Non avevo pubblicato l'articolo precedente che da poche ore, e già mi sentivo tormentato dal senso di aver lasciato in sospeso troppi punti che avrebbero meritato ben altro approfondimento.

Il problema è il solito: per avere un quadro generale soddisfacente, bisogna mettere insieme una quantità di pezzi altrettanto soddisfacente (tutti non si può in nessun caso) e per farlo ci vuole studio e informazione sui campi più vari. Nel caso specifico, trattandosi di un'area geografica di cui, come dissi, non sappiamo praticamente nulla grazie all'informazione ufficiale raffazzonata e ridotta a specchio dei pregiudizi locali, è necessario spaziare dalla storia all'economia, dalla società al costume, e non si finirebbe più. Con tutto che io in primis ho il difetto di dilungarmi sugli argomenti che prediligo.

Intanto, la conclusione mi è sembrata frettolosa, mentre meritava ben altro sviluppo: cosa significa che il Brasile, come la Dona Flor di Amado, avrebbe finito per tenersi entrambi i presidenti in conflitto? Alla fine, Bolsonaro è uscito di scena e Lula si è insediato al suo posto, quindi parrebbe l'esatto contrario.

Ma non era questo il punto. E per chiarirlo occorre andare con ordine.

Come scritto, le società dei paesi latinoamericani sono state dominate sin dall'indipendenza da oligarchie generalmente espressione dei grandi ceti proprietari di terra, a loro volta produttori di derrate agricole che venivano esportate quasi del tutto in Europa e, poi, ça va sans dire, negli USA. Chiaramente costoro erano interessati a mantenere intatti i legami con i propri mercati di riferimento, e questo ha dato origine una serie di regimi autoritari o semi-autoritari sostenuti dai governi occidentali a tutto detrimento delle classi popolari.

Chi ha letto Kissinger e lo ha capito ne ha tratto un paio di enormi insegnamenti: intanto ha compreso come si ragiona a certi livelli (e che è del tutto differente, spesso l'opposto, di quanto ci presentano gli imbrattacarte di regime); dall'altro, sa che la politica internazionale si fonda su rapporti di forza, e l'ideologia conta poco e niente. Persino quando da una parte abbiamo le sedicenti democrazie liberali e dall'altra le dittature nazifasciste o l'Unione Sovietica, le questioni principali vertevano non sui “diritti” o su altri vaghi, fumosi concetti, quanto sui rapporti di forza e sugli interessi degli attori a questa o quell'area territoriale (concetto prezioso che Kissinger aveva tratto da Spengler).

Il Sudamerica non ha fatto eccezione, tanto che, come ricordato, negli stessi anni la CIA (e il Dipartimento di Stato diretto proprio da Kissinger) architettava due colpi di Stato in Cile e in Argentina, l'uno per abbattere un governo di chiaro orientamento marxista, l'altro per sovvertirne uno di altrettanto chiara coloritura nazionalista e populista, e addirittura, visto dall'Europa, di simpatie nazifasciste. Ideologicamente agli antipodi, ma entrambi poco graditi agli interessi nordamericani, che si accordarono coi militari locali, espressione anch'essi degli interessi delle classi dominanti, per sostituirli con regimi militari repressivi graditi a Washington.

Per comprendere come mai, oggi, i tentativi di sovvertire i governi a sud del Rio Grande abbiano registrato uno scacco dopo l'altro, e perché le classi dominanti sudamericane si stiano riposizionando in senso indipendente, quando non apertamente ostile, alle politiche USA, è sufficiente fare un po' di conti della serva con le importazioni e le esportazioni di questi Paesi. Il Brasile, ad esempio.

Intanto scopriamo che caffé e cacao, le voci principali per oltre un secolo e mezzo, sono state superate dai minerali ferrosi, dalla soia e persino dal petrolio (la cui estrazione era entrata nel vivo proprio durante la presidenza Lula). Ma la risposta a tutte le domande viene quando si guarda ai partner commerciali. La Cina è il primo ad assorbire il 31% di esportazioni brasiliane. Gli USA stanno molto indietro, appena l'11%. Idem per le importazioni: Cina al 22%, USA un po' meglio al 17%.

L'altra grande economia del continente, l'Argentina, ci dà un quadro altrettanto istruttivo: l'export va al Brasile per il 15%, alla Cina per quasi l'8% e agli USA per il 6,4%. Seguono gli altri con percentuali minori. E l'import? Dalla Cina per il 21%, dal Brasile per il 20%, mentre gli USA raggranellano un magro 9%.

Mi fermo qui, anche se il quadro non cambia, e magari stupisce ancora di più se si va a guardare gli altri Paesi, perché chi legge ha dimostrato di avere abbastanza cultura e spirito critico da comprendere dove vado a parare. Anzi, dove vanno a parare le crude cifre.

Gli USA hanno perso il primato economico in quello che, per due secoli, hanno considerato apertamente, e con l'arroganza che li contraddistingue, una sorta di giardino di casa. Qualsiasi cosa dicano, non ha dietro di sé la forza dei dollari che l'interscambio rappresentava. Le nuove e le vecchie classi dirigenti di Paesi come il Brasile e l'Argentina lo sanno, così come sanno che non hanno più molto da guadagnare a seguire i desiderata di Washington, e, specularmente, avrebbero enormemente da perdere a mettersi in rotta di collisione con la Cina. Che, guarda caso, è ormai l'asse portante di quel nuovo centro di potere economico, politico e, fra pochissimo, anche militare (pensate alla cooperazione fra eserciti riaffermata un giorno sì e l'altro pure con Mosca), che sono i BRICS. Di cui è sin dall'inizio un pilastro lo stesso Brasile. Ci si può ancora meravigliare se altre economie importanti, e sino a ieri legate a doppio filo agli USA, stanno sgomitando per entrare nei BRICS? Argentina e Algeria sono solo le ultime. L'Iran era un candidato naturale, vista la strategia americana di isolarlo e strangolarlo proprio economicamente. Altri si aggiungeranno alla lista. Perché è qui che il vento è cambiato: il XX secolo, quello del predominio americano e del boom economico europeo, è finito. E se ne sono accorti tutti. Tutti tranne le classi dirigenti europee, ovviamente, vista la maniera pessima con cui stanno non-gestendo la transizione, tagliandosi fuori dai fornitori naturali di materie prime (Russia in primis) e dissanguandosi economicamente a favore di Cina e USA senza che si capisca cosa speri di guadagnarci. I diritti e la democrazia non c'entrano niente, sono solo fumo negli occhi per gli idioti che credono di formarsi leggendo gli editoriali di Repubblica o un ambasciatore decrepito che blatera di atlantismo senza spiegare nulla di ciò che sta succedendo. Ma soprattutto lo hanno capito le classi dirigenti di Paesi come Venezuela, Argentina, Brasile, e persino Bolivia (ma qualcuno crede che dietro alle convulsioni interne al Perù ci sia davvero una qualche “questione morale”?). Altrimenti non sarebbe stato possibile un rovesciamento totale dei golpe aperti o camuffati (come il processo a Lula) nel giro di così poco tempo. Solo un deciso orientamento delle elite e dell'esercito avrebbero consentito al partito di Morales e a Lula di tornare al potere dopo quello che gli è successo. Solo qualche decennio fa, avrebbero fatto la fine di Salvador Allende. Se così non è stato, è perché dietro di loro c'è ben altra forza. Forza che non cambia il proprio orientamento neppure con l'avvicendarsi dei partiti al governo.

Ho descritto altrove gli USA come un Paese la cui politica è decisa da una cordata di grosse multinazionali che comprano, legalmente, tutti i candidati alle presidenziali, in modo da avere sempre il proprio uomo alla Casa Bianca. La dicotomia destra/sinistra in cui si esaurisce la nostra carta igienica stampata quando parla di politica statunitense è quanto di più insulso e vuoto si possa immaginare. È la grande finanza, accoppiata ai petrolieri e, ultimamente, a Big Pharma, a dettare la musica. E lo fa esclusivamente seguendo i propri interessi e in modo da aumentare la propria influenza. Tutto quello che vediamo, dall'agenda gender a quella green, dall'immigrazione selvaggia alla delocalizzazione in Cina, sino alla surreale promozione della farina di insetti ad uso alimentare, è funzionale a questi interessi. Poi sbagliano anche loro, ovviamente: inizialmente hanno smantellato l'intero apparato produttivo occidentale trasferendolo in Oriente per risparmiare sulla manodopera, e oggi scoprono che i cinesi hanno tutto sotto controllo e non hanno nessuna intenzione di farsi plagiare ad immagine e somiglianza altrui. Ma questo non importa: è un gioco infinito in cui ci si adatta e si reagisce volta per volta. Quel che importa è che le regole sono le stesse anche per gli altri. E le élite dei Paesi extraeuropei hanno deciso di puntare su nuovi cavalli, dai quali contano di guadagnare di più che verso partner commerciali in declino e che non possono garantire più granché. Questo spiega assai facilmente come uno “di sinistra” come Lula da Silva sia stato decapitato da un'amministrazione USA “di sinistra”, quella Obama. E come uno “di destra” come Bolsonaro sia stato in buonissimi rapporti con la Russia di Putin esattamente come Lula, e sia stato detestato sino alla villaneria da una marionetta della finanza anglosassone come il nostrano Mario Quisling. Perché ormai, a prescindere dalla coloritura ideologica di chi governerà da quelle parti, chi comanda davvero ha deciso di perseguire gli interessi nazionali legandosi in perfetta indipendenza con soggetti molto ricchi, molto potenti, ma ostili all'Occidente.

Ecco il senso della metafora dei due mariti. Essi sono soltanto uno schermo per una donna (un'elite) che li userà entrambi, volta per volta, pensando solo al proprio interesse diretto. E l'assalto ai palazzi del potere di Brasilia si riduce ad una carnevalata senza conseguenze rilevanti nelle macrotendenze in atto.

Nel frattempo, oltreatlantico, altre elite, pronte a vendersi per quattro soldi persino a marocchini e qatarioti, blaterano di alti ideali e sono convinte di poter vincere una guerra con la Russia senza neppure combattere ma lasciando il lavoro sporco ad uno Stato fallito come l'Ucraina.

Chi l'avrebbe mai detto, arrivare al punto di dover invidiare la lungimiranza della classe politica brasiliana o argentina...

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