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Non paghi delle preghiere rutelliane (‘Please visit Italy’, alla modica cifra di sette milioni di euro) e dell’imbarazzante ‘Very Bello’ (claim giustamente finito nel dimenticatoio per soli 35mila euro), ora è il turno di Open to Meraviglia, segno che i creativi nostrani non sanno resistere alla commistione della madrelingua con l’inglese, per ottenere un effetto da Totò e Peppino alla nu volevon savuar l’indiriss straniante e obiettivamente cacofonico per una campagna pubblicitaria volta, in teoria, a incentivare il turismo in Italia. Un gigantesco spot voluto da Enit e Ministero del Turismo, firmato da un gruppo pubblicitario prestigioso e costato nove milioni di euro per un obbrobrio non si capisce finalizzato a cosa. L’Italia, come testimoniato da Bezos e Gates, che ne comprano interi lotti, è e sarà sempre più la patria del turismo di lusso: resta il mistero dell’utilità, per un viaggiatore standard del target, di una Venere botticelliana mortificata in outfit da influencer con echi ferragneschi e piazzata a vendere pizza davanti al Colosseo. La domanda sorge spontanea: cosa se ne fa un turista, ipotizziamo cinese, di un sito con quattro lingue, tutte rigorosamente europee, e di video girati in Slovenia? Forse, nove milioni di euro non bastano per andare nel Chianti a fare un video, magari con un semplice iphone. Un esperimento con la tanto vituperata AI ha fatto di meglio: claim a 4 cents, e foto, fasulle quanto la Venere in jeans ma incantevoli, a venti euro. A chi è diretto questo messaggio provinciale, infarcito di luoghi comuni? Un pensionato inglese non lo capisce, e probabilmente lo deride, come ha già fatto l’autorevole Telegraph. Persino la dimenticanza, a dir poco ingenua, di acquistare il dominio
opentomeraviglia.it, cui ha ovviato un’azienda di marketing del Mugello che se lo è aggiudicato per 4,99 euro, farebbe pensare al solito manipolo di cialtroni scappati di casa, se non addirittura di nepobabies (locuzione statunitense, ergo appetibile, per indicare i soliti raccomandati), anziché a una blasonatissima agenzia: del resto, il risultato ottenuto fa davvero immaginare indefessi creativi milanesi in riunione (briefing? Brainstorming? Ai copy l’ardua sentenza). Dunque, qual è il target della campagna pubblicitaria? Lo stesso degli influencers, con la medesima logica di chi ha portato l’ignara Ferragni agli Uffizi oppure alla Stazione Centrale di Milano mentre lei pigolava ‘non ne so niente’, quasi fosse un vanto: probabilmente pensavano di attrarre anche i suoi seguaci che, però, preferiscono copiarla per trucchi e vestiti. Per chi ha altri interessi, non è possibile resistere alla sua quotidianità banale senza scappare, per la disperazione, in Papuasia a coltivare banane. Ma in Italia l’espediente della Venere piazzista ha avuto il risultato sperato, tutti ne parlano per la naturale tendenza italica, come dice il presidente Mattarella, a dividersi in fazioni: che sia un successo in “viralità”, tuttavia, non è indicativo di un reale ritorno in termini di mercato turistico. A chi si scandalizza blaterando che quando hanno disegnato i baffi alla Gioconda nessuno ha avuto da obiettare, si ricorda che mica era opera del Ministero turistico francese: ergo, di cosa stiamo parlando?

A questo punto, un appello è d’uopo: caro Ministro Santanchè, mi offro volontaria per riparare a questo scempio. Non soltanto sono un’archeologa (un giorno sarebbe bello discettare sulle strane vie che in Italia conducono dall’archeologia alle professioni più svariate) e conosco perfettamente l’arte e le parole italiane, ma penso di saper fare molto meglio e per molto meno, soprattutto per rispetto verso i soldi dei contribuenti, che sono anche i miei. Eppure, in almeno un’occasione questi pubblicitari si sono rivelati davvero geniali, perché, pur essendo stati capaci, nell’ordine, di prendere immagini libere da un rivenditore di abiti a cui hanno incollato la faccia di un dipinto (gesto gravissimo, ma andiamo avanti); spacciare il paesaggio di un video girato in Slovenia per amene colline italiane; creare la versione tedesca del sito con Google traslator così da scrivere rasen per Prato e garderobe per Camerino, oltre a rifilare agli utenti di lingua tedesca (fra i principali visitatori del Belpaese) una traduzione impersonale, zeppa di errori; inserire le immagini della Venere nel sito con una url da whatsapp (tradotto: invece di averle su una cartella condivisa se le sono inviate in chat, abbassando la risoluzione); non acquistare il dominio opentomeraviglia.it che gli è stato letteralmente sfilato via da una altra agenzia pubblicitaria; a cui si aggiunge il linciaggio mediatico dei pubblicitari sia in patria che all’estero dove ancora se la ridono e, ridendo ridendo, hanno stroncato questo prodottino risicato ma inspiegabilmente pretenzioso con un
lapidario ‘the already legendary fiasco of the Open to Meraviglia campaign’, ebbene, se dopo questa sequela di meraviglie (è il caso di dirlo), la prestigiosa agenzia,
nel più puro stile Gere+Crawford dei tempi andati che, pochi mesi prima del divorzio compravano pagine di giornali per dire che no, loro non erano gay e sì, si amavano
tanto, reagisce sul Corriere della Sera con una contronarrazione strepitosa in cui si ringrazia il pubblico, di fatto perculandolo, e in realtà autocongratulandosi per
l’immaginifico successo della campagna che fa parlare tutti, allora meriterebbe un Lion a Cannes non soltanto per la faccia di tripla tolla, ma anche per aver dimostrato di avere imparato la lezione dalla più grande pubblicitaria vivente (per gli italiani, almeno): Wanna Marchi

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