Chi ha vissuto l'esperienza di vivere a temperature di gran lunga sotto lo zero, scoprirà la bellezza di una temperatura un po' più mite, ma comunque sotto lo zero. E analogamente, quando si passa dai 50 gradi ai 35, subito ci si immagina un gran fresco, quasi come se si fosse andati in montagna. Ma tutto questo dura relativamente poco, perché caldo e freddo, come anche altre sensazioni (dolore, fatica, etc.) non sono stati di fatto ma segnali che il corpo manda per indicare la presenza di condizioni che stressino l'organismo. Che rapidamente si adatta al cambiamento, continuando però a mandare segnali se lo stress non è stato ancora eliminato. Molti però confondono il temporaneo miglioramento della propria sofferenza con l'eliminazione del problema. Questo non avviene solo quando parliamo di temperature o di dolori fisici. Se infatti si condanna all'ergastolo un omicida, tutti reputano sacrosanta la pena mentre se si condanna a dieci anni di carcere un vecchietto che ha rubato una mela, specie se indigente, la gente inizierà a simpatizzare con quello che comunque, anziano e indigente, resta un ladro che si è appropriato di qualcosa che non è suo, togliendolo a chi se lo è guadagnato. E' proprio per questo che uno dei cardini del diritto è la proporzionalità della pena. Tagliare la mano ad un ladro di polli ottiene senza dubbio il risultato che molti aspiranti ladri ci pensino bene prima di introdursi in un pollaio. Ma una società dove viene applicata una pena del genere resta sempre e comunque un posto dove nessuna persona vorrebbe vivere.
Ed è anche per questo che due vicende differenti tra loro come quella di Memo Remigi e di Enrico Montesano, ma unite dallo stesso sfondo - la costruzione di una società il cui potere giudiziario è trasferito nei media mainstream - preoccuperebbero qualsiasi persona normale.
Premessa: Memo Remigi è quello che dalle mie parti si definirebbe un "vecchio rattuso", per indicare un uomo viscido propenso ad allungare le mani oltre il consentito. Così come non credo ad una virgola dell'autenticità di un Montesano che nella sua vita ha cambiato più bandiere che mutande. Non c'entrano nulla né il maschilismo né il nazifemminismo, né il fascismo né l'antifascismo. Le mani si tengono a posto se il destinatario non esplicita un gradimento. E se un attore con quasi sessant'anni di esperienza, per giunta oggi collocato nell'area del dissenso, si reca nella TV di stato di un paese ormai simile all'Inquisizione, indossando certe magliette, non si può lamentare delle conseguenze. Ti aspettavi di giungere al cospetto della Lucarelli e di poter mettere una maglia di quel tipo senza che lei lo notasse? Ah Montesà, ma ci hai presi per fessi?
Nel frattempo, come da prassi ormai consolidata, le masse incolte e belluine obbediscono al fischio dell'arbitro che dà il via al wrestling: ha ragione Montesano o la Lucarelli? Ha ragione Memo Remigi o la Lucarelli? Senza che nessuno si ponga l'unica vera domanda che andrebbe posta: perché la Lucarelli (e non solo lei, ovviamente) gode di tutto questo potere paragiudiziario? In un paese sano, la Morlacchi, infastidita dalla minaccia sessuale (molto teorica, vista l'età dell'offensore) del vecchio rattuso, è giusto che lo quereli, chiamandolo a risponderne in tribunale (anche se uno schiaffo ben assestato a telecamere spente forse sarebbe bastato) e un giudice deciderà la sanzione da applicare, senza invocare né castrazioni chimiche né un volemose bene all'insegna del reazionarismo maschilista. E se si ritiene che Montesano abbia sbagliato ad indossare quella maglia, gli si dice di toglierla - esattamente come, durante quel poco di irrilevante televisione locale che feci (ormai un secolo fa) ero invitato a non presentarmi con abiti che avessero anche alla lontana un riferimento ad un marchio commerciale o politico - e di mettersene un'altra, senza che questo faccia urlare alla censura né trasformi la cosa in un processo televisivo. Non si affida il giudizio all'arbitrio di questo o di quell'opinionista, di questa o di quell'altra lobby.
Così, mentre il paese si divide tra neofascisti illusi che la maglietta della Decima Mas e la recitazione di carmi spiritualisti li renda eredi di Borghese o di D'Annunzio, e antifascisti che si sentono partigiani in montagna solo perché postano sui social la foto della Meloni a testa in giù, nessuno realizza che, passo dopo passo, polemica dopo polemica, goccia dopo goccia di sangue digitale (col rischio che possa a breve o medio termine diventare sangue effettivo) stiamo ammazzando lo stato di diritto, la cultura giuridica, la civiltà in sintesi di un paese autenticamente liberaldemocratico.
Forse chi è intento a compatire gli ultimi fuochi del goderecciume o ad inneggiare alla sacralità delle natiche di un'ex enfant prodige della musica, può trovare patetico che si usino vicende così insignificanti persino nel loro stesso campo per denunziare una deriva totalitaria.
Ed è anche per questo che due vicende differenti tra loro come quella di Memo Remigi e di Enrico Montesano, ma unite dallo stesso sfondo - la costruzione di una società il cui potere giudiziario è trasferito nei media mainstream - preoccuperebbero qualsiasi persona normale.
Premessa: Memo Remigi è quello che dalle mie parti si definirebbe un "vecchio rattuso", per indicare un uomo viscido propenso ad allungare le mani oltre il consentito. Così come non credo ad una virgola dell'autenticità di un Montesano che nella sua vita ha cambiato più bandiere che mutande. Non c'entrano nulla né il maschilismo né il nazifemminismo, né il fascismo né l'antifascismo. Le mani si tengono a posto se il destinatario non esplicita un gradimento. E se un attore con quasi sessant'anni di esperienza, per giunta oggi collocato nell'area del dissenso, si reca nella TV di stato di un paese ormai simile all'Inquisizione, indossando certe magliette, non si può lamentare delle conseguenze. Ti aspettavi di giungere al cospetto della Lucarelli e di poter mettere una maglia di quel tipo senza che lei lo notasse? Ah Montesà, ma ci hai presi per fessi?
Nel frattempo, come da prassi ormai consolidata, le masse incolte e belluine obbediscono al fischio dell'arbitro che dà il via al wrestling: ha ragione Montesano o la Lucarelli? Ha ragione Memo Remigi o la Lucarelli? Senza che nessuno si ponga l'unica vera domanda che andrebbe posta: perché la Lucarelli (e non solo lei, ovviamente) gode di tutto questo potere paragiudiziario? In un paese sano, la Morlacchi, infastidita dalla minaccia sessuale (molto teorica, vista l'età dell'offensore) del vecchio rattuso, è giusto che lo quereli, chiamandolo a risponderne in tribunale (anche se uno schiaffo ben assestato a telecamere spente forse sarebbe bastato) e un giudice deciderà la sanzione da applicare, senza invocare né castrazioni chimiche né un volemose bene all'insegna del reazionarismo maschilista. E se si ritiene che Montesano abbia sbagliato ad indossare quella maglia, gli si dice di toglierla - esattamente come, durante quel poco di irrilevante televisione locale che feci (ormai un secolo fa) ero invitato a non presentarmi con abiti che avessero anche alla lontana un riferimento ad un marchio commerciale o politico - e di mettersene un'altra, senza che questo faccia urlare alla censura né trasformi la cosa in un processo televisivo. Non si affida il giudizio all'arbitrio di questo o di quell'opinionista, di questa o di quell'altra lobby.
Invece, nel
consueto scannatoio quotidiano tra lobotomizzati divisi in fazione ma uniti dal desiderio di eiaculare il proprio giornaliero minuto d'odio, a molti sfugge l'ormai conclamato trasferimento del potere giudiziario dai tribunali alle televisioni e, peggio ancora, sui social, dove i malcapitati, processati da giudici senza lauree in giurisprudenza - privi dunque della relativa cultura giuridica che dovrebbe animare chiunque emetta sentenze che producano conseguenze - finiscono nella canea di un diritto reputazionale, trasformando sempre più questo paese in una cultura che ricorda molto il sistema cinese dei crediti sociali. Col risultato che se è vero che una parte del paese crede che quello di Remigi sia un gesto deprecabile e che Montesano se la sia cercata, c'è una parte sempre crescente del paese che simpatizza per entrambi, evidentemente preoccupata per la pericolosa china intrapresa, svalutando così l'entità dei torti subiti dalle vittime. Perché se si può e si deve essere d'accordo nel condannare il gesto di Remigi e dunque chiedere che Montesano si tolga la maglia, al tempo stesso in uno stato di diritto degno di questo nome, la cosa si affronta a norma di legge, non a norma di televisione. Perché il sentire comune, andrebbe spiegato a quelli di Huffington Post che ovviamente hanno gioito senza rendersi conto della gravità di quanto hanno scritto, non si cambia a colpi di televisione, ma attraverso le regole del diritto. Ubi ius, ibi societas è il brocardo che ogni studente di diritto impara sin dal primo anno di corso, dove più che il diritto nelle sue applicazioni fattuali, se ne studia, attraverso Diritto Privato, Costituzionale e Filosofia, lo spirito.Così, mentre il paese si divide tra neofascisti illusi che la maglietta della Decima Mas e la recitazione di carmi spiritualisti li renda eredi di Borghese o di D'Annunzio, e antifascisti che si sentono partigiani in montagna solo perché postano sui social la foto della Meloni a testa in giù, nessuno realizza che, passo dopo passo, polemica dopo polemica, goccia dopo goccia di sangue digitale (col rischio che possa a breve o medio termine diventare sangue effettivo) stiamo ammazzando lo stato di diritto, la cultura giuridica, la civiltà in sintesi di un paese autenticamente liberaldemocratico.
Forse chi è intento a compatire gli ultimi fuochi del goderecciume o ad inneggiare alla sacralità delle natiche di un'ex enfant prodige della musica, può trovare patetico che si usino vicende così insignificanti persino nel loro stesso campo per denunziare una deriva totalitaria.
Ma che la china sia chiarissima e pericolosissima è un fatto difficilmente contestabile.