Quando si verificano vicende come quella dello stupro di gruppo di Palermo, ma anche come quella di Impagnatiello, mi viene un istinto di cui, confesso, mi vergogno e di cui peraltro ho già parlato: schierarmi dalla parte dei colpevoli, vedere se tutto sia come si racconta, diffidare di quelli che, proferendo insulti e minacce sui social contro il cattivo, cercano di sedersi al tavolo dei "buoni". Un po' deriva dal vecchio istintaccio di sedermi accanto ai cattivi quando il tavolo dei buoni si affolla troppo. Ma prima che scatti la canea degli insulti nei miei confronti, ribadisco l'auspicio che gli stupratori di Palermo vengano assicurati alla giustizia: chi violenta una donna, per giunta minorenne, commette un delitto contro la persona e si pone al di fuori di ogni consesso civile. E tuttavia, come è già avvenuto nel caso Impagnatiello, i media fanno di tutto perché si dubiti della bontà di chi punta il dito.
Anche per questo motivo, seguo relativamente poco la cronaca nera: nel corso di questi anni sono passati completamente in cavalleria nel mio cervello casi oggettivamente orribili come il delitto di Cogne, il parricidio di Novi Ligure, la strage di Erba. Tutti delitti che, per quanto mi riguarda, non dicono niente di nuovo sull'umanità e che ci sono sempre stati. In questi casi, tutto va affidato al rito giudiziario e ai principi che ispirano una nazione. Se il nostro sistema giudiziario si fonda sulla rieducazione del condannato, il cipiglio manipulitista di far "marcire il colpevole in galera", è una scemenza tout court. Intanto perché, anche con 10-15 anni di galera al posto dell'ergastolo, un omicida si vede distruggere la propria vita e la propria reputazione. Erika De Nardo, la pericolosa assassina di Novi Ligure, è uscita dopo quindici anni da quell'orrendo delitto e la rieducazione nel suo caso è stata talmente di successo che lei, studentessa svogliata alle superiori, si è laureata in Filosofia con 110 e lode. Ma per lei il vero fine pena mai consiste in una domanda: chi, sapendo cosa ha fatto, vorrebbe davvero aver a che fare con lei? Per come la vedo io, è già miracoloso che abbia trovato marito.
E tuttavia queste considerazioni, che definirei di buonsenso se non le avessi scritte io (e dunque non sarebbe elegante lodarsi) ad ogni delitto si scontrano col caravan serraglio di psicologi, sociologi, antropologi, criminologi, in un delirio di "logi" che sembra fatto appositamente non per trovare una verità ma per confondere le acque. Nel contempo, la cronaca si è riempita di neologismi orwelliani come "femminicidio", "certezza della pena" (come se il diritto ambisse all'incertezza della pena) che ideologizzano fatti che non si prestano a nessuna interpretazione che non sia quella di mettere in galera, secondo le procedure previste dal codice penale, chi ha commesso un delitto contro la persona. Ma questo eliminerebbe dal dibattito tanti "professionisti" che, come diremmo a Napoli, "pure loro devono campare", oltre ai tanti cretini multimediali che si buttano a pesce su ogni vicenda di cronaca per far passare, dietro l'indignazione di massa, concetti indegni di uno stato civile.
Un caso di cronaca che invece mi è molto interessato e inquietato fu la morte di Roberta Ragusa. Di questa poveretta non si sa nulla dal 2012. Ufficialmente è morta ma, non essendo stato trovato il cadavere, non lo si può dire con certezza. E tuttavia, è stato condannato il marito, sulla base sostanzialmente di due indizi: aveva l'amante e la moglie diceva cose brutte di lui. E sia chiaro, la questione non è stabilire se effettivamente sia stato lui - perché anche io penso che sia stato lui - ma che precedente si crea in un paese dove si possa condannare qualcuno senza neanche la certezza matematica che si sia commesso un delitto. Certo, l'Italia non si basa sul common law (a differenza dei paesi anglosassoni) ma comunque il precedente influenza i giudici. E il precedente è molto chiaro: grazie alla campagna colpevolistica e moralistica, imperniata sulla figura dell'amante che vellica l'isterico femminismo, la prassi corrente oggi è che, quando una donna sparisce - e la Ragusa, per quel che si sa, potrebbe tanto essere morta, tanto essere in Sudamerica sotto falso nome - è sufficiente che il marito abbia un'amante per ritenerlo colpevole tout court. Ecco a cosa ci porta la cronaca nera.
Così il punto non è solidarizzare con gli stupratori di Palermo. Vorrei soltanto uno stato di diritto dove questi giovani criminali paghino con una pena e soltanto una pena giudiziaria, dove ci si possa fidare delle ragioni di quei giudici che decidono, in scienza e coscienza, di mandarli in comunità invece che sbatterli in galera, senza assistere a giacobineschi sbraitii, dove il diritto si faccia nelle aule di tribunale e non in televisione, senza fare nomi e mostrare volti di gente, oltretutto esponendoli alla vendetta di qualche carcerato. Perché in uno stato di diritto, anche e soprattutto un criminale ha dei diritti. Perché dico "soprattutto"? Perché uno Stato che si mostra più disumano dei criminali, li legittima. Si pensi soltanto a quanta retorica filomafiosa si nutra dell'inefficienza, dell'immoralità e dell'incoerenza dello Stato. E prima che qualcuno mi chieda "ma se succedesse a tua figlia, la penseresti allo stesso modo?", dico che se una cosa del genere fosse successa a lei, io avrei preso la pistola e li avrei ammazzati ad uno ad uno. Dopodiché le loro famiglie avrebbero ucciso qualcuno della mia famiglia, e avremmo ricreato quelle belle faide che ogni tanto leggiamo nelle cronache calabresi.
Proprio per questo è bene che ci sia un diritto. Sono indignato per quello che è successo a Palermo? No, sinceramente. E' una vicenda che non mi riguarda. Devo ammetterlo: io non riesco a farmi emotivamente carico di tutte le malefatte del mondo, la mia sensibilità ha un limite massimo di indignazione oltre il quale inizierebbe l'ipocrisia e ritengo insincero chi si indigna di fronte ad ogni fatto di cronaca, per poi piazzarsi a pontificare davanti ad un televisore ad ogni programma di cronaca nera. Non ho questo vezzo del tutto fasullo di sconvolgermi per cose che non conosco, di persone che non conosco e di fatti che non mi riguardano. Non ho l'ansia di voler partecipare a qualsiasi rito orgiastico collettivo, mirato non a risolvere un problema ma a farlo durare, nutrendo intere schiere di inutili figure, i "logi" di cui parlavamo prima. Non ci vedo niente di autentico in questo. Vorrei solo un paese dove chi fa del male, anche il più atroce dei mali, venga processato da un tribunale, paghi e finisca in galera, nel silenzio generale, lontano da tuttologi di ogni risma. Tutto il resto non c'entra niente con questa storia. Non mi interessa la critica al rap, al trap, all'hip hop. Non mi interessa concionare fesserie sui "valori malati della società", leit motiv che io sento da quarant'anni e dunque già da quegli anni ove la pubblicistica sostiene che si stesse meglio perché si stava peggio. Si può inorridire davanti ad un autotune, davanti a canzoni orrende, ma tanta gente rappa, trappa, hippoppeggia e dice cazzate davanti ad uno schermo, senza per questo stuprare o uccidere. Ho visto figli di genitori buonissimi e perbene diventare delinquenti. E figli di genitori che si sarebbero meritati la lapidazione in pubblica piazza, diventare persone d'oro. Alla fine, quella tra il Bene e il Male, resta sempre una scelta, non dimentichiamolo mai.
Quelli che vogliono trasformare ogni angolo della società in un'aula di tribunale - curiosamente gli stessi che censurano qualsiasi disallineato - mi fanno più paura degli stupratori di Palermo, più paura di Impagnatiello, più paura di Erika De Nardo, più paura di qualsiasi mafioso, pedofilo, imperversi per la città. Perché i violentatori palermitani adesso sono al fresco e pagheranno: tanto, poco, come, non so. Quelli che invece sui media, con la loro melassosa e pelosa indignazione, tramutano lo stato di diritto in uno stato di polizia mediatica, mi terrorizzano molto più. Perché a piede libero e perché lì davvero c'entra l'educazione che non c'è, che non è stata data né a casa né a scuola.
Anche per questo motivo, seguo relativamente poco la cronaca nera: nel corso di questi anni sono passati completamente in cavalleria nel mio cervello casi oggettivamente orribili come il delitto di Cogne, il parricidio di Novi Ligure, la strage di Erba. Tutti delitti che, per quanto mi riguarda, non dicono niente di nuovo sull'umanità e che ci sono sempre stati. In questi casi, tutto va affidato al rito giudiziario e ai principi che ispirano una nazione. Se il nostro sistema giudiziario si fonda sulla rieducazione del condannato, il cipiglio manipulitista di far "marcire il colpevole in galera", è una scemenza tout court. Intanto perché, anche con 10-15 anni di galera al posto dell'ergastolo, un omicida si vede distruggere la propria vita e la propria reputazione. Erika De Nardo, la pericolosa assassina di Novi Ligure, è uscita dopo quindici anni da quell'orrendo delitto e la rieducazione nel suo caso è stata talmente di successo che lei, studentessa svogliata alle superiori, si è laureata in Filosofia con 110 e lode. Ma per lei il vero fine pena mai consiste in una domanda: chi, sapendo cosa ha fatto, vorrebbe davvero aver a che fare con lei? Per come la vedo io, è già miracoloso che abbia trovato marito.
E tuttavia queste considerazioni, che definirei di buonsenso se non le avessi scritte io (e dunque non sarebbe elegante lodarsi) ad ogni delitto si scontrano col caravan serraglio di psicologi, sociologi, antropologi, criminologi, in un delirio di "logi" che sembra fatto appositamente non per trovare una verità ma per confondere le acque. Nel contempo, la cronaca si è riempita di neologismi orwelliani come "femminicidio", "certezza della pena" (come se il diritto ambisse all'incertezza della pena) che ideologizzano fatti che non si prestano a nessuna interpretazione che non sia quella di mettere in galera, secondo le procedure previste dal codice penale, chi ha commesso un delitto contro la persona. Ma questo eliminerebbe dal dibattito tanti "professionisti" che, come diremmo a Napoli, "pure loro devono campare", oltre ai tanti cretini multimediali che si buttano a pesce su ogni vicenda di cronaca per far passare, dietro l'indignazione di massa, concetti indegni di uno stato civile.
Un caso di cronaca che invece mi è molto interessato e inquietato fu la morte di Roberta Ragusa. Di questa poveretta non si sa nulla dal 2012. Ufficialmente è morta ma, non essendo stato trovato il cadavere, non lo si può dire con certezza. E tuttavia, è stato condannato il marito, sulla base sostanzialmente di due indizi: aveva l'amante e la moglie diceva cose brutte di lui. E sia chiaro, la questione non è stabilire se effettivamente sia stato lui - perché anche io penso che sia stato lui - ma che precedente si crea in un paese dove si possa condannare qualcuno senza neanche la certezza matematica che si sia commesso un delitto. Certo, l'Italia non si basa sul common law (a differenza dei paesi anglosassoni) ma comunque il precedente influenza i giudici. E il precedente è molto chiaro: grazie alla campagna colpevolistica e moralistica, imperniata sulla figura dell'amante che vellica l'isterico femminismo, la prassi corrente oggi è che, quando una donna sparisce - e la Ragusa, per quel che si sa, potrebbe tanto essere morta, tanto essere in Sudamerica sotto falso nome - è sufficiente che il marito abbia un'amante per ritenerlo colpevole tout court. Ecco a cosa ci porta la cronaca nera.
Così il punto non è solidarizzare con gli stupratori di Palermo. Vorrei soltanto uno stato di diritto dove questi giovani criminali paghino con una pena e soltanto una pena giudiziaria, dove ci si possa fidare delle ragioni di quei giudici che decidono, in scienza e coscienza, di mandarli in comunità invece che sbatterli in galera, senza assistere a giacobineschi sbraitii, dove il diritto si faccia nelle aule di tribunale e non in televisione, senza fare nomi e mostrare volti di gente, oltretutto esponendoli alla vendetta di qualche carcerato. Perché in uno stato di diritto, anche e soprattutto un criminale ha dei diritti. Perché dico "soprattutto"? Perché uno Stato che si mostra più disumano dei criminali, li legittima. Si pensi soltanto a quanta retorica filomafiosa si nutra dell'inefficienza, dell'immoralità e dell'incoerenza dello Stato. E prima che qualcuno mi chieda "ma se succedesse a tua figlia, la penseresti allo stesso modo?", dico che se una cosa del genere fosse successa a lei, io avrei preso la pistola e li avrei ammazzati ad uno ad uno. Dopodiché le loro famiglie avrebbero ucciso qualcuno della mia famiglia, e avremmo ricreato quelle belle faide che ogni tanto leggiamo nelle cronache calabresi.
Proprio per questo è bene che ci sia un diritto. Sono indignato per quello che è successo a Palermo? No, sinceramente. E' una vicenda che non mi riguarda. Devo ammetterlo: io non riesco a farmi emotivamente carico di tutte le malefatte del mondo, la mia sensibilità ha un limite massimo di indignazione oltre il quale inizierebbe l'ipocrisia e ritengo insincero chi si indigna di fronte ad ogni fatto di cronaca, per poi piazzarsi a pontificare davanti ad un televisore ad ogni programma di cronaca nera. Non ho questo vezzo del tutto fasullo di sconvolgermi per cose che non conosco, di persone che non conosco e di fatti che non mi riguardano. Non ho l'ansia di voler partecipare a qualsiasi rito orgiastico collettivo, mirato non a risolvere un problema ma a farlo durare, nutrendo intere schiere di inutili figure, i "logi" di cui parlavamo prima. Non ci vedo niente di autentico in questo. Vorrei solo un paese dove chi fa del male, anche il più atroce dei mali, venga processato da un tribunale, paghi e finisca in galera, nel silenzio generale, lontano da tuttologi di ogni risma. Tutto il resto non c'entra niente con questa storia. Non mi interessa la critica al rap, al trap, all'hip hop. Non mi interessa concionare fesserie sui "valori malati della società", leit motiv che io sento da quarant'anni e dunque già da quegli anni ove la pubblicistica sostiene che si stesse meglio perché si stava peggio. Si può inorridire davanti ad un autotune, davanti a canzoni orrende, ma tanta gente rappa, trappa, hippoppeggia e dice cazzate davanti ad uno schermo, senza per questo stuprare o uccidere. Ho visto figli di genitori buonissimi e perbene diventare delinquenti. E figli di genitori che si sarebbero meritati la lapidazione in pubblica piazza, diventare persone d'oro. Alla fine, quella tra il Bene e il Male, resta sempre una scelta, non dimentichiamolo mai.
Quelli che vogliono trasformare ogni angolo della società in un'aula di tribunale - curiosamente gli stessi che censurano qualsiasi disallineato - mi fanno più paura degli stupratori di Palermo, più paura di Impagnatiello, più paura di Erika De Nardo, più paura di qualsiasi mafioso, pedofilo, imperversi per la città. Perché i violentatori palermitani adesso sono al fresco e pagheranno: tanto, poco, come, non so. Quelli che invece sui media, con la loro melassosa e pelosa indignazione, tramutano lo stato di diritto in uno stato di polizia mediatica, mi terrorizzano molto più. Perché a piede libero e perché lì davvero c'entra l'educazione che non c'è, che non è stata data né a casa né a scuola.
E dopo aver sviscerato questo punto, alla fine mi sono rinfrancato: non sono un istigatore alla violenza. Chiedo solo che i processi vengano fatti dai giudici e dagli avvocati e che si buttino fuori dalle sue aule giudiziarie tutti i pavoni più o meno famosi che, sciacallando sulle disgrazie della gente, cercano di trarne utili.