Una massima rimasta immortale di Nietzsche è che il miglior modo di danneggiare una tesi è quella di difenderla con cattivi argomenti.
Come si difende un argomento è di fondamentale importanza. Se io difendessi i diritti dei proprietari di casa e li definissi "vittime di poveri straccioni che pretendono di usufruire di un servizio senza pagare", avrei detto una cosa giusta ma nel modo sbagliato. Se io invece dicessi che "è giusto tener conto delle ragioni dei poveri ma non a carico di chi da quel bene trae un reddito", avrei detto una cosa giusta ma nel modo giusto.
Questo ci porta ad Alain Elkann e, a tal proposito, sgombero subito il campo da equivoci: Elkann nella sostanza ha ragione. Non so se sia per via dell'età che mi porta a dubitare del nuovo che avanza ma, sinceramente, io nei ragazzi di oggi non vedo davvero niente di buono. Tragicamente conformisti, biecamente ripiegati in un eterno presente, spesso volgari e sguaiati. In questo senso, il ritratto di Elkann - a parte alcune bizzarre osservazioni sul vestiario dei giovini (ma caro Alain, cosa dovrebbe fare uno a Luglio in pieno caldo? Vestirsi in giacca e cravatta su un treno?) - è purtroppo veritiero. I giovani di oggi, tendenzialmente, sono quella roba lì: trap e rap, un vestiario che si compiace di essere alla moda e che puzza invece di conformistico, di stantio, di ripetuto. Una maleducazione costante, perenne, irridente. Un cattivo gusto dilagante, soffocante.
Il punto è che il nostro sbaglia la forma che inquina tutto il discorso. Infatti la forma è un delirio egotistico nel cui il nostro, nel condannare la maleducazione dei giovinastri che gli si parano davanti, ci tiene ad esibire letture importanti e un vestiario ricercato, meravigliandosi che nessuno lo riconosca e gli chieda l'autografo, come se Alain Elkann fosse il Vate della cultura e non un signor nessuno diventato famoso solo per parentele importanti e per essere stato il sodale di svariati intellettuali a cui confezionava interviste completamente sdraiate come quegli allegri cagnolini che al ritorno del padrone si mettono gioiosi a zampe insù.
Dicevamo della forma. Essa non è soltanto questi particolari folcloristici ma è anche la non comprensione di un aspetto: se i cosiddetti "giovanidioggi" sono così, la colpa è di chi avrebbe dovuto educarli al rispetto delle regole. Se con sonori ceffoni o con punizioni autorevoli, è materia di dibattito psicosociopedagogico. Ma certamente ad una materia malleabile qual è quella dell'adolescente, la prima porta di ferro che va opposta, per evitare che essa esondi dai limiti, è l'esecutività delle regole. E della mancanza di questo, gran parte delle colpe risiede proprio nel progressismo sinistro di cui oggi Elkann, intellettuale di Repubblica, di proprietà di famiglia, è un acceso corifeo.
Il progressismo infatti ha insegnato a tutti il rispetto non delle regole della convivenza civile, non dei diritti dell'individuo, indipendentemente da razza, religione, collocazione politica, identità sessuale, genere, ma delle categorie: quel meccanismo per cui ti possono offendere nei modi più svariati e violenti se non appartieni ad una categoria protetta, salvo poi indurre alle dimissioni magari pure il Papa se questi dice una parolina fuori posto che irriti l'Arcigay. Un progressismo che non ha insegnato un capitalismo sano, serio, responsabile e sostenibile, autenticamente liberale, ma quello predatorio e parastatale della FIAT. Non il rispetto della natura ma un ecologismo alla moda, che si compiace non di una meditata e riflettuta adesione, ma di bastonate al ceto medio, colpevole di vivere come gli è stato insegnato: risparmiando, investendo sul mattone e andando sulle auto di famiglia.
Alain Elkann avrebbe scritto un articolo perfetto se non fosse Alain Elkann. Se non fosse il congiunto di una famiglia che ha sempre liberalizzato gli utili socializzando le perdite, per poi, ammosciata la tetta della vacca chiamata Stato, prendere armi e bagagli e andare in Olanda, negli Stati Uniti. E se non fosse un signore ormai troppo fuori dal tempo per rimanere sul pezzo di una realtà schizoide, frenetica, cannibalizzante ed autocannibalizzante e, dunque, comprendere che gran parte di quella gioventù bruciata, è stata carbonizzata anche dal modello sociale propagandato da lui, dal suo giornale, dalla sua proprietà, dai suoi valori e da un capitalismo predatorio, fatto di prenditori e magnager.
Come si difende un argomento è di fondamentale importanza. Se io difendessi i diritti dei proprietari di casa e li definissi "vittime di poveri straccioni che pretendono di usufruire di un servizio senza pagare", avrei detto una cosa giusta ma nel modo sbagliato. Se io invece dicessi che "è giusto tener conto delle ragioni dei poveri ma non a carico di chi da quel bene trae un reddito", avrei detto una cosa giusta ma nel modo giusto.
Questo ci porta ad Alain Elkann e, a tal proposito, sgombero subito il campo da equivoci: Elkann nella sostanza ha ragione. Non so se sia per via dell'età che mi porta a dubitare del nuovo che avanza ma, sinceramente, io nei ragazzi di oggi non vedo davvero niente di buono. Tragicamente conformisti, biecamente ripiegati in un eterno presente, spesso volgari e sguaiati. In questo senso, il ritratto di Elkann - a parte alcune bizzarre osservazioni sul vestiario dei giovini (ma caro Alain, cosa dovrebbe fare uno a Luglio in pieno caldo? Vestirsi in giacca e cravatta su un treno?) - è purtroppo veritiero. I giovani di oggi, tendenzialmente, sono quella roba lì: trap e rap, un vestiario che si compiace di essere alla moda e che puzza invece di conformistico, di stantio, di ripetuto. Una maleducazione costante, perenne, irridente. Un cattivo gusto dilagante, soffocante.
Il punto è che il nostro sbaglia la forma che inquina tutto il discorso. Infatti la forma è un delirio egotistico nel cui il nostro, nel condannare la maleducazione dei giovinastri che gli si parano davanti, ci tiene ad esibire letture importanti e un vestiario ricercato, meravigliandosi che nessuno lo riconosca e gli chieda l'autografo, come se Alain Elkann fosse il Vate della cultura e non un signor nessuno diventato famoso solo per parentele importanti e per essere stato il sodale di svariati intellettuali a cui confezionava interviste completamente sdraiate come quegli allegri cagnolini che al ritorno del padrone si mettono gioiosi a zampe insù.
Dicevamo della forma. Essa non è soltanto questi particolari folcloristici ma è anche la non comprensione di un aspetto: se i cosiddetti "giovanidioggi" sono così, la colpa è di chi avrebbe dovuto educarli al rispetto delle regole. Se con sonori ceffoni o con punizioni autorevoli, è materia di dibattito psicosociopedagogico. Ma certamente ad una materia malleabile qual è quella dell'adolescente, la prima porta di ferro che va opposta, per evitare che essa esondi dai limiti, è l'esecutività delle regole. E della mancanza di questo, gran parte delle colpe risiede proprio nel progressismo sinistro di cui oggi Elkann, intellettuale di Repubblica, di proprietà di famiglia, è un acceso corifeo.
Il progressismo infatti ha insegnato a tutti il rispetto non delle regole della convivenza civile, non dei diritti dell'individuo, indipendentemente da razza, religione, collocazione politica, identità sessuale, genere, ma delle categorie: quel meccanismo per cui ti possono offendere nei modi più svariati e violenti se non appartieni ad una categoria protetta, salvo poi indurre alle dimissioni magari pure il Papa se questi dice una parolina fuori posto che irriti l'Arcigay. Un progressismo che non ha insegnato un capitalismo sano, serio, responsabile e sostenibile, autenticamente liberale, ma quello predatorio e parastatale della FIAT. Non il rispetto della natura ma un ecologismo alla moda, che si compiace non di una meditata e riflettuta adesione, ma di bastonate al ceto medio, colpevole di vivere come gli è stato insegnato: risparmiando, investendo sul mattone e andando sulle auto di famiglia.
Alain Elkann avrebbe scritto un articolo perfetto se non fosse Alain Elkann. Se non fosse il congiunto di una famiglia che ha sempre liberalizzato gli utili socializzando le perdite, per poi, ammosciata la tetta della vacca chiamata Stato, prendere armi e bagagli e andare in Olanda, negli Stati Uniti. E se non fosse un signore ormai troppo fuori dal tempo per rimanere sul pezzo di una realtà schizoide, frenetica, cannibalizzante ed autocannibalizzante e, dunque, comprendere che gran parte di quella gioventù bruciata, è stata carbonizzata anche dal modello sociale propagandato da lui, dal suo giornale, dalla sua proprietà, dai suoi valori e da un capitalismo predatorio, fatto di prenditori e magnager.