Il ritrovamento del cadavere della povera Giulia Cecchettin non mi ha lasciato sorpreso. Le modalità della sparizione erano troppo sospette per poter fantasticare di fuga a due (come se fossimo in un romanzo Harmony) o di rapimento (come in un film americano). Avrei scommesso proprio in una tragedia di questo tipo, e restava solo da vedere se il suo ex sarebbe stato ritrovato vivo o morto.

La cosa che emerge, una volta di più, e che è degna di essere ricordata, però, non è la solita broda sui femminicidi in vertiginoso aumento o il maschilismo tossico che incombe, anche perché sono entrambe due colossali balle, ma qualcosa di più simile al loro contrario. La totalità dei mezzi di disinformazione di massa, infatti, preme sin da subito sulla ben rodata litania, e questo nonostante sia ben chiaro a chiunque, da uno sguardo alle statistiche, che non esista nessuna persecuzione diretta alle donne italiane: su 102 donne assassinate da inizio anno, solo 82 lo sono state in ambito familiare e di queste 53 dal partner (attuale o ex). Chiaro che se un tale uccide la cognata per questioni di eredità il maschilismo difficilmente può essere invocato, ma non sottovalutiamo la stampa italiana: l'Adnkronos ha già messo nel minestrone tutte e 102 le vittime per “lanciare l'allarme”. L'anno scorso erano state rispettivamente 120, 97 e 57, quindi un livello paragonabile (alla fine dell'anno manca ancora meno di un mese e mezzo e ovviamente speriamo di fermarci qui). Quanto al maschilismo tossico, il discorso merita un più ampio sviluppo.

Per “maschilismo” si intende comunemente un atteggiamento, da parte dell'uomo, rude, possessivo, e incurante della personalità della donna, quando non apertamente violento verso mogli e figlie. Un ritratto che è una caricatura, se si pensa che i nostri nonni, gli unici ad essere cresciuti in un'epoca pienamente patriarcale (i padri già sono vissuti nell'era della contestazione), raramente possono essere descritti a questo modo. Per lo meno i miei: gente che è nata durante una guerra mondiale e ne ha vissuto un'altra sotto le armi, ha conosciuto la fame del '43 (divenuta proverbiale) e le ristrettezze del dopoguerra, e ciononostante ha tirato su famiglie numerose (uno aveva qualcosa come sei fra figli e figlie), con una sola fonte di reddito, senza opprimere né tanto meno fare violenza alle donne di casa, ma, pur avendo la legge dalla loro (la riforma del diritto di famiglia è solo del 1975) non hanno né imposto matrimoni né condizionato scelte come quelle degli studi o del lavoro. Ma anche ammettendo che, tolti loro, tutti gli altri uomini d'Italia e d'Occidente fossero dei capitribù che sfruttavano le donne come schiave, barattandole con un genero gradito e correggendo ogni dissapore con qualche buona legnata, il problema attuale sembra essere tutt'altro che l'influenza di questo tipo di esempio.

Perché, da quel poco che si sa dei due giovani protagonisti di questa tragedia, né loro né la loro relazione sembra ricalcare alcuna delle linee della caricatura di patriarcato contro cui da subito (come se non stessero aspettando altro) un buon numero di commentatori si sono scagliati. Due ragazzi giovani, entrambi ventiduenni, poche altre relazioni alle spalle, vite prive di eccessi o stravizi, mai un'ombra di prevaricazione o di morbosità tali da destare preoccupazione, entrambi studiosi, provinciali figli di lavoratori con un prevedibile futuro privo di grandi esaltazioni ma anche di grandi ristrettezze: il sogno di ogni genitore, checché ne dicano oggi i cacciatori di storie torbide con annesso mostro a posteriori.

Ma la fine di una relazione ha fatto precipitare lui, portandolo all'omicidio e alla fuga, tutt'altro che rocambolesca, finita col facile e rapido arresto. Ecco, se una riflessione c'è da fare su questa storia, e sulle similitudini con altre, è questa: se a far crollare la psiche di un giovane uomo portandolo ad uccidere un'innocente che l'aveva amato e a distruggere, oltre alla sua vita, la propria, basta un evento banale come la fine di una semplice relazione sentimentale durata non certo decenni, allora nella nostra società c'è un problema non di maschilismo, ma di maschi fragilizzati sino al limite del disturbo psichico. Non di patriarcato né di maschilismo tossico siamo testimoni, ma di esempi da manuale di maschi annichiliti e resi incapaci di accettare il minimo intoppo nella vita, privi di equilibrio e di forza d'animo, quelle cose che facevano i patriarchi di una volta, gente solida, coi piedi ben piantati per terra e capaci di gestire situazioni molto più problematiche di una lite fra fidanzatini.

Dove starebbe qui il “patriarcato”? Un evento qualsiasi, come il tornare single, fa perdere ogni controllo di sé ad un ragazzo che, nelle condizioni in cui era, avrebbe dovuto semplicemente andarsene a festeggiare con gli amici e voltare pagina. Ma se proprio la ex era così importante per la sua vita (o almeno così credeva, perché a quell'età nessuna relazione può essere così fondamentale), la reazione di una persona con appena di autocontrollo e razionalità sarebbe stata quella di dare un taglio con tutto quello lo circonda e che ora gli ricorda solo il suo fallimento e la sua infelicità e partire, ricominciare da zero. Ma dico, hai ventidue anni, sei benestante, istruito, stai a due passi dalla frontiera, a poche ore di auto hai Praga, Budapest, la Germania: a me non sarebbe sembrato vero partire, cambiare paese, imparare una lingua, cogliendo la palla al balzo per ricominciare una vita nuova e piena di sorprese. Che razza di psiche può avere uno che invece va ad ammazzare la ex e poi, senza soldi né un piano, fugge a caso verso nord cercando su internet, all'ultimo momento, informazioni su come sopravvivere nei boschi, manco fosse Rambo, uno che si fa beccare come un pirla per finire in galera da assassino? È una psiche da bambino, neppure da ragazzino, incapace di valutare opportunità e rischi, e soprattutto di comprendere la gravità delle azioni e il peso della loro responsabilità. Patriarcato? Ma qui siamo al rimbambimento da videogiochi.

Quindi, se qualcuno vuole puntare su un problema, non è al maschilismo violento che deve guardare, ma semmai proprio al fatto che esistano maschi incerti e dall'equilibrio sempre sul punto di andare in frantumi, frutto di una società che sta colpevolizzando l'essere maschio tout court, e invece di esempi da seguire offre evasione e obbiettivi di consumo. Senza che questo giustifichi il caso di Turetta, ma allora bisogna evitare facili scappatoie: se lo si guarda come un caso singolo, è solo materia per la magistratura. Se invece si vuol porre un problema generale, allora non si può tirare in ballo il “maschilismo tossico”. Perché dove lo avrebbe visto tutto 'sto maschilismo in giro il Turetta? In una società in cui ormai chiunque, da tutti i mezzi di (dis)informazione, si spende “per le donne” e fa il mea culpa se ha avuto la ventura di nascere maschio, chi gli avrebbe instillato un'educazione da Barbablù? Gli insegnanti uomini alle elementari, che non se ne vedono forse da quarant'anni? O le star come Piero Pelù, che oggi scrivono “mi vergogno di essere uomo”, come se essere uomini ci faccia tutti ipso facto complici di omicidio? O l'ineffabile Mentana, che commentando il caso tratta l'uccisione di donne come “un nostro costume”. “Nostro”? Non so se a casa sua sia costume accoltellare le donne, ma di scuro non è l'educazione che i miei “patriarchi” mi hanno dato: neppure ricordo di aver mai visto un mio familiare dare uno schiaffo alla moglie o alla figlia. Se esistono dei Filippo Turetta, ciò è dovuto a ruoli maschili mal interpretati o assenti nella vita privata, modelli maschili evanescenti che non gli hanno mostrato i pilastri del saper vivere e del rispettarsi, prima ancora che del rispetto per il Codice Penale. Bisognerebbe chiedersi quante ore ha passato a parlare seriamente della vita col padre o con figure maschili di rilievo, e quante davanti ad uno schermo ad alienarsi con una realtà virtuale senza rischi né pericoli. Se ha avuto insegnanti uomini carismatici ed esemplari, e non poveracci depressi perché tenuti sotto schiaffo da colleghe e genitori o semplici inetti che hanno vinto in qualche modo un concorso e hanno come unico obbiettivo quello di arrivare alla pensione, indifferenti a tutto il resto. E se qualcuno, da amico, gli abbia mai fatto capire quanto difficile e terribile, ma anche bellissimo e straordinario sia vivere la vita, e come dietro ad ogni fallimento c'è la strada per una nuova libertà, e dietro ad ogni relazione finita la promessa di una nuova, diversa e ricca di bellezza. Non il pastone propagandistico che ci ammorba da anni, giorno e notte, sul fatto che siamo tutti colpevoli se non corrispondiamo a quello che ci si aspetta da noi, sia esso lo Stato, la famiglia, la scuola, e le mille voci prezzolate di stampa e tv che pretendono di spiegarci cosa fare e cosa pensare, mai come tirarci fuori dal più banale dei problemi.

Ma andatelo a spiegare a quelle che ieri sera, appena avuta notizia del ritrovamento del cadavere, sono corse in piazza a manifestare “contro il Patriarcato”, come se fosse il secondo nome di Filippo Turetta.


Era proprio un saggio Julius Evola, quando definì, in tempi non sospetti, il femminismo come “scemenza”.

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L'immagine si adatta perfettamente al pezzo: il malato d'amore di Grosz, circondato da simboli di morte (la lisca, l'avventore-scheletro, il cane addormentato o forse morto), ebbro di fantasticherie frivole e con quell'ancora profeticamente tatuata sulla tempia.
 

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Friedrich von Tannenberg
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