di Laura Spinney
L’influenza spagnola fu in tutto e per tutto la prima pandemia influenzale postpasteuriana, dal momento che era stato solo durante la precedente pandemia – l’influenza russa degli anni novanta dell’Ottocento – che Richard Pfeiffer aveva annunciato di avere identificato la causa della malattia in un microbo. Nel 1918 il suo modello era ancora prevalente, anche se errato.
Senza test diagnostici a disposizione, e in disaccordo su quale fosse l’agente del contagio – e, in alcuni casi, anche sull’identità della malattia –, i medici si ritrovarono prigionieri dei loro stessi dubbi. In alcuni paesi, per esempio, fu raccomandato l’uso delle mascherine protettive – in Giappone probabilmente segnò l’inizio della pratica di indossarle per proteggersi dai germi –, ma tra gli ufficiali sanitari non c’era accordo sul fatto che aiutassero a ridurre la trasmissione dell’influenza. Gli esperti erano divisi anche sul disinfettante.
Alla fine di ottobre 1918, quando l’ondata d’autunno era già cominciata – e le stazioni della metropolitana e i teatri di Parigi venivano regolarmente innaffiati di candeggina –, un giornalista chiese a Émile Roux, nientemeno che il direttore dell’istituto Pasteur, se la disinfezione fosse efficace. La domanda colse Roux di sorpresa. «Assolutamente inutile», rispose. «Mettete venti persone in una stanza disinfettata e fate entrare un malato di influenza. Se starnutisce, se anche una sola particella del suo muco nasale o della sua saliva raggiunge chi gli sta accanto, quest’ultimo sarà contagiato nonostante la disinfezione». Da tempo si presumeva che, in quanto bersagli preferiti dell’influenza stagionale, i bambini in età scolare fossero i vettori ideali della malattia: si vedono e si mescolano tutti i giorni, e il loro controllo del moccio tende a essere tutt’altro che ottimale. Anche nel 1918 la chiusura delle scuole per l’epidemia di influenza fu quindi una reazione impulsiva. In mezzo al clamore si levò qualche voce assennata che, di tanto in tanto, come vedremo, riuscì a trionfare. Apparteneva a individui dotati di spirito di osservazione che si erano accorti di due cose: che i bambini in età scolare non erano gli obiettivi principali di quel particolare tipo di influenza e che, anche quando si ammalavano, non era chiaro dove si fossero ammalati, se a casa, a scuola o altrove. Se non si ammalavano in classe, allora chiudere le scuole non avrebbe protetto i bambini e nemmeno fermato il contagio. Il dibattito più acceso, però, riguardava la vaccinazione. Essa era una pratica più antica della teoria dei germi – Edward Jenner aveva vaccinato con successo un ragazzo contro il vaiolo bovino nel 1796 –, quindi era plausibile creare un vaccino efficace senza conoscere l’identità del microbo per il quale si voleva suscitare una risposta immunitaria. In fin dei conti, Pasteur aveva prodotto un vaccino contro la rabbia senza sapere che è causata da un virus. Nel 1918, i laboratori statali produssero enormi quantità di vaccini contro il bacillo di Pfeiffer e altri batteri ritenuti responsabili di malattie respiratorie, e alcuni sembravano davvero efficaci. Ma la maggior parte non ebbe alcun effetto: anche i vaccinati continuavano ad ammalarsi e a morire.
Oggi sappiamo che il motivo per cui alcuni vaccini funzionarono è che riuscirono a bloccare le infezioni batteriche secondarie all’origine della polmonite che uccise così tante persone. All’epoca, tuttavia, i medici interpretarono i risultati in base alla teoria dell’influenza che preferivano.
Per alcuni l’efficacia dei vaccini era la prova che il colpevole era il bacillo di Pfeiffer; altri invece compresero istintivamente che i vaccini agivano sulle complicanze, non sulla malattia originaria, la cui natura ancora sfuggiva.
Ci furono scontri accesi, sconfessioni pubbliche e l’American Medical Association avvertì i suoi membri di non fidarsi dei vaccini. La stampa riportò tutto. Fu una controversia controproducente, perché le misure più antiche – tenere separati sani e malati – funzionavano, fintantoché la gente vi si atteneva.
La quarantena e le altre strategie di contenimento delle malattie mettono l’interesse della collettività davanti a quello dell’individuo. Ma quando la collettività è molto ampia, tali strategie devono essere imposte dall’alto.
Esigere che l’autorità centrale agisca nell’interesse della comunità crea due ordini di problemi. Innanzitutto, le priorità della collettività possono essere in conflitto tra loro – il desiderio di arricchirsi con la necessità di organizzare un esercito, per esempio – e quindi il potere dell’autorità di far rispettare la legge può essere rifiutato. In secondo luogo, abusando delle misure a sua disposizione, l’autorità rischia di calpestare i diritti individuali. Gli interessi confliggenti della collettività sono il motivo per cui lo storico Alfred Crosby, che ha raccontato la storia dell’influenza in America, ha sostenuto che in caso di pandemia la democrazia si rivela inutile. Le richieste di sicurezza, un’economia prospera e la salute pubblica di rado vanno insieme, e i rappresentanti eletti che difendono le prime due di solito danneggiano la terza. In Francia, per esempio, organismi importanti quali il ministero degli Interni e l’accademia di Medicina ordinarono la chiusura di teatri, cinema, chiese e mercati, ma i prefetti dei dipartimenti applicarono di rado queste misure «per il timore di scontentare l’opinione pubblica». Nemmeno la concentrazione del potere è garanzia di un contenimento efficace. In Giappone, dove era in corso la transizione da un governo sostanzialmente oligarchico alla democrazia, le autorità non presero neanche in considerazione l’idea di chiudere i luoghi pubblici. Un ufficiale di polizia di Tokyo osservò che in Corea – all’epoca una colonia giapponese – le autorità avevano vietato i raduni di massa, compresi quelli religiosi.
«Ma in Giappone non possiamo farlo», sospirò, senza dare ulteriori spiegazioni. Nel 1918 anche i singoli individui avevano buone ragioni per essere diffidenti. Negli ultimi decenni dell’Ottocento – dunque in un periodo ancora fresco nella memoria – le campagne di salute pubblica avevano avuto come obiettivo gli emarginati, ed eugenetica e teoria dei germi si erano unite in un mix tossico.
Il caso dell’India è emblematico. Le autorità coloniali britanniche si erano sempre disinteressate della salute degli indiani, considerando le loro pratiche irrimediabilmente antigieniche, ma quando nel 1896 esplose un’epidemia di peste bubbonica si resero conto che le malattie erano una minaccia per i loro interessi e si spinsero all’estremo opposto, imponendo una serie di misure brutali per sconfiggere l’infezione. Nella città di Pune, per esempio, i malati furono isolati negli ospedali, da cui la maggior parte non uscì più, mentre i familiari erano segregati in «campi sanitari». I pavimenti delle loro case furono divelti, i loro effetti personali affumicati o bruciati, e i pompieri innaffiarono gli edifici con così tanto acido fenico che un batteriologo raccontò di essere stato costretto ad aprire l’ombrello prima di entrare. Accecate dalla loro percezione negativa dei «poveri a piedi nudi», le autorità britanniche si rifiutarono di credere – almeno nei primi giorni dell’epidemia di peste – che la malattia fosse trasmessa dalla pulce dei topi. Altrimenti avrebbero capito che sarebbe stato meglio controllare le merci importate più che le persone, e derattizzare gli edifici invece di disinfettarli. Gli indiani, obiettivo di queste misure, cominciarono a considerare gli ospedali dei «luoghi di tortura, pensati per fornire materiale per gli esperimenti». Inoltre, nel 1897, il capo della commissione per la Peste di Pune, Walter Charles Rand, fu assassinato dai tre fratelli Chapekar, che furono poi impiccati (oggi un monumento li onora come combattenti per la libertà). Violenze analoghe si erano verificate in altre parti del mondo. In Australia era stata messa in atto una politica per sottrarre i bambini aborigeni di razza mista ai loro genitori e inserirli in famiglie bianche. L’idea era che gli aborigeni «puri» fossero condannati all’estinzione, mentre quelli il cui sangue si era mischiato con quello della razza «superiore» potessero essere salvati attraverso l’assimilazione nella società bianca (in un’epoca in cui gli morivano a frotte proprio per le malattie infettive portate dai bianchi). In Argentina, nel frattempo, era stato lanciato un programma per liberare le città dalle persone di origine africana, ritenendo che costituissero un rischio per la salute degli altri cittadini. Anche il governo brasiliano prese in considerazione questa misura, ma si rivelò inapplicabile, visto che la stragrande maggioranza della popolazione del paese era di origine africana. È in questo contesto che nel 1918 le autorità sanitarie annunciarono l’imposizione di misure di contenimento delle malattie. Lo schema variava da una nazione all’altra, ma in generale i provvedimenti erano sia obbligatori sia volontari. Era obbligatorio usare il fazzoletto e aprire le finestre di notte, ma non c’erano conseguenze se non lo si faceva. La polizia poteva fermare chi sputava per strada, multarlo o addirittura arrestarlo se ripeteva l’infrazione, mentre se si partecipava a un incontro politico o a un evento sportivo, violando il divieto dei raduni di massa, il rischio era di vedere irrompere le forze dell’ordine e di essere malmenati a colpi di manganello. Anche se si infrangevano le regole sulla quarantena o i cordoni sanitari bisognava aspettarsi una severa punizione.
Brano tratto dal libro 1918. L’influenza spagnola. L’epidemia che cambiò il mondo di Laura Spinney, Marsilio, 2018
L’influenza spagnola fu in tutto e per tutto la prima pandemia influenzale postpasteuriana, dal momento che era stato solo durante la precedente pandemia – l’influenza russa degli anni novanta dell’Ottocento – che Richard Pfeiffer aveva annunciato di avere identificato la causa della malattia in un microbo. Nel 1918 il suo modello era ancora prevalente, anche se errato.
Senza test diagnostici a disposizione, e in disaccordo su quale fosse l’agente del contagio – e, in alcuni casi, anche sull’identità della malattia –, i medici si ritrovarono prigionieri dei loro stessi dubbi. In alcuni paesi, per esempio, fu raccomandato l’uso delle mascherine protettive – in Giappone probabilmente segnò l’inizio della pratica di indossarle per proteggersi dai germi –, ma tra gli ufficiali sanitari non c’era accordo sul fatto che aiutassero a ridurre la trasmissione dell’influenza. Gli esperti erano divisi anche sul disinfettante.
Alla fine di ottobre 1918, quando l’ondata d’autunno era già cominciata – e le stazioni della metropolitana e i teatri di Parigi venivano regolarmente innaffiati di candeggina –, un giornalista chiese a Émile Roux, nientemeno che il direttore dell’istituto Pasteur, se la disinfezione fosse efficace. La domanda colse Roux di sorpresa. «Assolutamente inutile», rispose. «Mettete venti persone in una stanza disinfettata e fate entrare un malato di influenza. Se starnutisce, se anche una sola particella del suo muco nasale o della sua saliva raggiunge chi gli sta accanto, quest’ultimo sarà contagiato nonostante la disinfezione». Da tempo si presumeva che, in quanto bersagli preferiti dell’influenza stagionale, i bambini in età scolare fossero i vettori ideali della malattia: si vedono e si mescolano tutti i giorni, e il loro controllo del moccio tende a essere tutt’altro che ottimale. Anche nel 1918 la chiusura delle scuole per l’epidemia di influenza fu quindi una reazione impulsiva. In mezzo al clamore si levò qualche voce assennata che, di tanto in tanto, come vedremo, riuscì a trionfare. Apparteneva a individui dotati di spirito di osservazione che si erano accorti di due cose: che i bambini in età scolare non erano gli obiettivi principali di quel particolare tipo di influenza e che, anche quando si ammalavano, non era chiaro dove si fossero ammalati, se a casa, a scuola o altrove. Se non si ammalavano in classe, allora chiudere le scuole non avrebbe protetto i bambini e nemmeno fermato il contagio. Il dibattito più acceso, però, riguardava la vaccinazione. Essa era una pratica più antica della teoria dei germi – Edward Jenner aveva vaccinato con successo un ragazzo contro il vaiolo bovino nel 1796 –, quindi era plausibile creare un vaccino efficace senza conoscere l’identità del microbo per il quale si voleva suscitare una risposta immunitaria. In fin dei conti, Pasteur aveva prodotto un vaccino contro la rabbia senza sapere che è causata da un virus. Nel 1918, i laboratori statali produssero enormi quantità di vaccini contro il bacillo di Pfeiffer e altri batteri ritenuti responsabili di malattie respiratorie, e alcuni sembravano davvero efficaci. Ma la maggior parte non ebbe alcun effetto: anche i vaccinati continuavano ad ammalarsi e a morire.
Oggi sappiamo che il motivo per cui alcuni vaccini funzionarono è che riuscirono a bloccare le infezioni batteriche secondarie all’origine della polmonite che uccise così tante persone. All’epoca, tuttavia, i medici interpretarono i risultati in base alla teoria dell’influenza che preferivano.
Per alcuni l’efficacia dei vaccini era la prova che il colpevole era il bacillo di Pfeiffer; altri invece compresero istintivamente che i vaccini agivano sulle complicanze, non sulla malattia originaria, la cui natura ancora sfuggiva.
Ci furono scontri accesi, sconfessioni pubbliche e l’American Medical Association avvertì i suoi membri di non fidarsi dei vaccini. La stampa riportò tutto. Fu una controversia controproducente, perché le misure più antiche – tenere separati sani e malati – funzionavano, fintantoché la gente vi si atteneva.
Convincere la popolazione
La quarantena e le altre strategie di contenimento delle malattie mettono l’interesse della collettività davanti a quello dell’individuo. Ma quando la collettività è molto ampia, tali strategie devono essere imposte dall’alto.
Esigere che l’autorità centrale agisca nell’interesse della comunità crea due ordini di problemi. Innanzitutto, le priorità della collettività possono essere in conflitto tra loro – il desiderio di arricchirsi con la necessità di organizzare un esercito, per esempio – e quindi il potere dell’autorità di far rispettare la legge può essere rifiutato. In secondo luogo, abusando delle misure a sua disposizione, l’autorità rischia di calpestare i diritti individuali. Gli interessi confliggenti della collettività sono il motivo per cui lo storico Alfred Crosby, che ha raccontato la storia dell’influenza in America, ha sostenuto che in caso di pandemia la democrazia si rivela inutile. Le richieste di sicurezza, un’economia prospera e la salute pubblica di rado vanno insieme, e i rappresentanti eletti che difendono le prime due di solito danneggiano la terza. In Francia, per esempio, organismi importanti quali il ministero degli Interni e l’accademia di Medicina ordinarono la chiusura di teatri, cinema, chiese e mercati, ma i prefetti dei dipartimenti applicarono di rado queste misure «per il timore di scontentare l’opinione pubblica». Nemmeno la concentrazione del potere è garanzia di un contenimento efficace. In Giappone, dove era in corso la transizione da un governo sostanzialmente oligarchico alla democrazia, le autorità non presero neanche in considerazione l’idea di chiudere i luoghi pubblici. Un ufficiale di polizia di Tokyo osservò che in Corea – all’epoca una colonia giapponese – le autorità avevano vietato i raduni di massa, compresi quelli religiosi.
«Ma in Giappone non possiamo farlo», sospirò, senza dare ulteriori spiegazioni. Nel 1918 anche i singoli individui avevano buone ragioni per essere diffidenti. Negli ultimi decenni dell’Ottocento – dunque in un periodo ancora fresco nella memoria – le campagne di salute pubblica avevano avuto come obiettivo gli emarginati, ed eugenetica e teoria dei germi si erano unite in un mix tossico.
Il caso dell’India è emblematico. Le autorità coloniali britanniche si erano sempre disinteressate della salute degli indiani, considerando le loro pratiche irrimediabilmente antigieniche, ma quando nel 1896 esplose un’epidemia di peste bubbonica si resero conto che le malattie erano una minaccia per i loro interessi e si spinsero all’estremo opposto, imponendo una serie di misure brutali per sconfiggere l’infezione. Nella città di Pune, per esempio, i malati furono isolati negli ospedali, da cui la maggior parte non uscì più, mentre i familiari erano segregati in «campi sanitari». I pavimenti delle loro case furono divelti, i loro effetti personali affumicati o bruciati, e i pompieri innaffiarono gli edifici con così tanto acido fenico che un batteriologo raccontò di essere stato costretto ad aprire l’ombrello prima di entrare. Accecate dalla loro percezione negativa dei «poveri a piedi nudi», le autorità britanniche si rifiutarono di credere – almeno nei primi giorni dell’epidemia di peste – che la malattia fosse trasmessa dalla pulce dei topi. Altrimenti avrebbero capito che sarebbe stato meglio controllare le merci importate più che le persone, e derattizzare gli edifici invece di disinfettarli. Gli indiani, obiettivo di queste misure, cominciarono a considerare gli ospedali dei «luoghi di tortura, pensati per fornire materiale per gli esperimenti». Inoltre, nel 1897, il capo della commissione per la Peste di Pune, Walter Charles Rand, fu assassinato dai tre fratelli Chapekar, che furono poi impiccati (oggi un monumento li onora come combattenti per la libertà). Violenze analoghe si erano verificate in altre parti del mondo. In Australia era stata messa in atto una politica per sottrarre i bambini aborigeni di razza mista ai loro genitori e inserirli in famiglie bianche. L’idea era che gli aborigeni «puri» fossero condannati all’estinzione, mentre quelli il cui sangue si era mischiato con quello della razza «superiore» potessero essere salvati attraverso l’assimilazione nella società bianca (in un’epoca in cui gli morivano a frotte proprio per le malattie infettive portate dai bianchi). In Argentina, nel frattempo, era stato lanciato un programma per liberare le città dalle persone di origine africana, ritenendo che costituissero un rischio per la salute degli altri cittadini. Anche il governo brasiliano prese in considerazione questa misura, ma si rivelò inapplicabile, visto che la stragrande maggioranza della popolazione del paese era di origine africana. È in questo contesto che nel 1918 le autorità sanitarie annunciarono l’imposizione di misure di contenimento delle malattie. Lo schema variava da una nazione all’altra, ma in generale i provvedimenti erano sia obbligatori sia volontari. Era obbligatorio usare il fazzoletto e aprire le finestre di notte, ma non c’erano conseguenze se non lo si faceva. La polizia poteva fermare chi sputava per strada, multarlo o addirittura arrestarlo se ripeteva l’infrazione, mentre se si partecipava a un incontro politico o a un evento sportivo, violando il divieto dei raduni di massa, il rischio era di vedere irrompere le forze dell’ordine e di essere malmenati a colpi di manganello. Anche se si infrangevano le regole sulla quarantena o i cordoni sanitari bisognava aspettarsi una severa punizione.
Molti rispettavano le restrizioni. I movimenti per i diritti civili erano ancora lontani da venire, le autorità avevano maggiori possibilità di intervento nella vita dei privati cittadini e
misure che oggi sarebbero percepite come invadenti o inopportune erano invece considerate accettabili, soprattutto nel clima patriottico generato dalla guerra. In America, per esempio, nell’autunno 1918 non erano soltanto gli obiettori di coscienza a essere definiti «lavativi», ma anche coloro che si rifiutavano di mettere in pratica i provvedimenti anticontagio. In Sudafrica, i programmi di vaccinazione messi in atto a partire dal novembre 1918 furono largamente boicottati. Sia i bianchi sia i neri avevano un’idea molto vaga della teoria dei germi, tanto che un giornalista della Transkeian Gazette scrisse che moltissimi «se la ridono quando viene detto loro che una dose di vaccino contiene milioni di germi e prendono in giro il medico facendo finta di credergli». Ma soprattutto i neri dovettero chiedersi come mai i bianchi fossero all’improvviso così preoccupati della loro salute. Girava voce che i bianchi stessero cercando di ucciderli con i loro lunghi aghi che, sempre stando al sentito dire, piantavano nella giugulare. Con il passare del tempo subentrò la stanchezza anche tra coloro che all’inizio avevano rispettato le diverse misure. Non solo erano spesso un ostacolo a una vita normale, ma la loro efficacia sembrava quantomeno limitata. Anche chi doveva dare l’esempio cominciò a dimenticarsene: il sindaco di San Francisco si tolse la mascherina mentre assisteva alla parata per l’armistizio. E a volte era difficile afferrare la logica dietro le restrizioni. Padre Bandeaux, un sacerdote cattolico di New Orleans, protestò per la chiusura delle chiese della città mentre i negozi potevano restare aperti. I quotidiani riportavano puntualmente queste disparità e le proteste che suscitavano. Nel 1918 i giornali erano il principale mezzo di comunicazione con il grande pubblico e avevano un ruolo fondamentale nel far accettare, oppure no, le diverse misure. Spesso si prendevano la responsabilità di insegnare ai lettori la teoria dei germi o di dare informazioni di salute pubblica, ma non senza esprimere la propria opinione; ovviamente, giornali diversi esprimevano opinioni diverse, alimentando così la confusione. Avevano lo stesso atteggiamento paternalistico dei medici e delle autorità, e anche nei paesi non soggetti alla censura di guerra di rado pubblicavano i dati sulla reale portata dell’epidemia, convinti che il pubblico non ci avrebbe creduto. All’epoca l’idea che esistesse una «moltitudine senza controllo» era molto più diffusa e avevano paura di scatenare il panico. «Guidare» le masse era comunque difficile; un atteggiamento comune che fu riassunto qualche anno dopo dal quotidiano inglese Guardian: «Che senso ha suggerire a una moderna popolazione urbana di non prendere il treno o il tram, chiedere alle giovani generazioni di non andare al cinema e ammonire i disoccupati di mangiare tanto e bene, assicurando allo stesso tempo che non c’è niente di cui preoccuparsi?». Il Corriere della Sera assunse una posizione originale: riportò quotidianamente i dati sui decessi per influenza finché le autorità civili non lo costrinsero a smetterla perché suscitava il panico tra la cittadinanza. Le autorità non sembrarono comprendere che il successivo silenzio del giornale sull’argomento fomentò ancora di più la paura. In fin dei conti, chiunque vedeva il trasferimento dei cadaveri dalle città e dai villaggi. Con il passare del tempo anche giornalisti, stampatori, camionisti e fattorini cominciarono ad ammalarsi e le notizie censurarono se stesse. L’obbedienza alle regole calò ulteriormente. La gente tornò ad affidarsi alla Chiesa, a distrarsi con le corse d’auto clandestine e a lasciare a casa le mascherine. A quel punto l’infrastruttura sanitaria pubblica – ambulanze, ospedali e becchini – prima vacillò e poi crollò.Brano tratto dal libro 1918. L’influenza spagnola. L’epidemia che cambiò il mondo di Laura Spinney, Marsilio, 2018