Quando anche mio padre chiuse gli occhi per sempre, ormai quasi tre anni fa, mi era venuto, sia pure estemporaneamente, di farmi un tatuaggio sul braccio sinistro con la firma sua e con quella di mia madre. Io ero molto legato ad entrambi e la loro morte è stata per me un grande dolore. Poi ho riflettuto a fondo e mi sono detto: ma perché il mondo deve sapere che ho amato mio padre e mia madre? Cosa ci guadagno? E mi sono detto, provando un po' di vergogna, che inconsciamente e istintivamente, quella sarebbe stata un'esibizione. In quanto tale, tale da solleticare il mio ego ma estranea alla mia cultura e, in generale, al buonsenso. Che prescrive di tenere sempre la propria vita privata nascosta alle morbose attenzioni degli sconosciuti. E allora ho lasciato perdere, niente tatuaggio.
Ricordare un genitore, celebrarlo, con un tatuaggio o, come va orridamente di moda oggi, con lunghi post commemorativi, ha senso se questi è stato un'importante personalità, che ha avuto un ruolo pubblico. E' il caso, per esempio, di una mia amica, figlia di un grande giornalista della mia città, che ne celebra la grandezza sui social. Viceversa, mio padre e mia madre erano due onesti e dignitosi funzionari statali. La loro morte ha tolto moltissimo a me e ai loro affetti, ma nulla al mondo, infatti il sole continua ogni giorno a sorgere sul pianeta (o meglio, visto che sennò gli scientificamente corretti si offendono, la Terra continua ogni giorno ad incontrare il sole) e mentre oggi qualsiasi tifoso del Napoli conosce quel giornalista, il nome dei miei non dice niente a nessuno, come il mio nome non dirà nulla a nessuno quando gli occhi li chiuderò per sempre anche io. Così mi sono detto che sarebbe stata un'esibizione del tutto fine a se stessa. E ho ridotto all'osso anche ogni post di tipo personalistico.
Questa non è una considerazione scontata. I social sono il tempio del narcisismo, sono pensati per questo, per dare lustro a vite altrimenti banali, imperniate su una perenne lotta per la sopravvivenza, su coppie la cui gaiezza viene sbandierata attraverso foto di dita incrociate, di anelli, di matrimoni per poi, va da sé, quando finisce, dare vita alle ripicche a colpi di post rancorosi contro l'ex-partner. E così anche i tatuaggi cosa sono? Una sorta di esibizione. E non ho nulla contro le esibizioni, sia chiaro, ma tutto va fatto "cum grano salis". Fin quando si sfoggia un tatuaggio relativo a qualcosa di importantissimo, passi. Ma riempirsi il corpo di tatuaggi appartiene a qualcosa che non può che avere a che fare con lo smodato desiderio di dare al proprio corpo e alla propria persona un valore che si presume, altrimenti, di non avere. Ormai la moda dei tatuaggi è esplosa e si è passati da un timido simbolo, spesso in parti del corpo nascoste dai vestiti, ad un travolgimento di simboli più o meno esoterici, attraverso cui dire al mondo "Ehi mi vedete? Lo vedete che ho dei tatuaggi? Lo vedete che io sono così, la penso così?". E quelle rare volte che vado nelle spiagge per cercare un po' di refrigerio e di ristoro - il mare ha su di me un effetto quasi taumaturgico - mi sorprendo a scoprire il mio corpo totalmente sgombro da disegni come qualcosa di fuori tempo e di fuori luogo, mentre ormai il 90% dei corpi sono percorsi dalla mano di un tatuatore.
Così, al bando ogni firma sul braccio. Ho i miei dolori ma me li tengo per me. Ho la mia vita, con le sue nobiltà e le sue meschinità, ma ne parlo solo rigorosamente protetto da uno pseudonimo, mentre le tante persone che conoscono il mio nome e cognome quando mi chiedono come sto, si sentono rispondere - fosse anche passato un tornado, mi fosse venuto pure un accidente - "Molto bene, grazie. E lei?". Anche perché "Come stai?" è diventato un'intercalare. Nessuno ha veramente voglia di ascoltare la risposta. E in una fase storica in cui tutti fanno a gara per apparire, io gioisco del mio scomparire. Appartengo a coloro che non hanno mai omaggi, mi sono sorpreso di appartenere alla categoria di quelli che vengono spesso fermati dalle persone per farsi una foto. Ma non con me, ma a loro. Evidentemente tengo scritto in faccia che sono un bravo fotografo, chissà.
Certo, sono anche io sui social. Ma col mio pseudonimo, senza che il mondo veda e pretenda di giudicarmi dal mio grugno e dal mio corpo, sulla cui avvenenza si potrebbe assai discutere, ma che in fondo mi accompagnano da oltre quarant'anni e ai quali non rinuncerei per niente al mondo. Figurarsi se li imbratto con i tatuaggi. Signor nessuno, sì. Ma libero. Libero dall'obbligo di dover piacere per forza a tutti. Un Diogene che, seguendo il consiglio di Epicuro, se ne sta per conto suo e che esce dal suo guscio solo se qualcuno mostra di voler davvero avere a che fare con lui, non a chiacchiere, non con finte manifestazioni di interesse. Nella vita, o per scelta o per incapacità d’essere diverso, ho sempre seguito il consiglio di Epicuro e ho deciso di vivere nascosto, senza leccare la mano di alcuno. Nel mio foro interno ho trattato tutta l'umanità alla pari perché, non brigando neppure la carica di amministratore di condominio, di tutta l'umanità posso fare a meno. Libero di poter un giorno spegnere tutto e scomparire. Libero di morire con la felicità di sapere che il mondo non è così inguaiato da non poter fare a meno di me.
Ricordare un genitore, celebrarlo, con un tatuaggio o, come va orridamente di moda oggi, con lunghi post commemorativi, ha senso se questi è stato un'importante personalità, che ha avuto un ruolo pubblico. E' il caso, per esempio, di una mia amica, figlia di un grande giornalista della mia città, che ne celebra la grandezza sui social. Viceversa, mio padre e mia madre erano due onesti e dignitosi funzionari statali. La loro morte ha tolto moltissimo a me e ai loro affetti, ma nulla al mondo, infatti il sole continua ogni giorno a sorgere sul pianeta (o meglio, visto che sennò gli scientificamente corretti si offendono, la Terra continua ogni giorno ad incontrare il sole) e mentre oggi qualsiasi tifoso del Napoli conosce quel giornalista, il nome dei miei non dice niente a nessuno, come il mio nome non dirà nulla a nessuno quando gli occhi li chiuderò per sempre anche io. Così mi sono detto che sarebbe stata un'esibizione del tutto fine a se stessa. E ho ridotto all'osso anche ogni post di tipo personalistico.
Questa non è una considerazione scontata. I social sono il tempio del narcisismo, sono pensati per questo, per dare lustro a vite altrimenti banali, imperniate su una perenne lotta per la sopravvivenza, su coppie la cui gaiezza viene sbandierata attraverso foto di dita incrociate, di anelli, di matrimoni per poi, va da sé, quando finisce, dare vita alle ripicche a colpi di post rancorosi contro l'ex-partner. E così anche i tatuaggi cosa sono? Una sorta di esibizione. E non ho nulla contro le esibizioni, sia chiaro, ma tutto va fatto "cum grano salis". Fin quando si sfoggia un tatuaggio relativo a qualcosa di importantissimo, passi. Ma riempirsi il corpo di tatuaggi appartiene a qualcosa che non può che avere a che fare con lo smodato desiderio di dare al proprio corpo e alla propria persona un valore che si presume, altrimenti, di non avere. Ormai la moda dei tatuaggi è esplosa e si è passati da un timido simbolo, spesso in parti del corpo nascoste dai vestiti, ad un travolgimento di simboli più o meno esoterici, attraverso cui dire al mondo "Ehi mi vedete? Lo vedete che ho dei tatuaggi? Lo vedete che io sono così, la penso così?". E quelle rare volte che vado nelle spiagge per cercare un po' di refrigerio e di ristoro - il mare ha su di me un effetto quasi taumaturgico - mi sorprendo a scoprire il mio corpo totalmente sgombro da disegni come qualcosa di fuori tempo e di fuori luogo, mentre ormai il 90% dei corpi sono percorsi dalla mano di un tatuatore.
Così, al bando ogni firma sul braccio. Ho i miei dolori ma me li tengo per me. Ho la mia vita, con le sue nobiltà e le sue meschinità, ma ne parlo solo rigorosamente protetto da uno pseudonimo, mentre le tante persone che conoscono il mio nome e cognome quando mi chiedono come sto, si sentono rispondere - fosse anche passato un tornado, mi fosse venuto pure un accidente - "Molto bene, grazie. E lei?". Anche perché "Come stai?" è diventato un'intercalare. Nessuno ha veramente voglia di ascoltare la risposta. E in una fase storica in cui tutti fanno a gara per apparire, io gioisco del mio scomparire. Appartengo a coloro che non hanno mai omaggi, mi sono sorpreso di appartenere alla categoria di quelli che vengono spesso fermati dalle persone per farsi una foto. Ma non con me, ma a loro. Evidentemente tengo scritto in faccia che sono un bravo fotografo, chissà.
Certo, sono anche io sui social. Ma col mio pseudonimo, senza che il mondo veda e pretenda di giudicarmi dal mio grugno e dal mio corpo, sulla cui avvenenza si potrebbe assai discutere, ma che in fondo mi accompagnano da oltre quarant'anni e ai quali non rinuncerei per niente al mondo. Figurarsi se li imbratto con i tatuaggi. Signor nessuno, sì. Ma libero. Libero dall'obbligo di dover piacere per forza a tutti. Un Diogene che, seguendo il consiglio di Epicuro, se ne sta per conto suo e che esce dal suo guscio solo se qualcuno mostra di voler davvero avere a che fare con lui, non a chiacchiere, non con finte manifestazioni di interesse. Nella vita, o per scelta o per incapacità d’essere diverso, ho sempre seguito il consiglio di Epicuro e ho deciso di vivere nascosto, senza leccare la mano di alcuno. Nel mio foro interno ho trattato tutta l'umanità alla pari perché, non brigando neppure la carica di amministratore di condominio, di tutta l'umanità posso fare a meno. Libero di poter un giorno spegnere tutto e scomparire. Libero di morire con la felicità di sapere che il mondo non è così inguaiato da non poter fare a meno di me.
E così posso fare anche a meno dei tatuaggi.