In questi giorni si parla molto delle violenze degli studenti sulle forze dell'ordine in merito alle proteste contro le vicende in Palestina così come qualche settimana fa si parlava di quelle dei poliziotti sugli studenti a Pisa. Senza mai venirne a capo. D'altra parte, una delle caratteristiche del dibattito pubblico è quella di creare masse contrapposte e con la bava alla bocca, senza mai andare a fondo del vero problema di fondo che nessuno vuole sviscerare. Tutti si schierano a destra o a manca senza capire cosa portino la scuola e le università, che in teoria non c'entrano nulla con la guerra in Palestina e altre amenità, a parlare di questioni su cui studenti e professori oltre a non avere la minima cognizione di ciò di cui parlano, non possono minimamente incidere, a meno che uno non si immagini Netanyahu che vedendo uno studente di Pisa che gli urla contro, decida di ritirare le sue truppe da Gaza. Qual è il vero problema? La differenza tra ciò che scuola ed università dovrebbero essere in teoria e ciò che sono in pratica, che poi riflette tutta la società italiana.
Su questa differenza, Gino Bramieri amava raccontare una divertente barzelletta. Un bambino chiede al babbo la differenza tra le due cose e il nonno gli dice "vai da tua mamma e da tua sorella e chiedile se andrebbero a letto col primo che capita per un milione di euro". Il bambino va dalle due e queste, dopo un primo stupore, gli rispondono che beh, sì, ci andrebbero. Dopodiché riferisce il risultato al babbo che a quel punto gli dice "Ecco vedi figliolo la differenza tra la teoria e la pratica? In teoria, abbiamo due milioni di euro, in pratica abbiamo due zoccole in casa".
Questa differenza tra gli ideali teorici e la prosaica realtà viene padroneggiata da chiunque abbia raggiunto una certa età ed esperienza di vita, che ha ormai interiorizzato la banale considerazione che la realtà è molto diversa da quella che molti amano raccontarci e che, qualche volta, noi stessi amiamo raccontarci. Questo si vede soprattutto quando si parla di avamposti del Bene come, tra i tanti, il femminismo, il progressismo, l'ecologismo, tutte cose che funzionano benissimo fin quando non impattano con la realtà che ci dice che no, le donne non sono migliori degli uomini, che i progressisti sono idealisti fin quando l'ideale non tocca le loro tasche e che è ridicolo fare gli ecologisti con in mano smartphone e tablet che non potrebbero esistere se non brutalizzando alberi e sfruttando materie prime.
Le scuole sono un altro dei templi in cui si riscontra una pesante dissonanza tra teoria e pratica. Sarebbero, in teoria, il luogo dove si forma il sapere, dove dovrebbero trovarsi le persone migliori, dove respirare il fresco profumo della cultura, del vivere in un posto dove si impara che prima di dire qualcosa, si debba contare fino a dieci. In teoria. Nella pratica, sono lo specchio di una società dove se ci sono tre milioni di dipendenti statali non licenziabili salvo cose veramente gravi, la scuola sarà - come tutti gli enti pubblici - composta, salvo lodevoli eccezioni, per gran parte da docenti e alunni che vanno a scaldare il banco gli uni per prendersi lo stipendio a fine mese e gli altri per prendere quella risicata sufficienza che consentirà loro di ottenere un titolo per poter un giorno avere un lavoro dove prendere lo stipendio a fine mese, "dalla culla alla tomba".
Da questa premessa viene tutto il resto. Immaginate un corso a pagamento. Voi avete pagato l'iradiddio per potervi partecipare perché sapete bene che da ciò che apprenderete deriva il vostro futuro personale lavorativo. Oppure voi siete gli istruttori che manterranno il posto e dunque verranno pagati soltanto se quel corso si iscriverà tanta gente. Oppure voi siete l'imprenditore che ha creato quel corso e sapete bene che la differenza tra una vita agiata da ricco imprenditore oppure una sotto i ponti da fallito dipenderà dalla riuscita del progetto nel quale avete investito il vostro capitale. Gradireste che mentre si stanno tenendo le lezioni, qualcuno si permettesse di interromperle chiedendovi di parlare di cose che non c'entrano nulla col corso? La risposta mi sembra scontata: NO. Ma in un sistema in cui i professori non perderanno mai il posto, in cui la decisione di promuovere o bocciare un alunno non ricade sulla credibilità di una specifica scuola ma soltanto sulla coscienza più o meno pulita di chi deve prendere quella decisione, in cui il personale docente non deve preoccuparsi del valore che sta creando perché non saranno loro a pagarne le conseguenze, e soprattutto in cui gli alunni non acquisiscono competenze ma solo un titolo che li trasformerà in burocrati che eseguiranno ordini superiori, *NESSUNO* si porrà la questione di sprecare tempo e di perdere conoscenze. Politici, presidi, professori e alunni sono uniti dal riflesso pavloviano di considerare l'apprendimento delle nozioni fondamentalmente inutile ai loro scopi.
Tutto il resto viene a cascata. La vera domanda che nessuno si pone non è su chi abbia ragione tra i poliziotti feriti e gli studenti, anche perché chiunque abbia una certa esperienza di vita, oltre che dimestichezza di cose italiane, sa benissimo che non si può riporre cieca fiducia né nella narrazione destroide delle forze dell'ordine vittime né in quella sinistroide degli "sbirri fascisti". La vera domanda è: per quale razza di motivo gli studenti decidono, in un luogo dedicato allo studio di cose che serviranno al loro futuro professionale, di fare altro? Perché professori, presidi e rettori, che pure avrebbero i poteri per fermarli, non lo fanno? Perché la politica li asseconda? La risposta è semplice: più o meno inconsciamente, ambedue le parti sanno benissimo che scuole e università non servono a nulla se non a perpetuare lo stipendificio statale.
Un bravissimo youtuber, Andrea Lombardi, secondo me un vero astro nascente del giornalismo, ha scritto che bisognerebbe bonificare le università dalle sinistre. E' una delle poche circostanze in cui non sono d'accordo con lui. Perché questo significherebbe pensare di risolvere un problema a valle, e non a monte. A monte c'è sempre la stessa malattia di fondo: lo statalismo. Non sono soltanto le scuole a dover essere bonificate. E' tutta l'Italia ad essere malata. Le scuole ed università sono soltanto alcuni tra i tanti organi malati.
Concentrarsi su chi abbia ragione tra forze dell'ordine e studenti è, come sempre, una perdita di tempo.
Su questa differenza, Gino Bramieri amava raccontare una divertente barzelletta. Un bambino chiede al babbo la differenza tra le due cose e il nonno gli dice "vai da tua mamma e da tua sorella e chiedile se andrebbero a letto col primo che capita per un milione di euro". Il bambino va dalle due e queste, dopo un primo stupore, gli rispondono che beh, sì, ci andrebbero. Dopodiché riferisce il risultato al babbo che a quel punto gli dice "Ecco vedi figliolo la differenza tra la teoria e la pratica? In teoria, abbiamo due milioni di euro, in pratica abbiamo due zoccole in casa".
Questa differenza tra gli ideali teorici e la prosaica realtà viene padroneggiata da chiunque abbia raggiunto una certa età ed esperienza di vita, che ha ormai interiorizzato la banale considerazione che la realtà è molto diversa da quella che molti amano raccontarci e che, qualche volta, noi stessi amiamo raccontarci. Questo si vede soprattutto quando si parla di avamposti del Bene come, tra i tanti, il femminismo, il progressismo, l'ecologismo, tutte cose che funzionano benissimo fin quando non impattano con la realtà che ci dice che no, le donne non sono migliori degli uomini, che i progressisti sono idealisti fin quando l'ideale non tocca le loro tasche e che è ridicolo fare gli ecologisti con in mano smartphone e tablet che non potrebbero esistere se non brutalizzando alberi e sfruttando materie prime.
Le scuole sono un altro dei templi in cui si riscontra una pesante dissonanza tra teoria e pratica. Sarebbero, in teoria, il luogo dove si forma il sapere, dove dovrebbero trovarsi le persone migliori, dove respirare il fresco profumo della cultura, del vivere in un posto dove si impara che prima di dire qualcosa, si debba contare fino a dieci. In teoria. Nella pratica, sono lo specchio di una società dove se ci sono tre milioni di dipendenti statali non licenziabili salvo cose veramente gravi, la scuola sarà - come tutti gli enti pubblici - composta, salvo lodevoli eccezioni, per gran parte da docenti e alunni che vanno a scaldare il banco gli uni per prendersi lo stipendio a fine mese e gli altri per prendere quella risicata sufficienza che consentirà loro di ottenere un titolo per poter un giorno avere un lavoro dove prendere lo stipendio a fine mese, "dalla culla alla tomba".
Da questa premessa viene tutto il resto. Immaginate un corso a pagamento. Voi avete pagato l'iradiddio per potervi partecipare perché sapete bene che da ciò che apprenderete deriva il vostro futuro personale lavorativo. Oppure voi siete gli istruttori che manterranno il posto e dunque verranno pagati soltanto se quel corso si iscriverà tanta gente. Oppure voi siete l'imprenditore che ha creato quel corso e sapete bene che la differenza tra una vita agiata da ricco imprenditore oppure una sotto i ponti da fallito dipenderà dalla riuscita del progetto nel quale avete investito il vostro capitale. Gradireste che mentre si stanno tenendo le lezioni, qualcuno si permettesse di interromperle chiedendovi di parlare di cose che non c'entrano nulla col corso? La risposta mi sembra scontata: NO. Ma in un sistema in cui i professori non perderanno mai il posto, in cui la decisione di promuovere o bocciare un alunno non ricade sulla credibilità di una specifica scuola ma soltanto sulla coscienza più o meno pulita di chi deve prendere quella decisione, in cui il personale docente non deve preoccuparsi del valore che sta creando perché non saranno loro a pagarne le conseguenze, e soprattutto in cui gli alunni non acquisiscono competenze ma solo un titolo che li trasformerà in burocrati che eseguiranno ordini superiori, *NESSUNO* si porrà la questione di sprecare tempo e di perdere conoscenze. Politici, presidi, professori e alunni sono uniti dal riflesso pavloviano di considerare l'apprendimento delle nozioni fondamentalmente inutile ai loro scopi.
Tutto il resto viene a cascata. La vera domanda che nessuno si pone non è su chi abbia ragione tra i poliziotti feriti e gli studenti, anche perché chiunque abbia una certa esperienza di vita, oltre che dimestichezza di cose italiane, sa benissimo che non si può riporre cieca fiducia né nella narrazione destroide delle forze dell'ordine vittime né in quella sinistroide degli "sbirri fascisti". La vera domanda è: per quale razza di motivo gli studenti decidono, in un luogo dedicato allo studio di cose che serviranno al loro futuro professionale, di fare altro? Perché professori, presidi e rettori, che pure avrebbero i poteri per fermarli, non lo fanno? Perché la politica li asseconda? La risposta è semplice: più o meno inconsciamente, ambedue le parti sanno benissimo che scuole e università non servono a nulla se non a perpetuare lo stipendificio statale.
Un bravissimo youtuber, Andrea Lombardi, secondo me un vero astro nascente del giornalismo, ha scritto che bisognerebbe bonificare le università dalle sinistre. E' una delle poche circostanze in cui non sono d'accordo con lui. Perché questo significherebbe pensare di risolvere un problema a valle, e non a monte. A monte c'è sempre la stessa malattia di fondo: lo statalismo. Non sono soltanto le scuole a dover essere bonificate. E' tutta l'Italia ad essere malata. Le scuole ed università sono soltanto alcuni tra i tanti organi malati.
Concentrarsi su chi abbia ragione tra forze dell'ordine e studenti è, come sempre, una perdita di tempo.
E' tutto il "corpo" italiano ad essere malato di statalismo.