di Manuel Berardinucci
Pier Paolo Pasolini, esponente di una sinistra rurale e antimoderna, “reazionario senza grazia” secondo Marcello Veneziani, cantava le lodi di una “Destra divina che è dentro di noi, nel sonno”, evocando il naturale afflato dell’uomo per il sacro, l’austero e il gerarchico, che riaffiora nei momenti in cui abbassiamo la guardia -il sonno per l’appunto- lasciando prendere il sopravvento ai sorgivi elementi di stabilità della natura umana, così tanto oscurati dall’obnubilazione ideologica, dalle partigianerie faziose, dalla perenne politicizzazione dell’esistente. Proprio ieri sera, conversando a cena con un amico, mi è tornata alla mente l’espressione pasoliniana riportata. Il comune sentire, caratterizzato dall’ipocrita perbenismo borghese, pone un severissimo veto sull’esplorazione intellettuale di argomenti inerenti la politica e la religione quando si cena in compagnia. “A tavola non si parla né di politica, né di religione” ripete il moralista borghese, scimmiottando nel suo piccolo mondo di ben educato nulla, il precetto delle Costituzioni massoniche che, pur attenzionando in modo ossessivo quasi esclusivamente temi spirituali e sociali, impongono all’iniziato di accantonare, quando è in loggia, tutto ciò che a livello confessionale o ideologico potrebbe causare screzi coi confratelli. A me invece il perbenismo borghese annoia e le costituzioni massoniche disgustano, quindi di tanto in tanto non disdegno il tirar fuori dal cilindro degli argomenti anche i due tabù della discordia, con tutti i rischi annessi. E così, conversando di politica tra il serio e il faceto- prevalentemente si faceva della caustica ironia ai danni della “politica” universitaria- mi sono spinto ad ipotizzare la destrità del mio interlocutore: “secondo me tu sei di destra, anche se non lo sai”. La risposta non è stata di diniego e nemmeno di conferma, si è piuttosto soffermata sull’impoliticità del mio amico che, a suo dire, non ricordava nemmeno l’ultima volta in cui si è votato e per cosa. Tale contro-argomentazione alla mia affermazione mi ha stupito, non per i motivi che potreste immaginare, bensì perché ha riconnesso, nella mia mente disabituata a tale coincidenza, la politicità dell’essere umano con l’espressione della sua volontà a livello elettorale. Io, che proprio in quanto profondamente politico ho deciso da alcuni anni di non prender più parte al circo elettorale che lo Stato italiano imbastisce di tanto in tanto, dicendo al mio interlocutore “secondo me tu sei di destra”, non avevo minimamente, ma neanche lontanamente, pensato ad una sua preferenza partitica nei confronti dell’attuale maggioranza di governo o magari di qualche gruppuscolo extraparlamentare. Si è genericamente di destra per il proprio rapporto col mondo, l’attitudine dello spirito, l’approccio alla vita e alle relazioni, la personalità, le abitudini e persino il vestiario. Basta questo per essere di destra, non serve votarla, e nemmeno saperlo; si può essere di destra a propria insaputa. Non è possibile, al contrario, essere di sinistra a propria insaputa. Per stare da quel lato lì qualcuno deve prima averti consegnato il libretto delle istruzioni e questo è un dato oggettivo poiché rivendicato dalla stessa sinistra in qualità di ontologica superiorità culturale. Laddove essi vedono una innata propensione allo studio, io vi scorgo l’artificiosità di teorie che attenendo all’ambito dell’utopia e dell’irreale abbisognano, per sé stesse, di portentose analisi socio-culturali. E’ il motivo per cui a sinistra non sanno memare. Come fai a realizzare una vignetta che con un’immagine e quattro parole evochi un concetto ed una risata, se le espressioni del tuo sentire sociale trovano giustificazione soltanto attraverso la ricerca specialistica di un’università del Kentucky, e non hanno invece alcuna possibile attinenza col reale, l’esperienza e la natura?
Ma tornando sull’altra riva del fiume, le declinazioni intellettuali di quel generico “essere di destra”, sono innumerevoli. Proveremo ad elencare le più consistenti e rilevanti “destre”, senza pretendere di esaurire il campionario e sapendo che per alcune di esse la collocazione è discutibile benché convenzionalmente utile: la destra contro-rivoluzionaria, che è integralmente cattolica, tradizionale e comunitaria, tanto illiberale quanto anti-statalista; la destra conservatrice, genericamente, spesso folkloristicamente, cristiana, tendenzialmente statica sul piano etico, amica degli “etruschi”, economicamente liberista nella sua versione anglosassone, più dirigista sul Vecchio continente, semplicemente confusa nella penisola; la destra “tradizionalista” e ribelle, con fascinazioni esoteriche o pagane, simpatie per i barbuti mediorientali, il mito dell’Intifada e qualche volta duginiana; la destra f-parola, con tutte le contraddizioni che si porta dietro, in nome delle quali rinunceremo a descriverla; la destra liberale, la quale tende a collocarsi nell’alveo opposto a quello della sinistra, non tanto per qualche comunanza con le altre sorelle elencate, quanto più per maggiore ripulsa nei confronti dello statalismo progressista.
Destre varie, irriducibili tra loro, talvolta ibridate, meticciate o magari divise al loro stesso interno in altri micro-rivoli. Ma cosa le accomuna tutte? Cosa consente, pur in modo improprio, di collocarle tutte nel calderone della generica destra? Materia per antropologi forse, ma soprattutto per filosofi, politologi, politicanti, militanti. Per il professor Marco Tarchi, politologo italiano che pur rifiuta l’utilizzo della dicotomia destra/sinistra nelle sue analisi, il tratto che più di ogni altro consente una riduzione ad unità di tutte le cosiddette destre è la consapevolezza, insita in ognuna di esse, dell’esistenza di un ordine naturale preesistente rispetto alla comunità politica, ovvero un insieme di norme iscritte nel cuore di ogni uomo secondo de Maistre, o comunque ricavabili dall’osservazione della realtà, che precedono lo Stato e il contratto sociale. Certamente poi ogni destra ne fornisce chiavi di lettura differenti e variegate, a partire da quella effettivamente autentica (non fingerò avalutatività) della Controrivoluzione che eredita le lezioni della scuola agostiniana prima e tomista poi; passando per quella conservatrice, la quale accetta la mutevole dialettica dell’ordinamento rivoluzionario, immaginando tuttavia di poter sottrarre all’arbitrio del potere soltanto alcuni “valori non negoziabili” indisponibili e insopprimibili per natura; la tradizionalista e ribelle che ipotizza una Tradizione primordiale antecedente non solo rispetto agli organismi politici, ma persino alle religioni e alle culture; la f-parola che assume come dato ontologico la gerarchia nell’organizzazione del corpo sociale e nobilita l’uso della forza come espressione della natura; la liberale che reinterpreta il diritto naturale cattolico, svuotandolo della sua carica trascendente.
Il tratto comune è, per l’appunto, la pre-politicità dei dati assunti come propri connotati culturali. Ovverosia ogni destra, considerata in sé stessa, non avrebbe necessità di esistere se non in reazione agli utopisti che pretendono di piegare le realtà ai loro arbitrii ideologici. Scriveva un poetico reazionario come Nicolàs Gòmez Dàvila che “la sinistra è un rettilineo che non bada al paesaggio. La reazione è un sentiero tutto curvo tra le colline.” Ogni destra, in fin dei conti, immagina di essere l’autentica interpretazione della Realtà e poi certo, il principio di non contraddizione ci costringe a concludere che solo una di esse può effettivamente avere ragione; ma la differenza con la sinistra, la quale invece si pone ineliminabilmente come avversaria del reale, del naturale, dell’essenziale, permane ed è abissale. La sinistra può esistere soltanto come atto politico in divenire, la destra permane come essere e non ha necessità di esistere laddove l’ordine naturale è rispettato e non viene minacciato. E’ sempre la sinistra stessa a rivendicarlo quando afferma che essa esiste in quanto è necessario che vi sia qualcuno che abbatta le disuguaglianze, i privilegi o le ingiustizie. Rivendica, in effetti, di aver la sua ragion d’essere nell’abbattimento di leggi e strutture che sgorgano dalla natura, dalla divinità o dall’esperienza dei popoli, poiché in determinate circostanze hanno prodotto storture o soprusi, addebitando al corpo la colpa della malattia. La destra, invece, non ha l’atto politico nel suo statuto ontologico. Per la destra l’atto politico è una reazione. Per quale motivo i realisti avrebbero dovuto unirsi in un partito prima della Rivoluzione francese? Per quale motivo de Bonald avrebbe dovuto scrivere saggi per giustificare ciò che era naturalmente ovvio agli occhi di tutti, prima che l’illuminismo inquinasse le menti? Per questo per essere di destra non serve seguire la politica, interessarsi ad essa o finanche collocarsi ideologicamente. Si è di destra per istinto, per natura, per tradizione, per inclinazione individuale. Lo studio, l’approfondimento, l’analisi, sono indispensabili per essere poi credibili, efficaci e valorosi militanti, politici, pensatori, scrittori di destra, ma di per sé non è richiesto. Quando Gramsci afferma che odia gli indifferenti non sta traslando nel mondo secolarizzato la terribile sentenza che l’Apocalisse riserva ai tiepidi o Dante agli ignavi, tutt’altro. Gramsci sprona alla partigianeria, alla politicizzazione della vita, a far dell’esistente una costante prassi in divenire. L’Apocalisse e Dante si riferiscono anzitutto alla vita spirituale, al guerriero che è dentro ognuno di noi e che solo in determinate circostanze e secondo le disposizioni della Provvidenza, o del fato per le destre pagane, si traduce in attitudine politica. Il cavaliere provenzale del XII secolo era a suo modo di destra e non lo sapeva; l’eretico dolciniano era un terrorista rivoluzionario e doveva saperlo, un compagno che sbagliava ante-litteram.
La destra è perfino nell’uomo di sinistra quando, dopo aver partecipato ad una manifestazione anti-razzista, vieta alla figlia di passare per il quartiere colonizzato dai diversamente pigmentati, lasciando che la naturale prudenza auto-conservativa della specie umana prenda il sopravvento sui castelli di carta del politicamente corretto che gli avevano detto che la sua paura era solo una percezione.
Pensiamo anche al mondo dello spettacolo, della musica e dell’arte. Come si intuisce se un artista è di sinistra? Tendenzialmente infilerà riferimenti politici o quantomeno sociali in ogni suo prodotto. Come si intuisce se un artista è di destra? Tendenzialmente eviterà riferimenti politici, magari anche per timore della cappa di potere che il progressismo ha instaurato in quegli ambiti, ma non solo.
Insomma, tornando alla tesi proposta in esordio, si sta a sinistra solo se si accetta la dialettica politica come essenza della propria esistenza sociale, mentre si può essere di destra benché impolitici, anzi talvolta si è di destra proprio in quanto impolitici. Quando sogniamo “nel sonno”, per tornare a Pasolini, e dunque i nostri sogni non servono a progettare utopici/distopici futuri in terra, ma a librare in alto le nostre menti verso il favoloso ed il fantastico, siamo di destra. La destra infatti, proprio perché realista e consapevole dei limiti da accettare nella natura umana, ama talvolta rifugiarsi in mondi irreali; la sinistra, proprio perché utopista, deve incessantemente lavorare per erodere il reale e dunque non può permettersi distrazioni fantasiose. Da qui la passione della destra per Tolkien e della sinistra per i romanzi di critica sociale.
L’anarchico è di sinistra, perché eleva a paradigma politico il suo rigetto per l’autorità costituita, l’anarca è di destra perché sottrae la propria individualità all’arbitrio di un potere riconosciuto come iniquo in relazione ad un ordine naturale preesistente.
Concluderei proprio con i versi che Pasolini dedicava, come testamento spirituale, ad un ipotetico ragazzo di destra:
Porta con mani di santo o soldato l’intimità col Re, Destra divina che è dentro di noi, nel sonno. "
Pier Paolo Pasolini, esponente di una sinistra rurale e antimoderna, “reazionario senza grazia” secondo Marcello Veneziani, cantava le lodi di una “Destra divina che è dentro di noi, nel sonno”, evocando il naturale afflato dell’uomo per il sacro, l’austero e il gerarchico, che riaffiora nei momenti in cui abbassiamo la guardia -il sonno per l’appunto- lasciando prendere il sopravvento ai sorgivi elementi di stabilità della natura umana, così tanto oscurati dall’obnubilazione ideologica, dalle partigianerie faziose, dalla perenne politicizzazione dell’esistente. Proprio ieri sera, conversando a cena con un amico, mi è tornata alla mente l’espressione pasoliniana riportata. Il comune sentire, caratterizzato dall’ipocrita perbenismo borghese, pone un severissimo veto sull’esplorazione intellettuale di argomenti inerenti la politica e la religione quando si cena in compagnia. “A tavola non si parla né di politica, né di religione” ripete il moralista borghese, scimmiottando nel suo piccolo mondo di ben educato nulla, il precetto delle Costituzioni massoniche che, pur attenzionando in modo ossessivo quasi esclusivamente temi spirituali e sociali, impongono all’iniziato di accantonare, quando è in loggia, tutto ciò che a livello confessionale o ideologico potrebbe causare screzi coi confratelli. A me invece il perbenismo borghese annoia e le costituzioni massoniche disgustano, quindi di tanto in tanto non disdegno il tirar fuori dal cilindro degli argomenti anche i due tabù della discordia, con tutti i rischi annessi. E così, conversando di politica tra il serio e il faceto- prevalentemente si faceva della caustica ironia ai danni della “politica” universitaria- mi sono spinto ad ipotizzare la destrità del mio interlocutore: “secondo me tu sei di destra, anche se non lo sai”. La risposta non è stata di diniego e nemmeno di conferma, si è piuttosto soffermata sull’impoliticità del mio amico che, a suo dire, non ricordava nemmeno l’ultima volta in cui si è votato e per cosa. Tale contro-argomentazione alla mia affermazione mi ha stupito, non per i motivi che potreste immaginare, bensì perché ha riconnesso, nella mia mente disabituata a tale coincidenza, la politicità dell’essere umano con l’espressione della sua volontà a livello elettorale. Io, che proprio in quanto profondamente politico ho deciso da alcuni anni di non prender più parte al circo elettorale che lo Stato italiano imbastisce di tanto in tanto, dicendo al mio interlocutore “secondo me tu sei di destra”, non avevo minimamente, ma neanche lontanamente, pensato ad una sua preferenza partitica nei confronti dell’attuale maggioranza di governo o magari di qualche gruppuscolo extraparlamentare. Si è genericamente di destra per il proprio rapporto col mondo, l’attitudine dello spirito, l’approccio alla vita e alle relazioni, la personalità, le abitudini e persino il vestiario. Basta questo per essere di destra, non serve votarla, e nemmeno saperlo; si può essere di destra a propria insaputa. Non è possibile, al contrario, essere di sinistra a propria insaputa. Per stare da quel lato lì qualcuno deve prima averti consegnato il libretto delle istruzioni e questo è un dato oggettivo poiché rivendicato dalla stessa sinistra in qualità di ontologica superiorità culturale. Laddove essi vedono una innata propensione allo studio, io vi scorgo l’artificiosità di teorie che attenendo all’ambito dell’utopia e dell’irreale abbisognano, per sé stesse, di portentose analisi socio-culturali. E’ il motivo per cui a sinistra non sanno memare. Come fai a realizzare una vignetta che con un’immagine e quattro parole evochi un concetto ed una risata, se le espressioni del tuo sentire sociale trovano giustificazione soltanto attraverso la ricerca specialistica di un’università del Kentucky, e non hanno invece alcuna possibile attinenza col reale, l’esperienza e la natura?
Ma tornando sull’altra riva del fiume, le declinazioni intellettuali di quel generico “essere di destra”, sono innumerevoli. Proveremo ad elencare le più consistenti e rilevanti “destre”, senza pretendere di esaurire il campionario e sapendo che per alcune di esse la collocazione è discutibile benché convenzionalmente utile: la destra contro-rivoluzionaria, che è integralmente cattolica, tradizionale e comunitaria, tanto illiberale quanto anti-statalista; la destra conservatrice, genericamente, spesso folkloristicamente, cristiana, tendenzialmente statica sul piano etico, amica degli “etruschi”, economicamente liberista nella sua versione anglosassone, più dirigista sul Vecchio continente, semplicemente confusa nella penisola; la destra “tradizionalista” e ribelle, con fascinazioni esoteriche o pagane, simpatie per i barbuti mediorientali, il mito dell’Intifada e qualche volta duginiana; la destra f-parola, con tutte le contraddizioni che si porta dietro, in nome delle quali rinunceremo a descriverla; la destra liberale, la quale tende a collocarsi nell’alveo opposto a quello della sinistra, non tanto per qualche comunanza con le altre sorelle elencate, quanto più per maggiore ripulsa nei confronti dello statalismo progressista.
Destre varie, irriducibili tra loro, talvolta ibridate, meticciate o magari divise al loro stesso interno in altri micro-rivoli. Ma cosa le accomuna tutte? Cosa consente, pur in modo improprio, di collocarle tutte nel calderone della generica destra? Materia per antropologi forse, ma soprattutto per filosofi, politologi, politicanti, militanti. Per il professor Marco Tarchi, politologo italiano che pur rifiuta l’utilizzo della dicotomia destra/sinistra nelle sue analisi, il tratto che più di ogni altro consente una riduzione ad unità di tutte le cosiddette destre è la consapevolezza, insita in ognuna di esse, dell’esistenza di un ordine naturale preesistente rispetto alla comunità politica, ovvero un insieme di norme iscritte nel cuore di ogni uomo secondo de Maistre, o comunque ricavabili dall’osservazione della realtà, che precedono lo Stato e il contratto sociale. Certamente poi ogni destra ne fornisce chiavi di lettura differenti e variegate, a partire da quella effettivamente autentica (non fingerò avalutatività) della Controrivoluzione che eredita le lezioni della scuola agostiniana prima e tomista poi; passando per quella conservatrice, la quale accetta la mutevole dialettica dell’ordinamento rivoluzionario, immaginando tuttavia di poter sottrarre all’arbitrio del potere soltanto alcuni “valori non negoziabili” indisponibili e insopprimibili per natura; la tradizionalista e ribelle che ipotizza una Tradizione primordiale antecedente non solo rispetto agli organismi politici, ma persino alle religioni e alle culture; la f-parola che assume come dato ontologico la gerarchia nell’organizzazione del corpo sociale e nobilita l’uso della forza come espressione della natura; la liberale che reinterpreta il diritto naturale cattolico, svuotandolo della sua carica trascendente.
Il tratto comune è, per l’appunto, la pre-politicità dei dati assunti come propri connotati culturali. Ovverosia ogni destra, considerata in sé stessa, non avrebbe necessità di esistere se non in reazione agli utopisti che pretendono di piegare le realtà ai loro arbitrii ideologici. Scriveva un poetico reazionario come Nicolàs Gòmez Dàvila che “la sinistra è un rettilineo che non bada al paesaggio. La reazione è un sentiero tutto curvo tra le colline.” Ogni destra, in fin dei conti, immagina di essere l’autentica interpretazione della Realtà e poi certo, il principio di non contraddizione ci costringe a concludere che solo una di esse può effettivamente avere ragione; ma la differenza con la sinistra, la quale invece si pone ineliminabilmente come avversaria del reale, del naturale, dell’essenziale, permane ed è abissale. La sinistra può esistere soltanto come atto politico in divenire, la destra permane come essere e non ha necessità di esistere laddove l’ordine naturale è rispettato e non viene minacciato. E’ sempre la sinistra stessa a rivendicarlo quando afferma che essa esiste in quanto è necessario che vi sia qualcuno che abbatta le disuguaglianze, i privilegi o le ingiustizie. Rivendica, in effetti, di aver la sua ragion d’essere nell’abbattimento di leggi e strutture che sgorgano dalla natura, dalla divinità o dall’esperienza dei popoli, poiché in determinate circostanze hanno prodotto storture o soprusi, addebitando al corpo la colpa della malattia. La destra, invece, non ha l’atto politico nel suo statuto ontologico. Per la destra l’atto politico è una reazione. Per quale motivo i realisti avrebbero dovuto unirsi in un partito prima della Rivoluzione francese? Per quale motivo de Bonald avrebbe dovuto scrivere saggi per giustificare ciò che era naturalmente ovvio agli occhi di tutti, prima che l’illuminismo inquinasse le menti? Per questo per essere di destra non serve seguire la politica, interessarsi ad essa o finanche collocarsi ideologicamente. Si è di destra per istinto, per natura, per tradizione, per inclinazione individuale. Lo studio, l’approfondimento, l’analisi, sono indispensabili per essere poi credibili, efficaci e valorosi militanti, politici, pensatori, scrittori di destra, ma di per sé non è richiesto. Quando Gramsci afferma che odia gli indifferenti non sta traslando nel mondo secolarizzato la terribile sentenza che l’Apocalisse riserva ai tiepidi o Dante agli ignavi, tutt’altro. Gramsci sprona alla partigianeria, alla politicizzazione della vita, a far dell’esistente una costante prassi in divenire. L’Apocalisse e Dante si riferiscono anzitutto alla vita spirituale, al guerriero che è dentro ognuno di noi e che solo in determinate circostanze e secondo le disposizioni della Provvidenza, o del fato per le destre pagane, si traduce in attitudine politica. Il cavaliere provenzale del XII secolo era a suo modo di destra e non lo sapeva; l’eretico dolciniano era un terrorista rivoluzionario e doveva saperlo, un compagno che sbagliava ante-litteram.
La destra è perfino nell’uomo di sinistra quando, dopo aver partecipato ad una manifestazione anti-razzista, vieta alla figlia di passare per il quartiere colonizzato dai diversamente pigmentati, lasciando che la naturale prudenza auto-conservativa della specie umana prenda il sopravvento sui castelli di carta del politicamente corretto che gli avevano detto che la sua paura era solo una percezione.
Pensiamo anche al mondo dello spettacolo, della musica e dell’arte. Come si intuisce se un artista è di sinistra? Tendenzialmente infilerà riferimenti politici o quantomeno sociali in ogni suo prodotto. Come si intuisce se un artista è di destra? Tendenzialmente eviterà riferimenti politici, magari anche per timore della cappa di potere che il progressismo ha instaurato in quegli ambiti, ma non solo.
Insomma, tornando alla tesi proposta in esordio, si sta a sinistra solo se si accetta la dialettica politica come essenza della propria esistenza sociale, mentre si può essere di destra benché impolitici, anzi talvolta si è di destra proprio in quanto impolitici. Quando sogniamo “nel sonno”, per tornare a Pasolini, e dunque i nostri sogni non servono a progettare utopici/distopici futuri in terra, ma a librare in alto le nostre menti verso il favoloso ed il fantastico, siamo di destra. La destra infatti, proprio perché realista e consapevole dei limiti da accettare nella natura umana, ama talvolta rifugiarsi in mondi irreali; la sinistra, proprio perché utopista, deve incessantemente lavorare per erodere il reale e dunque non può permettersi distrazioni fantasiose. Da qui la passione della destra per Tolkien e della sinistra per i romanzi di critica sociale.
L’anarchico è di sinistra, perché eleva a paradigma politico il suo rigetto per l’autorità costituita, l’anarca è di destra perché sottrae la propria individualità all’arbitrio di un potere riconosciuto come iniquo in relazione ad un ordine naturale preesistente.
Concluderei proprio con i versi che Pasolini dedicava, come testamento spirituale, ad un ipotetico ragazzo di destra:
"Difendi i paletti di gelso, di ontano, in nome degli Dei, greci o cinesi. Muori d’amore per le vigne. Per i fichi negli orti. I ceppi, gli stecchi.
Per il capo tosato dei tuoi compagni. Difendi i campi tra il paese e la campagna, con le loro pannocchie abbandonate. Difendi il prato tra l’ultima casa del paese e la roggia. I casali assomigliano a Chiese: godi di questa idea, tienila nel cuore. La confidenza col sole e con la pioggia, lo sai, è sapienza sacra.
Difendi, conserva, prega! La Repubblica è dentro, nel corpo della madre. I padri hanno cercato e tornato a cercar di qua e di là, nascendo, morendo, cambiando: ma son tutte cose del passato. Oggi: difendere, conservare, pregare.
Taci! Che la tua camicia non sia nera, e neanche bruna. Taci! che sia una camicia grigia. La camicia del sonno. Odia quelli che vogliono svegliarsi, e dimenticarsi delle Pasque (…)
Tu difendi, conserva, prega: ma ama i poveri: ama la loro diversità. Ama la loro voglia di vivere soli nel loro mondo, tra prati e palazzi dove non arriva la parola del nostro mondo; ama il confine che hanno segnato tra noi e loro; ama il loro dialetto inventato ogni mattina, per non farsi capire; per non condividere con nessuno la loro allegria. Ama il sole di città e la miseria dei ladri; ama la carne della mamma nel figlio.