Dopo aver scritto lo scorso articolo sull'Armenia, e di come gli armeni siano stati del tutto dimenticati dal dibattito pubblico e dal giornalismo (se non per qualche servizio estemporaneo e che non spiega nulla di come si sia arrivati ad oggi), mi è venuto da pensare che non si tratti dell'ultimo caso di questo tipo, ma che ve ne siano altri, anche più significativi.

Da buon progressista, negli anni '90 e 2000, non mi bastava ricevere il Verbo dalla stampa “libera e indipendente”, quella progressista, ma compravo anche raccolte di articoli, come quelli di Travaglio e Cordero, che oggi rivelano un indubbio pregio: mentre gli articoli dei quotidiani sono spariti con la carta straccia, i libri sono rimasti, e rendono testimonianza di cose che altrimenti non sarebbero facilmente dimostrabili. Ad esempio, che temi e soggetti all'epoca al centro della discussione, e che monopolizzavano l'attenzione del pubblico, oggi sono semplicemente scomparsi, e non certo perché ne è scomparsa la materia o la sua urgenza.

Uno è la questione palestinese. Non sono di quelli che hanno mai avuto particolare simpatia per i palestinesi, anzi. Negli anni in cui per dirsi “di sinistra” era praticamente obbligatorio indossare una kefiah e dichiararsi antisionisti, io ero sionista. E per questo mi beccavo spesso l'etichetta di “fascista” da qualche adulatore. Erano anni in cui i giornali del gruppo Repubblica-L'Espresso seguivano con ansia anche l'esplosione di un mortaretto fra il Giordano e il Mediterraneo, e chiunque volesse essere considerato di sani sentimenti progressisti dichiarava forte e chiaro di essere per il diritto dei palestinesi (a cui faceva invariabilmente precedere l'aggettivo “poveri”) ad avere una terra e uno Stato. Se saltava in aria un'autobomba palestinese era “resistenza”, se la bomba era israeliana era “terrorismo di Stato”. Si era al punto in cui, come mi disse seriamente un ex-amico di quel tempo, pasionario virtuale (ma che non rischiò mai nulla di suo), “la questione palestinese è il discrimine con cui giudicare se si è con noi o contro di noi”. Addirittura.

E oggi quel discrimine dov'è? Se ci fate caso, la questione palestinese è semplicemente sparita. Azzerata, dissolta, silenziata. Nel frattempo, però, non sembra successo nulla che giustifichi un tale congedo tombale: i palestinesi sono sempre là, il loro Stato no, la loro lotta armata non è minore di prima. Il muro c'è sempre, i coloni pure, una soluzione che porti alla convivenza mai. Eppure, ad aprire un giornale o un telegiornale mainstream, si fatica non poco a trovare non dico l'equivalente, ma anche solo l'ombra di un qualsiasi interesse per quel che accade a Gaza o nel resto dei Territori occupati. Pare che da un po' di tempo a questa parte, invece, non freghi letteralmente nulla a nessuno di quella gente e di ciò che le accade. Ci sono sempre inviati a Tel Aviv o Gerusalemme, ci sono sempre servizi ed articoli, ma trattano delle elezioni israeliane o di una manifestazione contro il governo, tutta roba interna ad Israele, come se i palestinesi non esistessero più.

Idem per un'altra grande assente dal dibattito contemporaneo, la Costituzione. Negli anni di Berlusconi pareva perennemente in grave pericolo, sempre sull'orlo dell'annientamento, minacciata di sfregi o sequestri a mano armata. Il pericolo fascista su di lei era sempre incombente, saltimbanchi e fieri costituzionalisti (una professione all'epoca piuttosto quotata) riempivano i teatri e i paginoni centrali manco fossero Carmelo Bene o le conigliette di Playboy, per farci sapere che lei, la Nostra, era la più bella del mondo (in realtà scopiazzata e mediocre) e bisognava difenderla ad ogni costo, pena la caduta nel Regime e nella barbarie, perché era da lei che dipendeva la nostra libertà e i nostri diritti. Berlusconi pareva un orco in procinto di divorarla fra un bunga-bunga e una barzelletta. E poi? Poi vennero i governi-fantoccio di Monti e Letta, patrocinati da quel sinistro becchino di Napolitano che avrebbe dovuto fare da “guardiano della Costituzione” e invece fece da macellaio; poi arrivò a metterci mano anche Renzi, con un progetto di modifica che finì in un fiasco come tutto ciò che quel losco figuro abbia intrapreso; quindi, più che la goccia, arrivò un diluvio a far traboccare il vaso con la cosiddetta pandemia. La Costituzione venne violata, sospesa, e infine la sospensione venne protratta senza alcuna formalità o pronuncia di chicchessia oltre i termini previsti dalla stessa. Non ricordo che su questi eventi, che in un qualunque paese democratico con una stampa degna di questo nome sarebbero stati tacciati di colpo di Stato, abuso da regime autoritario, sia nata alcuna discussione pubblica (si intende fuori da quei circoli ribelli, sempre più prevaricati e segregati, calunniati e bollati come “complottisti” e “no-vax”). Nessuno, dalla Corte Costituzionale alla Presidenza della Repubblica, dal Parlamento alle procure locali, alzò un sopracciglio di fronte a chi metteva la sacra carta al posto della carta igienica, e anzi, tutte le istituzioni collaborarono attivamente a questo risultato, complici e volonterosi carnefici. Ma neppure sentii quei giornalisti dedicare spazio all'equivalente legale di una bomba atomica su quegli stessi fogli che, anni prima, perdevano il fiato su cosiddetti “attentati alla Costituzione” quando governava Berlusconi. Né nessuno della torma paludata di “costituzionalisti” uscì dal profondo letargo per accorgersi che, finalmente, c'erano violazioni tanto grosse da essere persino grottesche dell'amata e riverita Carta, ma tacquero e continuarono a tirare avanti ritirando lo stipendio di magistrato o professore universitario. Un certo Michele Ainis, che ricordo aver avuto una rubrica fissa sull'Espresso ed essere ospite altrettanto ricercato su Repubblica (le due cose erano automatiche), e che riempiva colonne su colonne per spiegarci come e quanto gravemente il Caimano stava mettendo a rischio, articolo per articolo, quel prezioso baluardo di libertà, non fece altro che dichiarare, dopo l'estensione oltre il termine massimo della sospensione della legge fondamentale dello Stato, che si trattava di “un evento inopportuno”. E mica con tono afflitto o voce ansiosa, ma semplicemente così, come se si trattasse di constatare un raffreddore fastidioso. E dire che anni prima chi, come me, lo leggeva, si chiedeva seriamente se fosse il caso di iniziare forme di lotta violenta per salvare la Costituzione più bella del mondo da chi la minacciava.

Ci sono altri temi che sono passati dalla centralità all'oblio, ad esempio il regime cubano, che ancora negli anni '90 era d'obbligo difendere e oggi è tranquillamente ammesso fra gli “Stati canaglia” dagli stessi che prima giravano con la maglietta del Che, ma credo che il quadro sia chiaro. Ed è bene mettere in chiaro anche i motivi che hanno portato a questo generale voltar la gabbana che ha investito una parte rilevante della società italiana.

Sappiamo tutti che il principale partito di opposizione, in Italia, sino al 1991 sia stato il Partito Comunista, di ideologia marxista e con l'URSS come principale referente. Negli anni '90, la sua classe dirigente è passata armi e bagagli, insieme a frazioni di altri partiti ed ex-partiti della Prima Repubblica, al campo avverso. In alcuni anni, per preparare l'elettorato, le posizioni si sono sfumate sempre più e il risultato è stato che gli stessi politici, giornalisti e voci pesanti capaci di condizionare il dibattito pubblico sono passati dalla simpatia per le Brigate Rosse a quella per Wall street, dal “Capitale” di Marx al grande capitale, dai centri sociali ai salotti buoni, dalla rivoluzione mondiale alla globalizzazione, dalla collettivizzazione alla collezione di poltrone. Se la parola d'ordine prima era la lotta ai poteri forti, si sono riciclati come i principali esecutori della volontà proprio di quei poteri forti, e impegnandosi anima e corpo per dimostrare al proprio elettorato che è cosa buona e giusta. Gli argomenti centrali sono diventati altri, dalle adozioni gay all'auto elettrica, e quei vecchi (si fa per dire) temi che infiammavano le prime pagine sono diventati scomodi e imbarazzanti. Se non si può sostenere (ancora per un po') pubblicamente il contrario, meglio nasconderli sotto al tappeto, tanto la gente dimentica, e verrà il giorno in cui anche “La Repubblica” potrà parlare candidamente di “terrorismo palestinese” o di “Costituzione obsoleta” come se fosse qualcosa di autoevidente. Saranno sempre e solo cartucce in canna alle armi di distrazione di massa che permettono di concentrare lo sguardo del pubblico sul dito, e non sul volto di chi, parassita, dilapida le risorse del Paese mentre proclama di volerlo rifondare.

Viene in mente una delle scene più surreali dell'ormai abusato romanzo1984” di Orwell. Ad un comizio di regime con tanto di foltissimo pubblico armato di bandiere e striscioni, un oratore si scaglia con calore contro al “Nemico”. Ma mentre lo fa, la politica del Partito cambia, e il “Nemico” è diventato alleato, mentre il vecchio alleato è il nuovo nemico. Subito viene avvisato, e riprende le vigorose invettive, ma di segno diametralmente opposto. Gli striscioni e le bandiere vengono ritirati e sostituiti con altri, di significato contrario. E siccome, purtroppo, non si può cancellare dalla memoria del pubblico quel che si era visto appena due minuti prima, la presenza dei “vecchi” slogan viene attribuita a fantomatici “agenti provocatori” al soldo del “Nemico” (quello nuovo).

Chi oggi mette con tanto orgoglio la mascherina o esibisce bandierine ucraine dovrebbe saperlo: è solo un utile idiota che sostiene una causa in cui chi decide ha un interesse, in denaro o potere, molto rilevante. Quando questo cesserà, gli obblighi ritenuti questione di vita o di morte spariranno, i popoli esaltati come martiri finiranno nel dimenticatoio, se pure non passeranno a venir calunniati come terroristi o delinquenti, e gli stessi principi irrinunciabili diverranno ostacoli da eliminare nel cammino verso le fortunate sorti e progressive. Anche perché i veri principi non erano quelli, ma le fonti di ricchezza di chi decide di cosa si può parlare, e come.

Né più né meno che nelle tanto esecrate “dittature”.

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Friedrich von Tannenberg
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