Un'accusa sovente rivoltami è quella di formulare diagnosi senza speranza. Quando per esempio scrivo che Giorgia Meloni non salverà questo paese - non perché non voglia, ma perché non ne ha le possibilità - ottengo come reazione spiacevole e peraltro comprensibile, di farmi il vuoto attorno di molte persone e molti influencer che ruotano attorno alla destra, che mi guardano con diffidenza perché hanno deciso di sostenere questo governo. D'altra parte, che questa legislatura nasca, almeno ufficialmente, come sostegno a Zelensky e che sul piano della pandemia ci siano stati blandi cambiamenti, peraltro in linea con uno sbaraccamento planetario, è un dato di fatto. E tuttavia molti dissidenti hanno voluto farsi un ultimo giro con la Meloni perché illusi che possa arrivare uno strappo. Vero o meno che sia, il problema è che oggi porre dubbi ad un fan di Fratelli d'Italia - come in generale ad un fan di chiunque - è come discutere con un provax: una causa persa. Chi coltivasse ambizioni di radicamento a destra, o si avvolge nelle bandiere meloniane o viene ridotto all'irrilevanza. Sicuramente mi dispiace. Ma ad alleggerire il dispiacere c'è che quando le illusioni incontreranno la realtà, nessuno potrà venire qui e dirsi deluso perché "ci avevi promesso che se avessimo seguito questa strada, saremmo stati tutti meglio". D'altra parte, uno deve scegliere - siamo alle solite - se fare il trombettiere o dire le cose per come le vede. Perché quando le suggestioni incontrano il bagno della realtà, tanti influencer e giornalistucoli della destra, che inondano la propria pagina di post taggando qualche potente della propria area, sperando che quest'ultimo si accorga di loro, verranno abbandonati mentre io verrò riempito di messaggi con scritto "avevi ragione tu". Leit motiv di vent'anni di blog, anche se magrissima soddisfazione, sia perché non ho profetizzato nulla ma solo denunciato l'ovvio, sia perché preferirei mille volte aver torto invece di vedere il mio paese sprofondare nella merda.
Ma l'accusa di "diagnosi senza speranza" è ingiusta. Chi mi legge sa benissimo come la penso: questo paese si salva solo con una rivoluzione. A dire questo, oggi come oggi, ci si guadagna quando va bene l'irrisione, quando va male l'ostilità. Eppure non dico nulla che non si possa riscontrare studiando la storia. La stessa odierna concezione di democrazia e di libertà ci è giunta non per gentile concessione del potere ma versando sangue e tagliando teste. Poi si può discuterne la fattibilità, opponendo la solita litania degli "italiani che non fanno la rivoluzione". Ma io non vedo altra via di uscita: una diagnosi che una cura la offre ma dolorosa, faticosa, tipica di una malattia mortale, molto chiara: siamo di fronte a delle forze che vogliono impoverirci, distruggerci, decimarci. E di fronte alla quale, la reazione di ogni uomo d'onore è di organizzare una resistenza e dichiarare guerra esattamente come fecero i partigiani, il cui ragionamento era molto semplice: il fascismo è una dittatura, noi crediamo che cacciando i fascisti avremo la libertà, dobbiamo quindi organizzarci in gruppi e ammazzare i fascisti. Avevano torto nel merito ma piena ragione nel metodo: quando c'è un oppressore, l'unica via è ammazzarlo.
Si può contestare quanto si vuole che questo sistema sia nostro nemico e sposare la teoria del TINA (There Is Not Alternative) ma se invece ci si vuole ribellare a questo disegno, è del tutto assurdo e ridicolo pretendere di farlo per vie istituzionali. O forse in realtà quello che la gente vuole è solo di continuare a pensare che il cancro mortale di cui sono affetti i paesi europei si possa risolvere con il bicarbonato o con i semi di Artemisia.
Ma l'accusa di "diagnosi senza speranza" è ingiusta. Chi mi legge sa benissimo come la penso: questo paese si salva solo con una rivoluzione. A dire questo, oggi come oggi, ci si guadagna quando va bene l'irrisione, quando va male l'ostilità. Eppure non dico nulla che non si possa riscontrare studiando la storia. La stessa odierna concezione di democrazia e di libertà ci è giunta non per gentile concessione del potere ma versando sangue e tagliando teste. Poi si può discuterne la fattibilità, opponendo la solita litania degli "italiani che non fanno la rivoluzione". Ma io non vedo altra via di uscita: una diagnosi che una cura la offre ma dolorosa, faticosa, tipica di una malattia mortale, molto chiara: siamo di fronte a delle forze che vogliono impoverirci, distruggerci, decimarci. E di fronte alla quale, la reazione di ogni uomo d'onore è di organizzare una resistenza e dichiarare guerra esattamente come fecero i partigiani, il cui ragionamento era molto semplice: il fascismo è una dittatura, noi crediamo che cacciando i fascisti avremo la libertà, dobbiamo quindi organizzarci in gruppi e ammazzare i fascisti. Avevano torto nel merito ma piena ragione nel metodo: quando c'è un oppressore, l'unica via è ammazzarlo.
Si può contestare quanto si vuole che questo sistema sia nostro nemico e sposare la teoria del TINA (There Is Not Alternative) ma se invece ci si vuole ribellare a questo disegno, è del tutto assurdo e ridicolo pretendere di farlo per vie istituzionali. O forse in realtà quello che la gente vuole è solo di continuare a pensare che il cancro mortale di cui sono affetti i paesi europei si possa risolvere con il bicarbonato o con i semi di Artemisia.
Il punto è che la cura ai nostri mali c'è. Ma è dolorosa e prevede tre farmaci essenziali per qualsiasi cosa di difficile si faccia: fatica, sacrifici, rischi. La fatica è ovvia: bisogna affrontare un addestramento militare. I sacrifici pure: bisogna rinunciare a parte del proprio benessere, perché c'è da sopportare una guerra. I rischi pure sono di non poco conto: se si trama per sovvertire uno stato e le forze dell'ordine costituito se ne accorgono, si finisce in isolamento in carcere o si viene ammazzati. E di fronte a queste tre cose, il fronte degli oppositori si svuota. Perché per molti il dissenso non è niente di più che un canale Telegram a cui unirsi per pettinare il narcisismo di molti masanielli digitali, a caccia di poltrone o semplicemente di nutrimento per il proprio ego. Ad essere senza speranza non è la mia diagnosi, semmai, forse, la convinzione da parte della gente che dalle gravi malattie si guarisca con acqua e limone. E dico forse perché ogni malato, quando si accorge che l'unica speranza di sopravvivenza è una cura dolorosa, alla fine la affronta, proprio come Mihajlovic. Che per inciso, non è che sia stato coraggioso, come non lo è nessuno che abbia una malattia mortale. Semplicemente non aveva scelta. E analogamente, ci sono momenti in cui si cambia per sopravvivere. Perché i veri cambiamenti entrano nelle persone non seguendo la via della testa, ma, con rispetto e decenza parlando, quelle di parti del corpo dove non splendono i raggi solari.