Negli anni 60 e 70 in Italia si giravano annualmente qualcosa come 300-500 film, in gran parte pellicole di modesto spessore realizzate con due lire e in maniera frettolosa, ma che formavano l’ossatura di una industria fiorente, creativa e concorrenziale. Le trame, benché semplici e ingenue, non difettano d’ingegno; alcuni sono autentici gioiellini e ci restituiscono in forme bozzettistiche il conflitto sotterraneo che pervade la società. L’intrigo, il non detto, l’inganno: in poche parole la Politica nell’accezione nobile del termine. Secondo Gianfranco La Grassa la Politica è innanzitutto segretezza, e un bravo statista non deve mai far trapelare le proprie effettive intenzioni. A volte si ricava più ammaestramento dalla visione di un vecchio western all’italiana (in realtà coprodotti con la Spagna franchista, compresi diversi titoli “politici” ambientati durante la rivoluzione messicana) che dal più intimista e impegnato mattone sfornato dagli Autori con la A maiuscola. Cosa prevede il canovaccio tipo del western spaghetti? Attraverso il ricorso alla violenza, una personalità sofisticata, facoltosa e insospettabile – sia essa politico, uomo d’affari o tutore della legge – sottrae ai legittimi proprietari un lotto di terra ricco di oro o di petrolio. Dunque il cattivo ordisce macchinazioni, manipola in modo subdolo chi gli sta accanto, muove i fili di una banda di malfattori prezzolati che uccidono, terrorizzano e costringono a sloggiare coloro che non si piegano ai suoi voleri. L’andazzo prosegue finché l’eroe non smaschera e punisce, quasi sempre con la morte, l’antagonista. Il Potente che divide et impera nell’ombra, la mente che dirige nascostamente quelli che Marx chiama lumpenproletariat, e che nell’universo filmico sono talvolta i desperados messicani del far west e talaltra i bravacci del siglo de oro spagnolo del genere “cappa e spada”, lazzaroni poveri in canna che si schierano dalla parte del più forte talvolta per convinzione, più spesso per bisogno. Lo scopo è sempre il medesimo: ampliare, consolidare o conservare l’egemonia. In questi spettacoli le strategie per conseguire la supremazia esistono e vengono attuate da quelli che nell’economia del racconto, pur sempre ligio ai dettami della morale cristiana, ricoprono il ruolo di “scellerati”, ma anche dai buoni. Proprio così: lo spaghetti western ha immesso nel selvaggio ovest il sapiente cinismo latino, fondendo la farsa antica col melodramma moderno e la commedia all’italiana (che già di per sé mescola farsa e melodramma), mandando in soffitta l’ipocrita e infantile idealismo nordamericano. Sergio Leone e compagni ci suggeriscono che anche le figure positive sono tutt’altro che samaritani disinteressati, magari appena un filino al di sotto della carognaggine dei mostri veri e propri. E che dire dei geni del crimine intravisti nel genere spionistico, con la loro brama di mettere le mani sul mondo, di riconfigurare la società, di plasmare l’Uomo Nuovo? Quel cinema lì, pur nella sua schematicità di fondo, era sanamente cospirazionista e costituiva una indubbia scuola del sospetto che ti insegnava andreottianamente a pensare male, a diffidare del prossimo e dei benintenzionati armati di buone maniere e sorrisone smagliante. Penso alla nostra epoca adusa a marchiare di “complottismo” qualsiasi ricostruzione alternativa e ipotesi di studio, e mi viene da piangere. L’industria cinematografica italiana ha smarrito la capacità di innovare i generi, si è assuefatta a dormire sugli allori, a celebrare defunti, a confidare troppo sulla commedia che non passa mai di moda, e ciononostante stenta a decodificare il Belpaese. Da diverso tempo dominano la scena il melodramma raffreddato, l’introspezione, l’intimismo e una nociva letteratura minimalista. Una cinematografia non può e non deve portare in scena soltanto famigliazze medioborghesi con mariti che fanno outing, specialità della mamma di Carlo Calenda. E poi silenzi snervanti; dialoghi bisbigliati e pressoché impercettibili; ermetismo vacuo; realismo inibito che sfiora o cela (o distorce) la realtà; cinema che non è immagine in movimento ma fotogramma statico e stitico di contenuti, socialmente piatto, perennemente inchiodato su Roma e d’intorni, cardine di un provincialismo cosmopolita intollerante, permeabile alle mode futili made in Anglosfera. Moretti che mette la sordina alla sua proverbiale flatulenza aforistica, ultimamente assai poco memorabile; un Sorrentino sempre più glamour che cesella metafore nel suo stile pubblicitario; Bellocchio che, a ottant’anni suonati, si ostina a voler psicanalizzare la Storia dopo aver mollato matricidi e nevrotici vari. Ovunque grigiore quotidiano perlopiù insincero, meschinità da sala d’attesa e viltà da pianerottolo. Il film concettoso e pensoso è uno degli assassini del cinema italiano. Siamo passati dai telefoni bianchi ai telefoni di un rosso stinto, dall’escapismo sfacciato ma fecondo all’impegno che finge di andare verso un popolo che detesta e rifugge con terrore, dato che il popolaccio brutto sporco e cattivo è scarsamente sensibile all’Agenda razziale-ambientale-sessuale, immerso com’è nel fango di una questione sociale che rimane una ferita aperta, prossima alla gangrena. E butterei nei rifiuti anche i numerosi quadrettini encomiastici, che artisticamente parlando sono pessima oleografia, offertici dal cinema antimafia e di impegno civile, con i suoi martiri veri o presunti, con le sue figurine accuratamente impaginate: il giudice senza macchia, il poliziotto fascio, l'immigrato buono, il popolano sguaiato ma onesto, il sindacalista condottiero. È un cinema d’occasione che avalla le versioni ufficiali e si struscia addosso allo Stato, mentre la privata Mediaset è ormai governativa in pianta stabile. L'eroe del piccolo schermo è il commissario Corrado Cattani, protagonista de La Piovra, novello san Sebastiano bersagliato dai mitra. Io avrei voluto un Cattani sotto steroidi, magari ideologicamente ambiguo e confuso, ma anche meno rassegnato e fatalista, in grado di affrontare picciotti e manigoldi con un canne mozze e un paio di bombe a mano. Ma Placido, nomina sunt omina, non è mai stato credibile come ammazzasette. Si è prosciugato persino il filone festivo meglio noto come cinepanettone, a cui era stato delegato il compito di disvelare complesse trame socio-antropologiche, logorato dalla ripetitività pornoturistica e imbavagliato dal politicamente corretto. Parce sepulto.