Da due giorni è materialmente impossibile, per i cittadini russi, l'ingresso in auto nei Paesi Baltici. E non solo l'accesso su auto immatricolate in Russia è vietato, ma anche l'ingresso con bagagli o anche solo un cellulare non approvato nel mercato europeo. I russi, che hanno molto più senso dell'umorismo di estoni, lituani e lettoni (non che ci voglia poi molto), già scherzano dicendo che gli sarà permesso entrare in UE in mutande e col passaporto in mano, ma in realtà la cosa fa molto meno ridere, se si pensa che il provvedimento non ha alcuna giustificazione logica ma ha il chiaro fine di rendere ancora più tesa, con misure persecutorie, una situazione che menti non ottenebrate dall'isteria cercherebbero invece di rasserenare. E invece.
I Paesi Baltici non sono nuovi a questo genere di taglieggiamenti legalizzati. Molti ricorderanno gli infami passaporti grigi, in inglese definiti “Alien's passport” come se fossero destinati a delle creature extraterrestri, creati per servire da discriminante per i cittadini di origine russa, ucraina o di altre repubbliche ex-sovietiche e che rendevano, al possessore, un'esistenza miserabile senza diritto di voto e persino di espatrio, come dei prigionieri in casa propria, dato che la maggior parte dei possessori in quei paesi era nato o viveva da trenta, quarant'anni. Il fine era chiarissimo: forzare la popolazione non etnicamente estone (o lettone) a lasciare il paese. Dopo decenni di applicazione, e di manifesta inefficacia, in Estonia questa legislazione da segregazione razziale è in gran parte caduta. Non così in Lettonia, dove continua ad essere allegramente in vigore. Avete mai sentito l'Unione Europea delle von der Leyen minacciare sanzioni o l'isolamento per questo? Ci sono state campagne stampa, in Italia o altrove, a stigmatizzare una legislazione degna delle leggi razziali che invece ci vengono fatte ricordare a date fisse? Sembra che queste siano riservate all'Ungheria di Orban, per molto meno. Ma c'è di peggio.
Lo scorso giugno, Zoya Palyamar, un'anziana che viveva in Estonia continuativamente da quarant'anni, ha attraversato il confine con la Russia in autobus, diretta a San Pietroburgo per andare a trovare dei parenti. Immediatamente dopo essersi lasciata alle spalle il posto doganale di Narva, ha ricevuto un sms dalle autorità estoni con cui le veniva notificato lo status di “persona non grata”, e le si vietava di tornare indietro. Anche senza considerare che la donna non aveva commesso alcun crimine e in Estonia aveva tutto, la casa, una pensione, una famiglia (figlia e due nipoti, cittadini estoni a tutti gli effetti ma forse a Tallinn stanno studiando il modo di espellere anche loro come agenti russi), tutto quello che si definisce comunemente “una vita”, la misura è così surreale da meritare come minimo qualche attenzione da quelle autorità europee che si fregiano della sorveglianza sul rispetto dei diritti dell'uomo. Ma dopo mesi, non sembra che la situazione di questa cittadina europea abbia suscitato, a occidente, l'ombra di quelle tremebonde intemerate che vengono abitualmente dedicate ai “poveri fratelli migranti che scappano dalla guerra”.
Qualcosa di simile era accaduto al compianto Giulietto Chiesa, uno dei pochi che, in Italia, potessero ancora fregiarsi senza vergogna del titolo di giornalista, quando, alcuni anni fa, si era recato proprio in Estonia per una conferenza. Chiesa non aveva mai nascosto la sua visione delle cose, stava dalla parte della Russia e dei Paesi contrapposti al blocco occidentale, ma era una posizione lecita e degna di rispetto, oltre che assolutamente ben argomentata. Non sembrò così alle autorità estoni, che andarono a prelevarlo in albergo e gli notificarono un provvedimento di espulsione come “persona non grata”. Anche allora, nessun interesse da parte delle autorità nazionali italiane e sovranazionali europee. Né dell'ordine dei giornalisti, e neppure di singole testate, che evidentemente esistono per taglieggiare quei membri che sgarrano nelle definizioni politicamente corrette, e non per difendere la libertà di espressione di un loro collega sancita dalla cosiddetta “Costituzione più bella del mondo”.
Questa è l'Europa che sognavano i celeberrimi “padri fondatori”, dai deliri di Ventotene (“siccome i governi nazionali hanno portato la guerra, eliminiamoli”) a quelli di Maastricht: e questi sono i “nuovi europei” che, nei proclami, arrivavano ad imparare cosa fossero libertà e democrazia, e invece risultano essere loro quelli che insegnano a noi come si faccia ad opprimere e segregare i propri stessi cittadini. Perché non si tratta di questi semplici casi, ma, dal famoso 24 febbraio 2022, di una psicosi che ha investito tutti gli ambiti di vita, civili e culturali, e che non si hanno altre parole per definirla se non “russofobia”.
Dall'inizio dell'Operazione Speciale, infatti, non si contano le iniziative censorie radicali, sino ad essere grottesche, aventi come effetto quello di cancellare ogni riferimento a eredità culturali di origine russa presenti su suolo europeo. Ribattezzare tutto ciò che richiamava la Russia è stato il più blando: così un quadro di Degas, conosciuto da oltre un secolo come “Le ballerine russe”, è diventato, per la gioia del regime di Kiev, “Le ballerine ucraine”, e il balletto russo è stato riproposto in cartellone nei teatri come “balletto ucraino”. Ci voleva una guerra per far rivedere la luce alle masse di un continente così ottenebrato da non sapere, in un secolo e oltre, che il celebre “Lago dei cigni” era patrimonio di Bandera più che di Čaikovskij. Così come, ad un vertice NATO in Spagna, l'anno passato, si dovette ovviare all'imbarazzo dei partecipanti per la presenza, nel menu, di una minacciosa insalata russa riscrivendolo con una nuovissima “insalata ucraina”. La cosa sconcertante è che ci sia stata gente (o forse si trattava di molluschi) che, al leggere “insalata russa”, si sia sentita davvero in imbarazzo. E che qualcuno con un posto di responsabilità, invece di consigliare uno psichiatra, abbia trovato una soluzione così surreale.
Ma questo è il meno. Nello stesso periodo, ad esempio, un corso su Dostoevskij fu cancellato da un'istituzione come l'università di Milano-Bicocca, solo per venire riproposto all'autore a patto che includesse anche autori ucraini. Come se Dostoevskij fosse una figura così negativa da bilanciare con altri autori (ma quali?) che si suppone i luminari della Bicocca giudicassero più “positivi”. Un altro docente universitario (!) lamentava l'eccessivo interesse (sic) dei propri studenti per Dostoevskij e proponeva di sostituirlo con le Pussy Riot (cito verbaliter. E sì, contro il povero Fedor c'hanno la fissa, mai che se la prendano con Esenin o Gorkij).
Ancora. La soprano di fama internazionale Anna Netrebko è stata soggetta alla cancellazione di tutte le sue parti nelle opere per cui aveva dei contratti per mesi, sino a quando, dietro esplicita pressione (qualcuno lo chiamerebbe “ricatto”) delle istituzioni che gestiscono le rappresentazioni operistiche, non ha preso le distanze dal governo russo. Dopodiché, come per miracolo, ha ricominciato ad ottenere parti come prima. E non si contano i musicisti che, per il solo fatto di essere russi, hanno visto cancellate le proprie performance con o senza il ricatto di una presa di posizione politica. Mentre quindi la nostra stampa igienica ci spiega perché la Russia sia uno stato mafioso, all'interno del paradiso delle libertà si usano mezzi coercitivi mafiosi inseriti in un modus operandi da inquisizione religiosa per piegare i recalcitranti, i quali sono sospetti per la loro stessa etnia o nazionalità e dai quali ci si aspetta come minimo un'abiura. Come accadeva qualche tempo fa, sempre negli stessi posti. Corsi e ricorsi.
Ovunque, siamo stati e siamo tutt'ora sottoposti ad un tentativo di cancellare e distanziare ogni traccia della cultura russa dalla nostra vita e storia. Una pletora di scribacchini, funzionari e saltimbanchi pronti a vendere la madre per collezionare poltrone e compiacere il proprio capo getta fango su tutti i prodotti e rappresentanti di una delle principali fonti della civiltà continentale, a volte con effetti demenziali, ma sempre con malignità e volontà di nuocere, e la pretesa di sostituire i nomi tutelari della letteratura, della musica e della poesia con qualche surrogato ucraino (!) o locale. L'unico effetto è l'impoverimento, lo capirebbe anche un bambino, ma sembra proprio non importi granché a gente il cui unico obbiettivo è il controllo, e non l'arricchimento culturale. In questo i poveri baltici e polacchi, sempre all'avanguardia nell'isteria russofoba, fanno da utili idioti (e vi eccellono) accanendosi su statue che, oltre trent'anni dopo la caduta dell'URSS non rappresentano altro che monumenti storici, e non un tiranno ancora fresco nel ricordo, per cancellare tutto, ma proprio tutto ciò che abbia su di sé lo stigma della provenienza slavo-orientale. Le biblioteche estoni svuotano i propri scaffali dei classici della letteratura in cirillico, e mettono in scatoloni pile e pile di libri destinati al macero (li ho visti io, e mi piangeva il cuore a non poterli salvare tutti portandomeli a casa).
Alla fine di un processo così ampio, seppur caotico, e che non risparmia niente e nessuno, il risultato è quello di ogni operazione che porta a dividere il genere umano in noi/loro, buoni/cattivi, etc. La disumanizzazione del “nemico”, la mostrificazione dell'altro, in modo che poi qualsiasi ulteriore misura sia possibile. Certo stavolta il gioco comporta qualche rischio in più rispetto a quando l'Altro era lo schiavo, l'eretico o l'ebreo: l'Altro, stavolta, è una potenza nucleare inserita in un'alleanza globale più ricca e fornita di risorse di noi.
I Paesi Baltici non sono nuovi a questo genere di taglieggiamenti legalizzati. Molti ricorderanno gli infami passaporti grigi, in inglese definiti “Alien's passport” come se fossero destinati a delle creature extraterrestri, creati per servire da discriminante per i cittadini di origine russa, ucraina o di altre repubbliche ex-sovietiche e che rendevano, al possessore, un'esistenza miserabile senza diritto di voto e persino di espatrio, come dei prigionieri in casa propria, dato che la maggior parte dei possessori in quei paesi era nato o viveva da trenta, quarant'anni. Il fine era chiarissimo: forzare la popolazione non etnicamente estone (o lettone) a lasciare il paese. Dopo decenni di applicazione, e di manifesta inefficacia, in Estonia questa legislazione da segregazione razziale è in gran parte caduta. Non così in Lettonia, dove continua ad essere allegramente in vigore. Avete mai sentito l'Unione Europea delle von der Leyen minacciare sanzioni o l'isolamento per questo? Ci sono state campagne stampa, in Italia o altrove, a stigmatizzare una legislazione degna delle leggi razziali che invece ci vengono fatte ricordare a date fisse? Sembra che queste siano riservate all'Ungheria di Orban, per molto meno. Ma c'è di peggio.
Lo scorso giugno, Zoya Palyamar, un'anziana che viveva in Estonia continuativamente da quarant'anni, ha attraversato il confine con la Russia in autobus, diretta a San Pietroburgo per andare a trovare dei parenti. Immediatamente dopo essersi lasciata alle spalle il posto doganale di Narva, ha ricevuto un sms dalle autorità estoni con cui le veniva notificato lo status di “persona non grata”, e le si vietava di tornare indietro. Anche senza considerare che la donna non aveva commesso alcun crimine e in Estonia aveva tutto, la casa, una pensione, una famiglia (figlia e due nipoti, cittadini estoni a tutti gli effetti ma forse a Tallinn stanno studiando il modo di espellere anche loro come agenti russi), tutto quello che si definisce comunemente “una vita”, la misura è così surreale da meritare come minimo qualche attenzione da quelle autorità europee che si fregiano della sorveglianza sul rispetto dei diritti dell'uomo. Ma dopo mesi, non sembra che la situazione di questa cittadina europea abbia suscitato, a occidente, l'ombra di quelle tremebonde intemerate che vengono abitualmente dedicate ai “poveri fratelli migranti che scappano dalla guerra”.
Qualcosa di simile era accaduto al compianto Giulietto Chiesa, uno dei pochi che, in Italia, potessero ancora fregiarsi senza vergogna del titolo di giornalista, quando, alcuni anni fa, si era recato proprio in Estonia per una conferenza. Chiesa non aveva mai nascosto la sua visione delle cose, stava dalla parte della Russia e dei Paesi contrapposti al blocco occidentale, ma era una posizione lecita e degna di rispetto, oltre che assolutamente ben argomentata. Non sembrò così alle autorità estoni, che andarono a prelevarlo in albergo e gli notificarono un provvedimento di espulsione come “persona non grata”. Anche allora, nessun interesse da parte delle autorità nazionali italiane e sovranazionali europee. Né dell'ordine dei giornalisti, e neppure di singole testate, che evidentemente esistono per taglieggiare quei membri che sgarrano nelle definizioni politicamente corrette, e non per difendere la libertà di espressione di un loro collega sancita dalla cosiddetta “Costituzione più bella del mondo”.
Questa è l'Europa che sognavano i celeberrimi “padri fondatori”, dai deliri di Ventotene (“siccome i governi nazionali hanno portato la guerra, eliminiamoli”) a quelli di Maastricht: e questi sono i “nuovi europei” che, nei proclami, arrivavano ad imparare cosa fossero libertà e democrazia, e invece risultano essere loro quelli che insegnano a noi come si faccia ad opprimere e segregare i propri stessi cittadini. Perché non si tratta di questi semplici casi, ma, dal famoso 24 febbraio 2022, di una psicosi che ha investito tutti gli ambiti di vita, civili e culturali, e che non si hanno altre parole per definirla se non “russofobia”.
Dall'inizio dell'Operazione Speciale, infatti, non si contano le iniziative censorie radicali, sino ad essere grottesche, aventi come effetto quello di cancellare ogni riferimento a eredità culturali di origine russa presenti su suolo europeo. Ribattezzare tutto ciò che richiamava la Russia è stato il più blando: così un quadro di Degas, conosciuto da oltre un secolo come “Le ballerine russe”, è diventato, per la gioia del regime di Kiev, “Le ballerine ucraine”, e il balletto russo è stato riproposto in cartellone nei teatri come “balletto ucraino”. Ci voleva una guerra per far rivedere la luce alle masse di un continente così ottenebrato da non sapere, in un secolo e oltre, che il celebre “Lago dei cigni” era patrimonio di Bandera più che di Čaikovskij. Così come, ad un vertice NATO in Spagna, l'anno passato, si dovette ovviare all'imbarazzo dei partecipanti per la presenza, nel menu, di una minacciosa insalata russa riscrivendolo con una nuovissima “insalata ucraina”. La cosa sconcertante è che ci sia stata gente (o forse si trattava di molluschi) che, al leggere “insalata russa”, si sia sentita davvero in imbarazzo. E che qualcuno con un posto di responsabilità, invece di consigliare uno psichiatra, abbia trovato una soluzione così surreale.
Ma questo è il meno. Nello stesso periodo, ad esempio, un corso su Dostoevskij fu cancellato da un'istituzione come l'università di Milano-Bicocca, solo per venire riproposto all'autore a patto che includesse anche autori ucraini. Come se Dostoevskij fosse una figura così negativa da bilanciare con altri autori (ma quali?) che si suppone i luminari della Bicocca giudicassero più “positivi”. Un altro docente universitario (!) lamentava l'eccessivo interesse (sic) dei propri studenti per Dostoevskij e proponeva di sostituirlo con le Pussy Riot (cito verbaliter. E sì, contro il povero Fedor c'hanno la fissa, mai che se la prendano con Esenin o Gorkij).
Ancora. La soprano di fama internazionale Anna Netrebko è stata soggetta alla cancellazione di tutte le sue parti nelle opere per cui aveva dei contratti per mesi, sino a quando, dietro esplicita pressione (qualcuno lo chiamerebbe “ricatto”) delle istituzioni che gestiscono le rappresentazioni operistiche, non ha preso le distanze dal governo russo. Dopodiché, come per miracolo, ha ricominciato ad ottenere parti come prima. E non si contano i musicisti che, per il solo fatto di essere russi, hanno visto cancellate le proprie performance con o senza il ricatto di una presa di posizione politica. Mentre quindi la nostra stampa igienica ci spiega perché la Russia sia uno stato mafioso, all'interno del paradiso delle libertà si usano mezzi coercitivi mafiosi inseriti in un modus operandi da inquisizione religiosa per piegare i recalcitranti, i quali sono sospetti per la loro stessa etnia o nazionalità e dai quali ci si aspetta come minimo un'abiura. Come accadeva qualche tempo fa, sempre negli stessi posti. Corsi e ricorsi.
Ovunque, siamo stati e siamo tutt'ora sottoposti ad un tentativo di cancellare e distanziare ogni traccia della cultura russa dalla nostra vita e storia. Una pletora di scribacchini, funzionari e saltimbanchi pronti a vendere la madre per collezionare poltrone e compiacere il proprio capo getta fango su tutti i prodotti e rappresentanti di una delle principali fonti della civiltà continentale, a volte con effetti demenziali, ma sempre con malignità e volontà di nuocere, e la pretesa di sostituire i nomi tutelari della letteratura, della musica e della poesia con qualche surrogato ucraino (!) o locale. L'unico effetto è l'impoverimento, lo capirebbe anche un bambino, ma sembra proprio non importi granché a gente il cui unico obbiettivo è il controllo, e non l'arricchimento culturale. In questo i poveri baltici e polacchi, sempre all'avanguardia nell'isteria russofoba, fanno da utili idioti (e vi eccellono) accanendosi su statue che, oltre trent'anni dopo la caduta dell'URSS non rappresentano altro che monumenti storici, e non un tiranno ancora fresco nel ricordo, per cancellare tutto, ma proprio tutto ciò che abbia su di sé lo stigma della provenienza slavo-orientale. Le biblioteche estoni svuotano i propri scaffali dei classici della letteratura in cirillico, e mettono in scatoloni pile e pile di libri destinati al macero (li ho visti io, e mi piangeva il cuore a non poterli salvare tutti portandomeli a casa).
Alla fine di un processo così ampio, seppur caotico, e che non risparmia niente e nessuno, il risultato è quello di ogni operazione che porta a dividere il genere umano in noi/loro, buoni/cattivi, etc. La disumanizzazione del “nemico”, la mostrificazione dell'altro, in modo che poi qualsiasi ulteriore misura sia possibile. Certo stavolta il gioco comporta qualche rischio in più rispetto a quando l'Altro era lo schiavo, l'eretico o l'ebreo: l'Altro, stavolta, è una potenza nucleare inserita in un'alleanza globale più ricca e fornita di risorse di noi.
Ma si sa: Dio non ha pietà degli idioti. Ed è per questo che ormai non confido più nemmeno in un miracolo che ci salvi.