di Daniele Ganser
Nel 1941 il Giappone possedeva imponenti forze navali, tra le quali dieci portaerei, mentre gli USA ne avevano solamente sette, dunque erano in palese stato di inferiorità. Due portaerei, la Lexington e la Enterprise, si trovavano a Pearl Harbor sotto il comando dell’ammiraglio Husband Kimmel. Il suo superiore, l’ammiraglio Harold Stark, che in quanto capo delle operazioni della Marina statunitense a Washington aveva accesso ai dati ricavati dalle intercettazioni e decifrazioni delle comunicazioni radio nemiche attraverso il progetto “Magia”, le voleva salvaguardare e diede a Kimmel l’incarico di impiegare entrambe per trasportare dei caccia dell’Esercito sull’isola di Wake e alle Midway. L’Enterprise salpò da Pearl Harbor il 28 novembre 1941, scortata da undici delle navi da guerra più recenti della flotta nel Pacifico, mentre la Lexington lasciò Pearl Harbor il 5 dicembre 1941, accompagnata da otto navi di costruzione recente. In questo modo nel porto rimasero solamente vecchie navi da guerra, già utilizzate nella prima guerra mondiale. Il 25 novembre 1941 Isoroku Yamamoto, il comandante in capo della Marina imperiale giapponese, diede alle sue navi l’ordine di salpare dai porti del Giappone, facendo rotta nel Pacifico settentrionale alla volta delle Hawaii per attaccare la flotta americana. Il servizio segreto della Marina riuscì a intercettare e a decodificare il comando cifrato di Yamamoto, secondo il quale il Giappone «mantenendo strettamente riservati i suoi movimenti e ponendo estrema attenzione a sottomarini e velivoli, deve avanzare in acque hawaiane e alla vera apertura delle ostilità attaccare la forza principale della flotta degli Stati Uniti alle Hawaii infliggendole un colpo mortale». Il 7 dicembre 1941 il Giappone attaccò le Filippine e occupò la colonia statunitense. Lo stesso giorno, attaccò la flotta americana del Pacifico alla fonda a Pearl Harbor con uno schieramento enorme, composto da 6 portaerei, scortate da altre navi da guerra, incrociatori e cacciatorpedinieri. Le 27 navi da guerra giapponesi erano accompagnate da un seguito di 7 navi cisterna e 13 sottomarini. Poco prima delle Hawaii, dalle portaerei nipponiche decollarono 351 velivoli e bombardarono la base navale statunitense. Dato che le navi da guerra americane erano ancorate molto vicine fra loro nel bacino e la maggior parte degli aerei non era ancora decollata, fu semplice centrare il bersaglio. I giapponesi uccisero 2.403 americani, distrussero 164 velivoli e affondarono 18 imbarcazioni di costruzione non recente. Prima di Pearl Harbor la maggior parte dei cittadini americani era sicuramente contraria a entrare in guerra, ma l’attacco giapponese modificò completamente quell’orientamento, suscitando ira e dolore negli USA, che sino a quel momento non erano mai stati bombardati da nessun paese. La notizia dell’incursione aveva appena cominciato a circolare che masse di giovani americani si riversarono spontaneamente negli uffici di reclutamento dell’Esercito per difendere la propria patria. La popolazione era scioccata, il Parlamento infuriato e i quotidiani premevano per scendere in guerra. «Appena giunsero le notizie dell’attacco giapponese, la prima sensazione che provai fu quella di sollievo», scrisse nel suo diario il ministro della Guerra americano, Henry Stimson, che poteva accedere ai della “Magia”. «L’incertezza era superata e in qualche modo era arrivata la crisi che avrebbe riunito tutto il nostro popolo». Stimson volle trascinare in guerra il presidente Roosevelt: per nessuno dei due l’attacco fu una sorpresa. Il giorno dopo l’attacco, un indignato Roosevelt prese la parola al Congresso. L’assenso dei parlamentari era importante, dato che la Costituzione americana attribuisce soltanto al Congresso la facoltà di dichiarare guerra, come precisa la sezione 8 dell’articolo 1. Il presidente avrebbe potuto parlare dell’aggressione e dell’occupazione giapponese delle Filippine, che stava continuando; ma non lo fece, perché così avrebbe ricordato che anche gli USA avevano assalito e ridotto a loro colonie dei paesi stranieri. Invece Roosevelt preferì incentrare il suo discorso sulle Hawaii, spiegando che la data del 7 dicembre 1941 sarebbe stata tramandata come “giorno della vergogna”. Il Congresso si convinse e i due rami del Parlamento votarono con un’ampia maggioranza la dichiarazione di guerra al Giappone. Nessuno dei 100 rappresentanti del Senato fu contrario; nella Camera dei rappresentanti, su 435 seggi, 388 dei presenti votarono a favore della guerra e 41 si astennero. Contro votò unicamente l’esponente dei diritti delle donne e attivista per la pace, Jeannette Rankin, una repubblicana del Montana. Sostenuto dunque dalla maggioranza ottenuta al Parlamento l’8 dicembre 1941, il presidente firmò la dichiarazione di guerra al Giappone, a seguito della quale l’11 dicembre Germania e Italia dichiararono a loro volta guerra agli USA. Questa decisione di Hitler meravigliò tutti, perché secondo gli accordi dell’Asse “RoBerTo” la Germania sarebbe stata tenuta a prestare un aiuto militare soltanto nel caso in cui gli USA avessero attaccato il Giappone. Già nel 1917 Jeannette Rankin aveva votato contro la dichiarazione di guerra alla Germania e lo stesso fece anche dopo Pearl Harbor, spiegando la sua posizione in questi termini: «Pur essendo io stessa, come gli altri parlamentari, dell’opinione che le notizie ascoltate alla radio probabilmente sono vere, sono tuttavia del parere che una decisione tanto importante sulla guerra e la pace debba fondarsi su prove più affidabili dei resoconti radiofonici di cui adesso disponiamo». Ovviamente è giusto e importante difendere gli USA, «ma se spediamo i nostri soldati e i nostri marinai a combattere e morire a migliaia di chilometri al di là dell’oceano, certo non possiamo parlare di protezione delle nostre coste», proseguiva Rankin. «È mia convinzione che tutti i fatti debbano essere resi accessibili al Congresso americano e al popolo americano». Ma è proprio questo che non avvenne. Al Congresso fu tenuto nascosto che il governo statunitense aveva intercettato e decodificato i messaggi radio giapponesi: se questo fosse stato noto a Rankin e ad altri parlamentari, forse la votazione sarebbe andata diversamente. Dopo questa coraggiosa presa di posizione, Jeannette Rankin fu fatta oggetto di critiche e denigrata sia alla radio sia sui giornali: alcuni la definirono “bagascia”, altri “complice di Hitler”, “vecchiaccia”, o perfino “vergogna della nazione” e “traditrice”. L’ammiraglio Husband Kimmel, comandante in capo della flotta del Pacifico di stanza alle Hawaii, e il tenente generale Walter Short, comandante delle truppe dell’Esercito statunitense alle Hawaii, furono scelti dal presidente Roosevelt come capri espiatori. Un’indagine istruita in tutta fretta dal presidente e affidata all’avvocato Owen Roberts dichiarò, dieci giorni dopo l’attacco, Kimmel e Short responsabili principali della disfatta e rimproverò loro di aver trascurato il proprio dovere. Roosevelt sollevò entrambi dai loro posti di comando collocandoli a riposo, il che equivaleva a un’umiliazione. Solo in seguito Kimmel venne a sapere che i suoi superiori al Dipartimento della Marina di Washington di proposito non gli avevano fornito le informazioni riguardanti l’imminente attacco giapponese alle Hawaii. «Aveva l’aria di essere un inganno deliberato», dichiarò Kimmel alla commissione del Congresso incaricata di indagare sul caso Pearl Harbor dopo la guerra. «Avevo chiesto di darmi tutte le informazioni importanti. Mi era stato assicurato che le avrei ricevute. Su questo si basava la valutazione della situazione che ero in grado di fornire. Però in realtà i messaggi radio giapponesi di gran lunga più importanti non mi vennero passati». Il ministro della Marina, Frank Knox, poteva accedere ai dati della “Magia”, ma non li inoltrò a Kimmel. «Con questa omissione non mi furono soltanto tenuti nascosti dei fatti rilevanti», capì Kimmel. «Fui anche tratto in inganno». Anche il tenente generale Short venne a sapere con sgomento che i suoi superiori a Washington non gli avevano inoltrato informazioni assolutamente essenziali. Il Dipartimento della Guerra diretto dal generale di stato maggiore George Marshall a Washington era a conoscenza del fatto che spie giapponesi alle Hawaii avevano appurato qual era la condizione delle navi da guerra americane. Marshall, che aveva accesso ai dati della “Magia”, avrebbe dovuto informare Short, ma non lo fece. Questi recriminò: «Il Dipartimento della Guerra avrebbe dovuto certamente informarmi sul fatto che i giapponesi avevano ricevuto dei resoconti sulla esatta situazione delle navi a Pearl Harbor». I documenti giapponesi intercettati erano «secondo un’attenta analisi effettivamente un piano di bombardamento di Pearl Harbor», proseguiva Short. «Il Dipartimento della Guerra era a conoscenza del fatto che io non disponevo di tali informazioni e aveva già deciso che non dovessi averle». I congiurati riuniti attorno a Roosevelt non avevano condiviso i dati della “Magia” con gli ufficiali più alti in grado alle Hawaii, ancor meno con i soldati statunitensi. «Tutte queste informazioni sono state tenute nascoste al tenente generale Short e anche a me», fu la contestazione di Kimmel. «Si sarebbe potuto fare parecchio, se le avessimo avute anche due o tre ore prima dell’attacco, il che non sarebbe stato una complicazione». L’ammiraglio spiegò che avrebbe potuto inviare la flotta in mare aperto, mentre essa era rimasta alla fonda, stipata nel porto e così esposta come facile bersaglio alle incursioni di bombardieri, aerosiluranti e sottomarini giapponesi. Short aggiunse che, con un preavviso di un paio d’ore, avrebbe potuto far alzare in volo buona parte dei suoi aerei, allo scopo di intercettare i giapponesi in avvicinamento per l’attacco. Invece la maggior parte di essi fu distrutta quando erano fermi a terra, prima ancora che potessero decollare. «Tuttora non riesco a capire (non l’ho mai capito e forse non lo capirò mai) perché mi furono tenute nascoste le informazioni che erano disponibili al Dipartimento della Marina di Washington», si lamentò Kimmel con disappunto. Il Senato statunitense riabilitò i due comandanti solamente dopo la loro morte e il 25 maggio 1999 approvò una risoluzione, nella quale finalmente ammetteva che a Kimmel e Short erano state tenute nascoste informazioni importanti che erano disponibili a Washington. Come scrisse «The New York Times» in maniera succinta ma efficace: «Le informazioni che alla fine del 1941 erano state ricavate da intercettazioni e decodifiche di messaggi radio giapponesi non furono inoltrate ai comandanti alle Hawaii», senza però aggiungere che in base a questo tutta la storia relativa all’entrata in guerra da parte degli USA dev’essere riscritta completamente. Il senatore William Roth, un repubblicano del Delaware, espresse il suo rammarico per il fatto che ai due alti ufficiali fossero stati tenuti nascosti dati fondamentali, «disponibili a Washington». Sino a oggi molti americani, e anche molti europei, non sanno che Roosevelt non rimase sorpreso dall’attacco giapponese a Pearl Harbor, ma che anzi lo aveva addirittura provocato attuando un embargo petrolifero. «Come veterano della guerra nel Pacifico fui dapprima indignato quando scoprii quali segreti sono stati tenuti occultati per oltre cinquant’anni a noi americani», ha dichiarato Robert Stinnett, che nella seconda guerra mondiale aveva servito nella Marina statunitense e in seguito lavorò come giornalista per il settimanale californiano «Oakland Tribune». Nel 2000, dopo ricerche durate molti anni, Stinnett pubblicò un libro sui fatti di Pearl Harbor, ricco di dettagli, in cui espone in modo persuasivo la tesi «che per il presidente Franklin Delano Roosevelt e per molti dei suoi alti consiglieri politici e militari non si è trattato di una sorpresa». Nel 1947 George Morgenstern del «Chicago Tribune» era giunto alla stessa conclusione, dopo aver valutato l’indagine su Pearl Harbor condotta dalla commissione del Congresso americano, che aveva lavorato fra il novembre del 1945 e il maggio del 1946 e aveva interpellato molti testimoni di rilievo. A suo dire, dopo l’attacco giapponese si sarebbe «curata attentamente per anni la leggenda, secondo la quale quell’attacco sarebbe stato una sorpresa proditoria, messa in campo come se non ci fosse la minima ragione di aspettarsela». Il popolo americano non sapeva che il servizio segreto della Marina statunitense aveva decrittato le comunicazioni giapponesi e le aveva inoltrate ogni giorno al presidente Roosevelt. Per tanti uomini è assolutamente incomprensibile che un governo lasci uccidere i propri cittadini da un nemico politico per indurre il paese a muovergli guerra. Eppure nel caso dell’attacco giapponese alla base statunitense di Pearl Harbor nell’Oceano Pacifico questo è proprio quello che è successo. Per Morgenstern, «fu calcolato con fredda indifferenza il rischio di portare un nemico a sparare il primo colpo, e a Pearl Harbor 3.000 uomini ignari furono costretti ad accollarsi quel rischio». Ogni volta che c’è una cospirazione, come è il caso di Pearl Harbor, dato che Roosevelt e i suoi collaboratori più stretti non condivisero i dati della “Magia”, c’è da aspettarsi che prima o poi una delle persone implicate rompa il silenzio che aveva mantenuto sino a quel momento. Ed è capitato anche questo. Uno dei pochi che fu avvisato dell’imminente attacco giapponese era Don Smith, direttore del servizio bellico della Croce Rossa a Washington, scomparso nel 1990 alla rispettabile età di novantotto anni. Nel 1995 sua figlia, Helen Hamman, dichiarò che suo padre era stato informato in segreto da Roosevelt sull’attacco in arrivo da parte dei giapponesi. «Poco prima dell’attacco nel 1941 il presidente Roosevelt lo chiamò alla Casa Bianca per un incontro su una questione del massimo riserbo», raccontò sua figlia. In quell’incontro il presidente comunicò a mio padre che i servizi segreti lo avevano informato di un attacco imminente dei giapponesi a Pearl Harbor. Egli si aspettava gravi perdite e molti feriti, per cui incaricò mio padre di inviare personale e materiali sulla costa occidentale e di attendere lì indicazioni ulteriori. Inoltre chiarì a mio padre che nessuno dei militari responsabili alle Hawaii doveva esserne informato, nemmeno i collaboratori della Croce Rossa che erano già sul posto. Alle proteste di mio padre, il presidente rispose che il popolo americano non avrebbe mai autorizzato l’entrata in guerra degli USA sullo scenario europeo, all’infuori del caso in cui fosse stato attaccato sul proprio territorio.
Nel 1941 il Giappone possedeva imponenti forze navali, tra le quali dieci portaerei, mentre gli USA ne avevano solamente sette, dunque erano in palese stato di inferiorità. Due portaerei, la Lexington e la Enterprise, si trovavano a Pearl Harbor sotto il comando dell’ammiraglio Husband Kimmel. Il suo superiore, l’ammiraglio Harold Stark, che in quanto capo delle operazioni della Marina statunitense a Washington aveva accesso ai dati ricavati dalle intercettazioni e decifrazioni delle comunicazioni radio nemiche attraverso il progetto “Magia”, le voleva salvaguardare e diede a Kimmel l’incarico di impiegare entrambe per trasportare dei caccia dell’Esercito sull’isola di Wake e alle Midway. L’Enterprise salpò da Pearl Harbor il 28 novembre 1941, scortata da undici delle navi da guerra più recenti della flotta nel Pacifico, mentre la Lexington lasciò Pearl Harbor il 5 dicembre 1941, accompagnata da otto navi di costruzione recente. In questo modo nel porto rimasero solamente vecchie navi da guerra, già utilizzate nella prima guerra mondiale. Il 25 novembre 1941 Isoroku Yamamoto, il comandante in capo della Marina imperiale giapponese, diede alle sue navi l’ordine di salpare dai porti del Giappone, facendo rotta nel Pacifico settentrionale alla volta delle Hawaii per attaccare la flotta americana. Il servizio segreto della Marina riuscì a intercettare e a decodificare il comando cifrato di Yamamoto, secondo il quale il Giappone «mantenendo strettamente riservati i suoi movimenti e ponendo estrema attenzione a sottomarini e velivoli, deve avanzare in acque hawaiane e alla vera apertura delle ostilità attaccare la forza principale della flotta degli Stati Uniti alle Hawaii infliggendole un colpo mortale». Il 7 dicembre 1941 il Giappone attaccò le Filippine e occupò la colonia statunitense. Lo stesso giorno, attaccò la flotta americana del Pacifico alla fonda a Pearl Harbor con uno schieramento enorme, composto da 6 portaerei, scortate da altre navi da guerra, incrociatori e cacciatorpedinieri. Le 27 navi da guerra giapponesi erano accompagnate da un seguito di 7 navi cisterna e 13 sottomarini. Poco prima delle Hawaii, dalle portaerei nipponiche decollarono 351 velivoli e bombardarono la base navale statunitense. Dato che le navi da guerra americane erano ancorate molto vicine fra loro nel bacino e la maggior parte degli aerei non era ancora decollata, fu semplice centrare il bersaglio. I giapponesi uccisero 2.403 americani, distrussero 164 velivoli e affondarono 18 imbarcazioni di costruzione non recente. Prima di Pearl Harbor la maggior parte dei cittadini americani era sicuramente contraria a entrare in guerra, ma l’attacco giapponese modificò completamente quell’orientamento, suscitando ira e dolore negli USA, che sino a quel momento non erano mai stati bombardati da nessun paese. La notizia dell’incursione aveva appena cominciato a circolare che masse di giovani americani si riversarono spontaneamente negli uffici di reclutamento dell’Esercito per difendere la propria patria. La popolazione era scioccata, il Parlamento infuriato e i quotidiani premevano per scendere in guerra. «Appena giunsero le notizie dell’attacco giapponese, la prima sensazione che provai fu quella di sollievo», scrisse nel suo diario il ministro della Guerra americano, Henry Stimson, che poteva accedere ai della “Magia”. «L’incertezza era superata e in qualche modo era arrivata la crisi che avrebbe riunito tutto il nostro popolo». Stimson volle trascinare in guerra il presidente Roosevelt: per nessuno dei due l’attacco fu una sorpresa. Il giorno dopo l’attacco, un indignato Roosevelt prese la parola al Congresso. L’assenso dei parlamentari era importante, dato che la Costituzione americana attribuisce soltanto al Congresso la facoltà di dichiarare guerra, come precisa la sezione 8 dell’articolo 1. Il presidente avrebbe potuto parlare dell’aggressione e dell’occupazione giapponese delle Filippine, che stava continuando; ma non lo fece, perché così avrebbe ricordato che anche gli USA avevano assalito e ridotto a loro colonie dei paesi stranieri. Invece Roosevelt preferì incentrare il suo discorso sulle Hawaii, spiegando che la data del 7 dicembre 1941 sarebbe stata tramandata come “giorno della vergogna”. Il Congresso si convinse e i due rami del Parlamento votarono con un’ampia maggioranza la dichiarazione di guerra al Giappone. Nessuno dei 100 rappresentanti del Senato fu contrario; nella Camera dei rappresentanti, su 435 seggi, 388 dei presenti votarono a favore della guerra e 41 si astennero. Contro votò unicamente l’esponente dei diritti delle donne e attivista per la pace, Jeannette Rankin, una repubblicana del Montana. Sostenuto dunque dalla maggioranza ottenuta al Parlamento l’8 dicembre 1941, il presidente firmò la dichiarazione di guerra al Giappone, a seguito della quale l’11 dicembre Germania e Italia dichiararono a loro volta guerra agli USA. Questa decisione di Hitler meravigliò tutti, perché secondo gli accordi dell’Asse “RoBerTo” la Germania sarebbe stata tenuta a prestare un aiuto militare soltanto nel caso in cui gli USA avessero attaccato il Giappone. Già nel 1917 Jeannette Rankin aveva votato contro la dichiarazione di guerra alla Germania e lo stesso fece anche dopo Pearl Harbor, spiegando la sua posizione in questi termini: «Pur essendo io stessa, come gli altri parlamentari, dell’opinione che le notizie ascoltate alla radio probabilmente sono vere, sono tuttavia del parere che una decisione tanto importante sulla guerra e la pace debba fondarsi su prove più affidabili dei resoconti radiofonici di cui adesso disponiamo». Ovviamente è giusto e importante difendere gli USA, «ma se spediamo i nostri soldati e i nostri marinai a combattere e morire a migliaia di chilometri al di là dell’oceano, certo non possiamo parlare di protezione delle nostre coste», proseguiva Rankin. «È mia convinzione che tutti i fatti debbano essere resi accessibili al Congresso americano e al popolo americano». Ma è proprio questo che non avvenne. Al Congresso fu tenuto nascosto che il governo statunitense aveva intercettato e decodificato i messaggi radio giapponesi: se questo fosse stato noto a Rankin e ad altri parlamentari, forse la votazione sarebbe andata diversamente. Dopo questa coraggiosa presa di posizione, Jeannette Rankin fu fatta oggetto di critiche e denigrata sia alla radio sia sui giornali: alcuni la definirono “bagascia”, altri “complice di Hitler”, “vecchiaccia”, o perfino “vergogna della nazione” e “traditrice”. L’ammiraglio Husband Kimmel, comandante in capo della flotta del Pacifico di stanza alle Hawaii, e il tenente generale Walter Short, comandante delle truppe dell’Esercito statunitense alle Hawaii, furono scelti dal presidente Roosevelt come capri espiatori. Un’indagine istruita in tutta fretta dal presidente e affidata all’avvocato Owen Roberts dichiarò, dieci giorni dopo l’attacco, Kimmel e Short responsabili principali della disfatta e rimproverò loro di aver trascurato il proprio dovere. Roosevelt sollevò entrambi dai loro posti di comando collocandoli a riposo, il che equivaleva a un’umiliazione. Solo in seguito Kimmel venne a sapere che i suoi superiori al Dipartimento della Marina di Washington di proposito non gli avevano fornito le informazioni riguardanti l’imminente attacco giapponese alle Hawaii. «Aveva l’aria di essere un inganno deliberato», dichiarò Kimmel alla commissione del Congresso incaricata di indagare sul caso Pearl Harbor dopo la guerra. «Avevo chiesto di darmi tutte le informazioni importanti. Mi era stato assicurato che le avrei ricevute. Su questo si basava la valutazione della situazione che ero in grado di fornire. Però in realtà i messaggi radio giapponesi di gran lunga più importanti non mi vennero passati». Il ministro della Marina, Frank Knox, poteva accedere ai dati della “Magia”, ma non li inoltrò a Kimmel. «Con questa omissione non mi furono soltanto tenuti nascosti dei fatti rilevanti», capì Kimmel. «Fui anche tratto in inganno». Anche il tenente generale Short venne a sapere con sgomento che i suoi superiori a Washington non gli avevano inoltrato informazioni assolutamente essenziali. Il Dipartimento della Guerra diretto dal generale di stato maggiore George Marshall a Washington era a conoscenza del fatto che spie giapponesi alle Hawaii avevano appurato qual era la condizione delle navi da guerra americane. Marshall, che aveva accesso ai dati della “Magia”, avrebbe dovuto informare Short, ma non lo fece. Questi recriminò: «Il Dipartimento della Guerra avrebbe dovuto certamente informarmi sul fatto che i giapponesi avevano ricevuto dei resoconti sulla esatta situazione delle navi a Pearl Harbor». I documenti giapponesi intercettati erano «secondo un’attenta analisi effettivamente un piano di bombardamento di Pearl Harbor», proseguiva Short. «Il Dipartimento della Guerra era a conoscenza del fatto che io non disponevo di tali informazioni e aveva già deciso che non dovessi averle». I congiurati riuniti attorno a Roosevelt non avevano condiviso i dati della “Magia” con gli ufficiali più alti in grado alle Hawaii, ancor meno con i soldati statunitensi. «Tutte queste informazioni sono state tenute nascoste al tenente generale Short e anche a me», fu la contestazione di Kimmel. «Si sarebbe potuto fare parecchio, se le avessimo avute anche due o tre ore prima dell’attacco, il che non sarebbe stato una complicazione». L’ammiraglio spiegò che avrebbe potuto inviare la flotta in mare aperto, mentre essa era rimasta alla fonda, stipata nel porto e così esposta come facile bersaglio alle incursioni di bombardieri, aerosiluranti e sottomarini giapponesi. Short aggiunse che, con un preavviso di un paio d’ore, avrebbe potuto far alzare in volo buona parte dei suoi aerei, allo scopo di intercettare i giapponesi in avvicinamento per l’attacco. Invece la maggior parte di essi fu distrutta quando erano fermi a terra, prima ancora che potessero decollare. «Tuttora non riesco a capire (non l’ho mai capito e forse non lo capirò mai) perché mi furono tenute nascoste le informazioni che erano disponibili al Dipartimento della Marina di Washington», si lamentò Kimmel con disappunto. Il Senato statunitense riabilitò i due comandanti solamente dopo la loro morte e il 25 maggio 1999 approvò una risoluzione, nella quale finalmente ammetteva che a Kimmel e Short erano state tenute nascoste informazioni importanti che erano disponibili a Washington. Come scrisse «The New York Times» in maniera succinta ma efficace: «Le informazioni che alla fine del 1941 erano state ricavate da intercettazioni e decodifiche di messaggi radio giapponesi non furono inoltrate ai comandanti alle Hawaii», senza però aggiungere che in base a questo tutta la storia relativa all’entrata in guerra da parte degli USA dev’essere riscritta completamente. Il senatore William Roth, un repubblicano del Delaware, espresse il suo rammarico per il fatto che ai due alti ufficiali fossero stati tenuti nascosti dati fondamentali, «disponibili a Washington». Sino a oggi molti americani, e anche molti europei, non sanno che Roosevelt non rimase sorpreso dall’attacco giapponese a Pearl Harbor, ma che anzi lo aveva addirittura provocato attuando un embargo petrolifero. «Come veterano della guerra nel Pacifico fui dapprima indignato quando scoprii quali segreti sono stati tenuti occultati per oltre cinquant’anni a noi americani», ha dichiarato Robert Stinnett, che nella seconda guerra mondiale aveva servito nella Marina statunitense e in seguito lavorò come giornalista per il settimanale californiano «Oakland Tribune». Nel 2000, dopo ricerche durate molti anni, Stinnett pubblicò un libro sui fatti di Pearl Harbor, ricco di dettagli, in cui espone in modo persuasivo la tesi «che per il presidente Franklin Delano Roosevelt e per molti dei suoi alti consiglieri politici e militari non si è trattato di una sorpresa». Nel 1947 George Morgenstern del «Chicago Tribune» era giunto alla stessa conclusione, dopo aver valutato l’indagine su Pearl Harbor condotta dalla commissione del Congresso americano, che aveva lavorato fra il novembre del 1945 e il maggio del 1946 e aveva interpellato molti testimoni di rilievo. A suo dire, dopo l’attacco giapponese si sarebbe «curata attentamente per anni la leggenda, secondo la quale quell’attacco sarebbe stato una sorpresa proditoria, messa in campo come se non ci fosse la minima ragione di aspettarsela». Il popolo americano non sapeva che il servizio segreto della Marina statunitense aveva decrittato le comunicazioni giapponesi e le aveva inoltrate ogni giorno al presidente Roosevelt. Per tanti uomini è assolutamente incomprensibile che un governo lasci uccidere i propri cittadini da un nemico politico per indurre il paese a muovergli guerra. Eppure nel caso dell’attacco giapponese alla base statunitense di Pearl Harbor nell’Oceano Pacifico questo è proprio quello che è successo. Per Morgenstern, «fu calcolato con fredda indifferenza il rischio di portare un nemico a sparare il primo colpo, e a Pearl Harbor 3.000 uomini ignari furono costretti ad accollarsi quel rischio». Ogni volta che c’è una cospirazione, come è il caso di Pearl Harbor, dato che Roosevelt e i suoi collaboratori più stretti non condivisero i dati della “Magia”, c’è da aspettarsi che prima o poi una delle persone implicate rompa il silenzio che aveva mantenuto sino a quel momento. Ed è capitato anche questo. Uno dei pochi che fu avvisato dell’imminente attacco giapponese era Don Smith, direttore del servizio bellico della Croce Rossa a Washington, scomparso nel 1990 alla rispettabile età di novantotto anni. Nel 1995 sua figlia, Helen Hamman, dichiarò che suo padre era stato informato in segreto da Roosevelt sull’attacco in arrivo da parte dei giapponesi. «Poco prima dell’attacco nel 1941 il presidente Roosevelt lo chiamò alla Casa Bianca per un incontro su una questione del massimo riserbo», raccontò sua figlia. In quell’incontro il presidente comunicò a mio padre che i servizi segreti lo avevano informato di un attacco imminente dei giapponesi a Pearl Harbor. Egli si aspettava gravi perdite e molti feriti, per cui incaricò mio padre di inviare personale e materiali sulla costa occidentale e di attendere lì indicazioni ulteriori. Inoltre chiarì a mio padre che nessuno dei militari responsabili alle Hawaii doveva esserne informato, nemmeno i collaboratori della Croce Rossa che erano già sul posto. Alle proteste di mio padre, il presidente rispose che il popolo americano non avrebbe mai autorizzato l’entrata in guerra degli USA sullo scenario europeo, all’infuori del caso in cui fosse stato attaccato sul proprio territorio.
Quindi Don Smith aveva seguito l’ordine del presidente e aveva taciuto per tantissimi anni, pur ritenendo tutta la questione sbagliata sotto l’aspetto morale. Solamente negli anni Settanta si decise a raccontare questa storia ai figli: «Ed era un grosso tormento per lui», secondo Helen Hamman.
Tratto dal libro "Breve storia dell’Impero Americano" (Titolo originale: Imperium USA. Die skrupellose Weltmacht, ovvero "Impero USA. Una potenza senza scrupoli"), Fazi Editore, 2021. Daniele Ganser è uno storico e ricercatore svizzero specializzato in storia contemporanea e politica internazionale. Insegna all'Università di San Gallo.