Una persona che scrive davvero bene mi dice che vuole smettere perché "nessuno la legge" o perlomeno così crede, un'altra persona di grandissima qualità che pure ha avuto una lunga esperienza di politica da strada mi dice che vuole lasciare la politica perché è stata defenestrata da un politico che, dopo averla sfruttata indegnamente, al momento opportuno non ha ricambiato il favore escludendola dalle liste, e passa il tempo a pensare di non valere nulla, di aver sbagliato tutto, di non avere le capacità per raggiungere l'agognato riconoscimento. E proprio ieri un contatto mi contatta fortemente irritato perché la sua città ha subito lo smacco di sentirsi dire da Sgarbi che la probabile nuova capitale della cultura sarà Orvieto, nonostante in teoria i giochi siano ancora aperti: e sia chiaro, lo dico agli eventuali lettori orvietani che dovessero leggermi, il punto non è che Orvieto non meriti di diventare tale, ma che si dia già per definita una scelta che in teoria dovrebbe ancora essere in itinere e che quindi la sensazione è che i giochi siano già fatti. Il filo comune che unisce queste comprensibili ancorché ingenue recriminazioni - peraltro provenienti da persone di grandissimo spessore - è che il successo derivi dal talento o dalla qualità dei progetti, o che addirittura li determini. E anche quando sono coscienti di certi meccanismi, ne parlano comunque col risentimento di chi in fondo crede che altrove, nello spazio e nel tempo, le cose vadano diversamente.
In realtà, il successo raramente ha a che fare con un vero talento, che anzi non va oltre il 10%. Tutto il resto sono pubbliche relazioni con uomini potentissimi che, grazie ai propri personali agganci, al proprio potere, alle proprie capacità relazionali, riescono a trasformare un capolavoro in una roba di pochi intimi e una roba insignificante in un successo enorme sul piano commerciale, stracolmo di riconoscimenti anche internazionali. Era così nell'antichità - al punto che il termine "mecenatismo" deriva da Mecenate, potentissimo e ascoltatissimo consigliere di Augusto, dedito a promuovere la produzione artistica di figure di cui oggi non sapremmo nulla - ed è così oggi. Raccontava Luciano De Crescenzo che quando pubblicò per la prima volta il libro che lo rese famoso "Così parlò Bellavista", era fortemente indeciso se lasciare l'IBM di cui era ingegnere o darsi definitivamente alla scrittura. Un bel giorno incontrò Maurizio Costanzo il quale gli disse "Venga nel mio programma e questa domanda la faccia ai lettori". Nel giro di pochi giorni, le copie vendute passarono dalle poche migliaia alle centinaia di migliaia e, non bastasse, lo scrittore mio concittadino fu tradotto in non so più quante lingue, tanto che un mio amico giapponese era estasiato dal racconto dello scrittore mio concittadino, dicendo che in Giappone era popolare quanto Totò e Maradona. Improvvisamente tutti si innamorarono di quel libro? Quel libro era un capolavoro? De Crescenzo era un mago della letteratura? Un po' sì e un po' no. Semplicemente De Crescenzo era riuscito a penetrare il vettore giusto, il che però non spiega perché molti vanno appresso ai vettori del successo. E qui la questione si complica.
Un detto, infatti, insegna che: “Nulla ha più successo del successo”. Se un prodotto commerciale, un attore, un uomo politico cominciano ad avere successo, i loro acquirenti o i loro simpatizzanti aumentano a vista d’occhio. Perché ognuno si fida del giudizio degli altri e consciamente o inconsciamente sale sul carro del vincitore. E le cose vanno così anche al negativo. Si potrebbe dire che: "Nulla ha più insuccesso dell’insuccesso". La tendenza ad allontanarsi dal perdente è legata all’istinto di protezione di sé e dei propri interessi. Quando si profilano delle elezioni ciò diviene: “Se molti dicono che questo politico sarà sconfitto, io sosterrò un altro”. Questo meccanismo, per esempio, lo si vede anche dai sondaggi: se oggi i giornali titolassero che Fratelli d'Italia è in crollo verticale, molti meloniani smetterebbero di essere tali. Se viceversa, titolassero di un ritorno di fiamma del berlusconismo, ecco che molti ritornerebbero berlusconiani. E questo incide anche sulla formazione dei gusti, in molti campi. Un mio amico, che era nello staff di Top of the Pops, mi spiegava che esistevano direttive ben precise su come selezionare il pubblico e il tutto era mirato ad influenzare e orientare i gusti del pubblico da casa, e mi faceva questo esempio: di fronte ad un gruppo musicale maschile, venivano messe in prima fila donne vestite in un certo modo e con una certa fisicità, così che molte donne da casa avrebbero associato quel vestiario e quella fisicità al successo, dando ad intendere che se si fossero vestite allo stesso modo, avrebbero avuto anche loro le porte aperte verso la gloria, e molti uomini si sarebbero vestiti come quel gruppo, associando il vestiario ad una maggiore appetibilità presso il sesso femminile.
Il successo ha successo soltanto presso coloro che non ne conoscono i meccanismi. Chi lo insegue per se stesso a quel punto si trova di fronte ad un bivio: o decide di drogarsi del successo stesso, finendo per rovinarsi la vita, oppure se ne nausea a tal punto che, come capitò a Lucio Battisti, decide praticamente di ritirarsi a vita privata. E quanto sopra, sia chiaro, non vuol essere un apologo contro il successo, ché viceversa rischierebbe di apparire una "rosicata", come va di modo dire oggi. E' che la popolarità non è altro che un mezzo attraverso cui realizzare qualcosa. Tra i motivi per cui me ne sono andato da Facebook c'è proprio che pur avendo realizzato numeri interessanti, ad un certo punto mi sono trovato di fronte ad un bivio: cosa me ne faccio? Investo 2000-3000 euro per ritrovarmi una pagina da 400.000 "seguaci", ma poi? Cosa me ne faccio? Posso cambiare le cose in Italia? No. E realizzando che un eventuale successo per me si trasformerebbe in un incubo - perché dovrei passare il resto del tempo a chiedermi se querelare o se far assassinare i tanti nemici che pur di farmi del male mi attaccherebbero sui tanti scheletri che, come qualsiasi essere umano di questo mondo e di questo tempo che abbia vissuto una vita piena anche di errori, nascondo nel mio armadio - ho capito che sarebbe un successo inutile, senza sbocchi. E a me tutto questo semplicemente non interessa. Mentre ho capito che questi meccanismi li posso sfruttare per realizzare qualcosa di mio, in cui ci sono le mie impronte, i miei valori, il mio modo di vedere la vita e il mio lavoro. E di usare il successo come un mezzo col quale, va da sé, voglio anche fare un po' di quei soldi che mi consentano di far stare bene e sereno me e chi amo. Ma senza farmene una malattia. Mi conosco a sufficienza da stimare me stesso molto meno delle persone che mi amano e di perdonarmi più di quanto farebbero le persone che mi odiano.
In realtà, il successo raramente ha a che fare con un vero talento, che anzi non va oltre il 10%. Tutto il resto sono pubbliche relazioni con uomini potentissimi che, grazie ai propri personali agganci, al proprio potere, alle proprie capacità relazionali, riescono a trasformare un capolavoro in una roba di pochi intimi e una roba insignificante in un successo enorme sul piano commerciale, stracolmo di riconoscimenti anche internazionali. Era così nell'antichità - al punto che il termine "mecenatismo" deriva da Mecenate, potentissimo e ascoltatissimo consigliere di Augusto, dedito a promuovere la produzione artistica di figure di cui oggi non sapremmo nulla - ed è così oggi. Raccontava Luciano De Crescenzo che quando pubblicò per la prima volta il libro che lo rese famoso "Così parlò Bellavista", era fortemente indeciso se lasciare l'IBM di cui era ingegnere o darsi definitivamente alla scrittura. Un bel giorno incontrò Maurizio Costanzo il quale gli disse "Venga nel mio programma e questa domanda la faccia ai lettori". Nel giro di pochi giorni, le copie vendute passarono dalle poche migliaia alle centinaia di migliaia e, non bastasse, lo scrittore mio concittadino fu tradotto in non so più quante lingue, tanto che un mio amico giapponese era estasiato dal racconto dello scrittore mio concittadino, dicendo che in Giappone era popolare quanto Totò e Maradona. Improvvisamente tutti si innamorarono di quel libro? Quel libro era un capolavoro? De Crescenzo era un mago della letteratura? Un po' sì e un po' no. Semplicemente De Crescenzo era riuscito a penetrare il vettore giusto, il che però non spiega perché molti vanno appresso ai vettori del successo. E qui la questione si complica.
Un detto, infatti, insegna che: “Nulla ha più successo del successo”. Se un prodotto commerciale, un attore, un uomo politico cominciano ad avere successo, i loro acquirenti o i loro simpatizzanti aumentano a vista d’occhio. Perché ognuno si fida del giudizio degli altri e consciamente o inconsciamente sale sul carro del vincitore. E le cose vanno così anche al negativo. Si potrebbe dire che: "Nulla ha più insuccesso dell’insuccesso". La tendenza ad allontanarsi dal perdente è legata all’istinto di protezione di sé e dei propri interessi. Quando si profilano delle elezioni ciò diviene: “Se molti dicono che questo politico sarà sconfitto, io sosterrò un altro”. Questo meccanismo, per esempio, lo si vede anche dai sondaggi: se oggi i giornali titolassero che Fratelli d'Italia è in crollo verticale, molti meloniani smetterebbero di essere tali. Se viceversa, titolassero di un ritorno di fiamma del berlusconismo, ecco che molti ritornerebbero berlusconiani. E questo incide anche sulla formazione dei gusti, in molti campi. Un mio amico, che era nello staff di Top of the Pops, mi spiegava che esistevano direttive ben precise su come selezionare il pubblico e il tutto era mirato ad influenzare e orientare i gusti del pubblico da casa, e mi faceva questo esempio: di fronte ad un gruppo musicale maschile, venivano messe in prima fila donne vestite in un certo modo e con una certa fisicità, così che molte donne da casa avrebbero associato quel vestiario e quella fisicità al successo, dando ad intendere che se si fossero vestite allo stesso modo, avrebbero avuto anche loro le porte aperte verso la gloria, e molti uomini si sarebbero vestiti come quel gruppo, associando il vestiario ad una maggiore appetibilità presso il sesso femminile.
Il successo ha successo soltanto presso coloro che non ne conoscono i meccanismi. Chi lo insegue per se stesso a quel punto si trova di fronte ad un bivio: o decide di drogarsi del successo stesso, finendo per rovinarsi la vita, oppure se ne nausea a tal punto che, come capitò a Lucio Battisti, decide praticamente di ritirarsi a vita privata. E quanto sopra, sia chiaro, non vuol essere un apologo contro il successo, ché viceversa rischierebbe di apparire una "rosicata", come va di modo dire oggi. E' che la popolarità non è altro che un mezzo attraverso cui realizzare qualcosa. Tra i motivi per cui me ne sono andato da Facebook c'è proprio che pur avendo realizzato numeri interessanti, ad un certo punto mi sono trovato di fronte ad un bivio: cosa me ne faccio? Investo 2000-3000 euro per ritrovarmi una pagina da 400.000 "seguaci", ma poi? Cosa me ne faccio? Posso cambiare le cose in Italia? No. E realizzando che un eventuale successo per me si trasformerebbe in un incubo - perché dovrei passare il resto del tempo a chiedermi se querelare o se far assassinare i tanti nemici che pur di farmi del male mi attaccherebbero sui tanti scheletri che, come qualsiasi essere umano di questo mondo e di questo tempo che abbia vissuto una vita piena anche di errori, nascondo nel mio armadio - ho capito che sarebbe un successo inutile, senza sbocchi. E a me tutto questo semplicemente non interessa. Mentre ho capito che questi meccanismi li posso sfruttare per realizzare qualcosa di mio, in cui ci sono le mie impronte, i miei valori, il mio modo di vedere la vita e il mio lavoro. E di usare il successo come un mezzo col quale, va da sé, voglio anche fare un po' di quei soldi che mi consentano di far stare bene e sereno me e chi amo. Ma senza farmene una malattia. Mi conosco a sufficienza da stimare me stesso molto meno delle persone che mi amano e di perdonarmi più di quanto farebbero le persone che mi odiano.
Allo scrittore che non si vede pubblicato, al politico che non vede riconosciuti i propri meriti, alla città che si vede scartata per motivi politici, non resta che ricordare che Kafka soltanto dopo morto divenne famoso e che molti VIP passeggiano per le strade camuffati perché rimpiangono il momento in cui non erano nessuno ma perlomeno non dovevano misurarsi con fan invadenti, innamorati non delle opere di un artista ma solo della luce riflessa del suo successo e interessati soltanto al fastidioso e inutile autografo o selfie. Chi usa il successo per placare rancori e delusioni di tempi passati, condanna se stesso all'infelicità, all'eterna insoddisfazione. Meglio invece essere vivi e vivere da sconosciuti. Meglio apprezzare la bellezza di ciò che ci circonda. Meglio venire al mondo ed andarsene sapendo di essere amati, senza dover chiedersi se le riverenze di cui godiamo non siano figlie dell'opportunismo. E tenendo sempre conto di una popolarissima poesia di Totò, specialmente questo passo.
"Ma chi te cride d'essere...nu ddio? Ccà dinto,'o vvuo capi,ca simmo eguale?... Muorto si'tu e muorto so' pur'io; ognuno comme a 'na'ato é tale e quale". "Lurido porco!...Come ti permetti, paragonarti a me ch'ebbi natali illustri,nobilissimi e perfetti, da fare invidia a Principi Reali?". "Tu qua' Natale...Pasca e Ppifania!!! T''o vvuo' mettere 'ncapo...'int'a cervella che staje malato ancora e' fantasia?... 'A morte 'o ssaje ched''e?...è una livella. 'Nu rre,'nu maggistrato,'nu grand'ommo, trasenno stu canciello ha fatt'o punto c'ha perzo tutto,'a vita e pure 'o nomme: tu nu t'hè fatto ancora chistu cunto? Perciò,stamme a ssenti...nun fa''o restivo, suppuorteme vicino-che te 'mporta? Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive: nuje simmo serie...appartenimmo à morte!"
--
E chest'è.