Nel 2005, quando Sua Santità Benedetto XVI ascese al Soglio di Pietro, facevo parte di quel gruppo demoniaco, dal modus operandi della cupola mafiosa, che va sotto al nome di “Sinistra”. Come un cancro, mi aveva svuotato e intrappolato in una gabbia mentale dai confini ferrei, invalicabili, pena l'accusa automatica di “intelligenza col nemico”, “fascismo” e relative scomuniche. Uno di questi confini era, ovviamente, l'anticlericalismo. Non esistevano papi buoni, nemmeno quelli morti (anzi, ci si accaniva volentieri proprio su questi ultimi). La Chiesa era il Male Assoluto, o almeno una delle sue incarnazioni, e niente se ne poteva salvare. Persino ciò che poteva sembrare buono, come i cedimenti all'ideologia modernista, al dirittismo, all'immigrazionismo, all'annacquamento della liturgia e persino i rinnegamenti della storia della stessa Chiesa (come se le tre volte in cui Pietro rinnegò il Signore non fossero bastati) con certe sciagurate richieste di scuse a chi, a ben vedere, non aveva fatto nulla né per riceverle né per meritarle, bastavano per “riabilitarla” agli occhi dei compagni. Anzi, erano da vedere come pericoloso fumo negli occhi, trappole per gli ingenui, mentre gli scaltri, quelli davvero illuminati, si abbeveravano alle sacre fonti del sapere di uno Scalfari o Odifreddi (i cui monologhi scoprii poi essere mere rimasticature di viete polemiche settecentesche).
Fui quindi fra quelli che ne spiavano ogni azione, ogni parola e gesto, per cercare di scovarne le trame oscure e il senso minaccioso. Era il “papa Dobermann”, il “Pastore Tedesco”, e questo per restare agli epiteti più scanzonati e meno violenti. Parlava contro al relativismo? Ecco un attacco alla libertà di pensiero, da contrastare con le dotte disquisizioni di Umberto Eco che “dimostrava” come relativista fosse sempre stata anche la Chiesa (che poi Eco non dimostrasse un bel niente, essendo uno fra i peggiori interpreti della lettera, in quanto ignari dello spirito, per il momento non danneggiava il sofisma, anzi, lo sorreggeva). Si scagliava contro all'Islam citando l'imperatore Manuele II? Barbarie medievale, metteva in pericolo la convivenza pacifica fra le fedi! Già, come se la “convivenza pacifica” fosse cessata da un pezzo, ammesso che fosse mai iniziata, e non certo ad opera della Chiesa di Roma: gli attentatori dell'11 Settembre non erano mica cattolici.
A dirla tutta, in occasione della lectio di Ratisbona, a me non del tutto omologato e sempre animato da un'antipatia viscerale verso l'Islam, una scintilla di comprensione era giunta ad accendersi. E questo bastò per attirarmi i sospetti e le reprimende dei compagni. E fu forse per questo che mi macchiai di un grave peccato nei suoi confronti.
Chi all'epoca seguiva la cronaca ricorderà le polemiche innescate dall'annunciata visita all'Università “La Sapienza” (più nel nome che nei fatti) ai primi del 2008, ossia poco più di un anno dopo Ratisbona. Un evento del tutto normale, come il predecessore Woityla ne aveva fatti a dozzine in giro per il mondo senza suscitare un'alzata di sopracciglia, che prevedeva, ovviamente, un breve discorso. Ma la reazione del cerbero di Pavlov fu immediata. Un gruppo di professori si oppose, con la surreale giustificazione che un “monologo” del papa avrebbe offeso la tradizione accademica di discussione libera e aperta. Nonostante l'università che io stesso avevo conosciuto fosse l'ultimo posto al mondo in cui intavolare “discussioni aperte” coi docenti, e che neppure un ridicolo modello a conferenza stampa, col pontefice a ricevere le domande e a rispondere a turno, avrebbe calmato le acque, mi fiondai sull'occasione. Contattai i promotori della protesta, e, in breve, apposi la mia firma al documento in cui si chiedeva che la visita non ci fosse. La visita fu annullata, con un gesto di delicatezza del Santo Padre che non cercava lo scontro, ma io e miei sodali di allora ne gioimmo come di una grande vittoria dell'umanità tutta.
Anni dopo, vidi le cose in modo del tutto diverso. Ritrovai il senso divino dell'Essere, riconobbi la ripugnanza e la malignità dell'ideologia negativa in cui avevo vissuto. Piansi, quando Benedetto XVI rinunciò alle funzioni del suo ministero. E quella firma mi bruciava già come un marchio di infamia sulle carni.
Fui presto disilluso del pontificato di Bergoglio, ma senza perdere un grammo di quella spiritualità e quella tensione verso il Sommo Bene che sentivo e sento in questa nuova fase della mia vita. Di molte cose mi ero pentito, ma per quel gesto mi sentivo particolarmente colpevole. E senza immaginare cosa avrei potuto fare per alleviarne il peso, a parte chiederne perdono con le mie preghiere.
Solo qualche giorno fa, alla notizia che Benedetto XVI era in pericolo di vita, mi balzò alla mente che sarebbe stato giusto fare una cosa: chiedere perdono direttamente a lui. Ormai era tardi, ma se si fosse ripreso, mi dissi, sarebbe stato il primo e sacrosanto passo da compiere.
Ora Benedetto Xvi è morto. Non potrò chiedergli perdono direttamente. Non avrò nemmeno la speranza che le mie parole sarebbero finite sotto ai suoi occhi affaticati dagli anni. So che quel cuore nobile come lo era l'intelletto non mi avrebbe negato il più cristiano dei doni. E mi sento ancora più colpevole a non aver osato chiedere prima, nei lunghi anni di tempo che pure ho avuto.
Non importa. Se le anime hanno una qualche esistenza individuale dopo la morte (e, da cristiano, non posso dubitarne), Egli è ancora capace di ascoltare. E in questa forma ho rivolto, e rivolgerò a lui, la mia preghiera per invocarne il perdono.
Fui quindi fra quelli che ne spiavano ogni azione, ogni parola e gesto, per cercare di scovarne le trame oscure e il senso minaccioso. Era il “papa Dobermann”, il “Pastore Tedesco”, e questo per restare agli epiteti più scanzonati e meno violenti. Parlava contro al relativismo? Ecco un attacco alla libertà di pensiero, da contrastare con le dotte disquisizioni di Umberto Eco che “dimostrava” come relativista fosse sempre stata anche la Chiesa (che poi Eco non dimostrasse un bel niente, essendo uno fra i peggiori interpreti della lettera, in quanto ignari dello spirito, per il momento non danneggiava il sofisma, anzi, lo sorreggeva). Si scagliava contro all'Islam citando l'imperatore Manuele II? Barbarie medievale, metteva in pericolo la convivenza pacifica fra le fedi! Già, come se la “convivenza pacifica” fosse cessata da un pezzo, ammesso che fosse mai iniziata, e non certo ad opera della Chiesa di Roma: gli attentatori dell'11 Settembre non erano mica cattolici.
A dirla tutta, in occasione della lectio di Ratisbona, a me non del tutto omologato e sempre animato da un'antipatia viscerale verso l'Islam, una scintilla di comprensione era giunta ad accendersi. E questo bastò per attirarmi i sospetti e le reprimende dei compagni. E fu forse per questo che mi macchiai di un grave peccato nei suoi confronti.
Chi all'epoca seguiva la cronaca ricorderà le polemiche innescate dall'annunciata visita all'Università “La Sapienza” (più nel nome che nei fatti) ai primi del 2008, ossia poco più di un anno dopo Ratisbona. Un evento del tutto normale, come il predecessore Woityla ne aveva fatti a dozzine in giro per il mondo senza suscitare un'alzata di sopracciglia, che prevedeva, ovviamente, un breve discorso. Ma la reazione del cerbero di Pavlov fu immediata. Un gruppo di professori si oppose, con la surreale giustificazione che un “monologo” del papa avrebbe offeso la tradizione accademica di discussione libera e aperta. Nonostante l'università che io stesso avevo conosciuto fosse l'ultimo posto al mondo in cui intavolare “discussioni aperte” coi docenti, e che neppure un ridicolo modello a conferenza stampa, col pontefice a ricevere le domande e a rispondere a turno, avrebbe calmato le acque, mi fiondai sull'occasione. Contattai i promotori della protesta, e, in breve, apposi la mia firma al documento in cui si chiedeva che la visita non ci fosse. La visita fu annullata, con un gesto di delicatezza del Santo Padre che non cercava lo scontro, ma io e miei sodali di allora ne gioimmo come di una grande vittoria dell'umanità tutta.
Anni dopo, vidi le cose in modo del tutto diverso. Ritrovai il senso divino dell'Essere, riconobbi la ripugnanza e la malignità dell'ideologia negativa in cui avevo vissuto. Piansi, quando Benedetto XVI rinunciò alle funzioni del suo ministero. E quella firma mi bruciava già come un marchio di infamia sulle carni.
Fui presto disilluso del pontificato di Bergoglio, ma senza perdere un grammo di quella spiritualità e quella tensione verso il Sommo Bene che sentivo e sento in questa nuova fase della mia vita. Di molte cose mi ero pentito, ma per quel gesto mi sentivo particolarmente colpevole. E senza immaginare cosa avrei potuto fare per alleviarne il peso, a parte chiederne perdono con le mie preghiere.
Solo qualche giorno fa, alla notizia che Benedetto XVI era in pericolo di vita, mi balzò alla mente che sarebbe stato giusto fare una cosa: chiedere perdono direttamente a lui. Ormai era tardi, ma se si fosse ripreso, mi dissi, sarebbe stato il primo e sacrosanto passo da compiere.
Ora Benedetto Xvi è morto. Non potrò chiedergli perdono direttamente. Non avrò nemmeno la speranza che le mie parole sarebbero finite sotto ai suoi occhi affaticati dagli anni. So che quel cuore nobile come lo era l'intelletto non mi avrebbe negato il più cristiano dei doni. E mi sento ancora più colpevole a non aver osato chiedere prima, nei lunghi anni di tempo che pure ho avuto.
Non importa. Se le anime hanno una qualche esistenza individuale dopo la morte (e, da cristiano, non posso dubitarne), Egli è ancora capace di ascoltare. E in questa forma ho rivolto, e rivolgerò a lui, la mia preghiera per invocarne il perdono.
Non sarà il minore dei benefici che ha portato nella mia vita.