Se vogliamo far risorgere l’Italia dobbiamo fare largo alle imprese. L'imprenditore ha il multipolarismo nel sangue; per lui il multipolarismo è la regola: i miei soldi li investo dove mi conviene, faccio accordi con chi mi pare e piace senza guardare il pedigree razziale, religioso o ideologico. Insomma, non ho la mistica mendace dei diritti umani: mi curo esclusivamente del profitto e osservo solo il rendimento dei titoli. L'uomo d’azienda è un tipo sveglio e pragmatico che visitando innumerevoli nazioni ha modo di confrontare lo sconfortante degrado delle città occidentali (non le province o le periferie, che sono squallide ovunque: i centri storici!) con le skylines invidiabili e la laboriosa e ordinata vivacità che contraddistingue città come Astana, Mosca e San Pietroburgo, per non parlare delle megalopoli cinesi. Poi atterra a Roma, Napoli, Milano, Bologna (o a Parigi, sotto la torre Eiffel) e trova coree, lazzaretti, quartieri dormitorio brulicanti di africani cenciosi, accattoni, gigolette, pusher nigeriani e loschi taglieggiatori magrebini pronti a portarti via la borsa e la vita. Un caos patrocinato dalle destre fellone e conniventi, benedetto dagli avvoltoi di certo clero e dal buonismo sinistrorso che specula sull’accoglienza; una babele infame che genera insicurezza, diffidenza, disgusto: pessimo habitat per chi vuole investire e produrre e vivere tranquillamente. Stiamo descrivendo, forse con toni un po’ caricati, il dissesto antropologico di una civiltà. Inutile e irritante scomodare la solita litania sulla cattività atlantica. Chi lascia lo spazio urbano in quelle condizioni miserevoli non nutre rispetto per la cittadinanza e per la storia del proprio paese. Forse neanche per sé stesso. L’Italia fattiva, terra di mercanti e imprenditori, ha già deciso: si alla Via della Seta. In passato, il commercio con l’Oriente, nei modi e nei tempi giusti, ci ha avvantaggiato e arricchito. Purtroppo, checché ne dicano i marxisti e i comunisti duri e puri, lo Stato non è il comitato d’affari della borghesia, almeno non della borghesia mercantile e imprenditoriale aperta e lungimirante. Altrimenti avrebbero già provveduto a sfiduciare l’attuale establishment politico inadempiente e parassitario. Già, il politico. Il politico italiano odierno è un uomo profondamente immorale; è uno che di giorno fa la spola dalla sede del partito, del parlamento e (se è ministro) del governo agli studi televisivi mentre la sera, presumibilmente, va a rapporto dall'ambasciatore americano o da qualche ONG sorosiana. Per il politico medio e mediocre viaggiare significa perdersi nella pacchianeria turistica (anche sessuale?) e incontrarsi con tipi umanamente declassati a lui affini. Stop. Con chi parla, il nostro delegato? Con giornalisti ignoranti come la merda che sgomitano per raccogliere le sue invereconde banalità enunciate in politichese stretto con sottotitoli in mafiese legale. Ecco perché ritengo che sia preferibile farci rappresentare dai cavalieri d'industria e dai piccoli e medi imprenditori, anziché da sottoprodotti della commedia dell’arte come Antonio Tajani o da candidati manciuriani come Elly Schlein o Giorgia Meloni.

Recuperare la geografia, l'etnografia e l'etnologia.


In un paese amministrato da normodotati, la televisione dedicherebbe un canale tematico a ciascuno dei sette continenti, le famose terre di là dagli oceani e dai monti. Ciò suonerebbe come un invito a riscoprire la geografia, la grande assente dai programmi scolastici e dal dibattito. Basta con i ragionamenti da turista Alpitour! Il turismo occasionale, massificato, ti consente di farti un’idea assai approssimativa dei forestieri. Il turista vive dentro una campana di vetro e osserva la realtà dalla terrazza del suo resort, allettato da una topografia accattivante (Fiume dei Profumi, Nilo azzurro ecc.). Una ingannevole concezione dell’esotico improntata a un neoclassicismo laccato a base di scenette idilliche e pruriginose popolate da flabellieri, eunuchi e odalische svestite. Quanti di noi conoscono sul serio la geografia in senso lato, l’etnografia e l’etnologia? Prendersela con le manchevolezze della televisione è come sparare sulla Croce Rossa: per gli ecopirla di Raitre esistono solo pastori e zappatori, a prescindere dalla latitudine e dal contesto. La geografia, studiata e divulgata seriamente, è una finestra sul mondo, una disciplina imprescindibile per un popolo che vuole farsi strada. Lo scopo non è tanto imbottire lo spettatore di nozioni facili e opinioni premasticate, ma di far capire che in un popolo diverso e lontano si nasconde un potenziale cliente. Vi sembra poco per la nostra struttura economica fondata sulle esportazioni? A me sembra un compito di primaria importanza. Per il sistema italiano è importante conoscere i propri clienti senza filtri ideologici, tabù e infingimenti. Un ipotetico programma di geografia dovrebbe snocciolare dati e immagini, dare voce a un campione rappresentativo della popolazione locale, scandagliarne l’anima profonda, andare al di là delle barriere. Il conduttore si limiterebbe a introdurre ogni capitolo senza l'intrusione indebita e il baccagliare dei propagandisti capiscioni. Una trasmissione che manca come il pane nel palinsesto di qualsiasi canale, soprattutto al cosiddetto servizio pubblico ostruito dai nei onnipresenti di Bruno Vespa, che col suo Cinque minuti ci sbologna l'ennesimo format con i soliti noti che si parlano addosso.

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