per l'Occidente. Nei lunghi anni del regime di Ben Ali non mancarono episodi di contestazione popolare o di categorie professionali finalizzate a scalfire il mito del “miracolo” che aveva prodotto anche disoccupazione, precarietà e corruzione. Ennahda, membro attivo del Consiglio europeo della Fatwa legato ai Fratelli musulmani, esiliato a Londra e Parigi, si rifece vivo. Nel 1998 aveva dato avvio alla cosiddetta svolta democratica. All’inizio degli anni duemila vi erano stati alcuni segnali distensivi e di “riconciliazione nazionale” da parte del regime, che aveva inviato emissari in Svizzera per incontri segreti con esponenti di Ennahda.