Le prove dell'esistenza di Dio sono state per lungo tempo un capitolo importante nella storia della filosofia. Curiosamente, il tema è stato più centrale proprio nei secoli fra la tarda antichità e l'inizio del Rinascimento, quindi il Medioevo ci rientra tutto, ed è solo apparentemente contraddittorio, o strano, che ci si sia affannati a dimostrare Dio negli anni in cui la fede in Dio era il centro di tutta l'esistenza umana, ciò a cui tendeva ogni attività e ogni pensiero. Ciò apparve contraddittorio solo, ed erroneamente, ad un pensiero post-religioso di matrice ottocentesca, in cui si riteneva che un oggetto di così gran fede dovesse darsi per scontato, altrimenti la ricerca di sue prove sarebbe divenuta sospetta. Così potevano ragionare atei dichiarati o agnostici come Feuerbach, i marxisti e i positivisti. Ma chi viveva immerso in un'atmosfera pervasa di trascendenza poteva vederla diversamente. E vale la pena, almeno per quanto mi riguarda, rivolgere lo sguardo proprio a quel tipo di uomini e di pensiero.
Il primo a darsi l'obbiettivo di dimostrare che un Dio grande e origine di tutto dovesse esistere, e con qualità impersonali e metafisiche assolute (un Dio “serio”, quindi, a differenza degli dei della mitologia che si davano spesso e volentieri a liti per futili motivi e ad avventure extraconiugali) fu Aristotele. Lo fece nella sua “Metafisica”, opera oggi fondamentale, ma che deve il titolo ad un fortunato equivoco. In pratica, fu tramandata senza alcun titolo, immediatamente dopo l'opera dedicata ai fenomeni naturali, la “Fisica”, e quindi denominata, per comodità, “Meta-fisica”, ossia “Quella dopo la Fisica”. Sennonché quel “dopo”, col tempo, si prestò molto bene ad illustrarne anche il contenuto, ossia “Ciò che sta oltre i fenomeni fisici”, e tale denominazione inaugurò un'intera branca dell'indagine filosofica. Bene, Aristotele, parlando proprio dei fenomeni fisici, nota come essi siano caratterizzati tutti dal movimento, e che questo movimento viene originato sempre da qualcos'altro. Un proiettile viene scagliato da una catapulta, la catapulta deve venir azionata da un uomo, quell'uomo ha ricevuto l'ordine dal proprio comandante, costui aveva istruzioni in merito e così via. Risalendo di causa in causa, e rimanendo a livello fisico, Aristotele si rese conto che la catena non finiva letteralmente mai. Ma noi viviamo in un mondo in cui nulla è eterno e le cause fisiche, da sole, non sono in grado di azionarsi da sé. Ne deriva la necessità di postulare l'esistenza di un “movente immobile”, che tutto è capace di mettere in moto senza esser mosso da altro. Esso è eterno, altrimenti sarebbe causato da qualcosa di ancor più antico. Ed è essenzialmente pensiero, dato che la ragione è la facoltà più nobile di tutte, quella che tutto abbraccia e comprende. Dio che tutto origina, pensando sé stesso pensante. Un concetto circolare, cosa che alcuni avrebbero criticato in seguito, ma che proprio per questo aveva, per Aristotele, il pregio di non aver bisogno di appoggio esterno. Ed era quello che gli si richiedeva.
Per molti secoli non ci si preoccupò ulteriormente del problema, anche perché non lo si vedeva come tale. Ogni tanto alcuni, come gli epicurei, creavano sistemi che facevano a meno di Dio, ma incappavano in problemi altrettanto insolubili di quelli a cui cercavano di sfuggire, e il pensiero generale non li vedeva come un filone interessante. I miei amati neoplatonici, e Plotino in particolare, più che cercare di dimostrare l'esistenza di Dio ne deducevano i caratteri dallo stesso fatto dell'Essere. Esiste qualcosa? Sì, altrimenti non staremmo qui a parlarne. L'Essere è meglio del Nulla? Naturalmente sì, come dimostra la tendenza di tutte le cose a ricercare la vita e persino la semplice unità fisica contro alle forze che ne causano la decadenza, la morte e la dissoluzione. E quindi l'Essere massimamente buono non può che essere quello più lontano dal Nulla, ossia l'Entità perfetta, anzi, il Bene assoluto stesso, che è anche massimamente semplice (altrimenti verrebbe dalla composizione di parti, e ciascuna delle parti gli preesisterebbe), e quindi Uno. L'Uno neoplatonico, che crea il mondo non per bisogno, ma per amore.
Nonostante non sia una “prova” in senso stretto, l'ho trovata sempre una delle deduzioni di Dio più belle e affascinanti, e non stupisce che abbia ispirato profondamente il Cristianesimo e abbia influenzato molti pensatori successivi.
Il Cristianesimo nasce platonico. Il Cristo storico, a ben vedere, doveva essere persona colta e conoscere la lingua letteraria del suo tempo, ossia il greco. Lo si deduce dagli stessi Vangeli, e primo su tutti quello di Giovanni, che, dall'incipit intriso di mistero e solennità (“In principio era il Verbo”) confessa la matrice filosofica del pensiero del Maestro. Molto di ciò che si ritroverà sviluppato dai Padri della Chiesa dei primi secoli lo si poteva leggere, già in quegli anni, nelle opere del filosofo ebreo Filone di Alessandria, coevo del Cristo. E probabilmente sia Filone sia il Cristo erano stati influenzati dalla setta degli Esseni, a loro volta recettori di dottrine filosofiche ed esoteriche greche, fra cui il pitagorismo e (naturalmente) il platonismo.
Per molti secoli, quindi, il Cristianesimo concepì Dio come i platonici dell'Accademia di Atene. Lo discusse e descrisse in opere innumerevoli sforzandosi di far coincidere i concetti greci con quelli cristiani, al punto di identificarli, come per la Triade neoplatonica, che divenne Trinità.
In pieno Medioevo, all'epoca della Prima Crociata e dell'emergere del papato romano come potenza non solo spirituale, toccò ad un italiano, Anselmo d'Aosta, allora monaco benedettino a Bec, in Normandia, concepire uno degli argomenti che ebbero più risonanza sul tema, ferocemente attaccato e lungamente discusso, e che possiede un'indubbia eleganza, quasi fosse figlio di un procedere matematico. Anselmo è infatti anticipatore di un'epoca, la cosiddetta “Rinascenza del XII secolo”, in cui si riscopre Platone grazie a quelle opere rimaste come perdute in Occidente e tornate grazie a traduzioni arabe; un'epoca in cui non ci si contenta di credere per pura fede, per dono, senza altra spiegazione, ma che vuole indagare e approfondire i misteri stessi del creato con lo strumento più nobile che Dio ci ha donato per servircene, ossia la ragione: quella per cui possiamo dirci fatti “a sua immagine e somiglianza”. Anselmo, dunque, dopo anni di studio e meditazione, e dopo un'opera, il “Monologion”, in cui trattava degli attributi divini, sente un profondo senso di insoddisfazione, dovuto alla mancanza di un argomento unico, semplice, capace di unificare tutti i discorsi sulla natura e le qualità di Dio. Un argomento definitivo che ne stabilisca, razionalmente e incontrovertibilmente, l'esistenza così come lo possiamo concepire. Per Anselmo, quindi, Dio è pensato, e non potrebbe essere diversamente, come ciò di cui non può darsi nulla di più: il più perfetto essere, il più grande, il più potente e sapiente. Ciò di cui non può darsi nulla di maggiore, quindi, dato che il Male è ancora inteso, alla maniera platonica, come una mancanza e un'insufficienza. Ebbene, Egli dovrà anche esistere, perché se gli mancasse l'esistenza, non sarebbe perfetto. Ed ecco tutto, in modo semplice e subito conseguente alle premesse. La famosa “Prova Ontologica”. Non meraviglia che in seguito l'autore fu fatto santo.
Da subito vi fu chi ne approvò la completezza, e anche chi la criticò sottilmente. Un monaco, Gaunilone, ad esempio scrisse che si poteva anche immaginare un'isola perfetta in mezzo all'oceano, senza che questa dovesse per forza esistere. Ma fu una critica di poca fortuna, e mi dispiace personalmente che lo stesso Anselmo non abbia saputo demolirla con la semplice osservazione che un'isola è qualcosa di materiale, e quindi imperfetto, impensabile nei termini posti da Gaunilone, mentre Dio è il concetto stesso di Perfezione. Che, essendo un concetto che la nostra mente ha da sempre, e che non può aver tratto da niente di ciò che vede attorno a sé, richiama l'esistenza di un oggetto conforme.
(Si racconta che Anselmo fu perseguitato in diverse occasioni da eventi inquietanti che bersagliavano proprio i primissimi appunti del “Proslogion”. Le tavolette di cera che li contenevano, infatti, sparivano e venivano ritrovate fatte a pezzi, con segni di artigli difficilmente spiegabili in una cella di un monastero. Questo sino a che egli stesso non ne ebbe fatto trascrivere il testo su pergamena “nel nome del Signore”. Ed è una storia così bella che dev'essere vera)
Quasi due secoli dopo fu un altro italiano, Tommaso d'Aquino, a riprendere il filo della discussione, stavolta partendo da premesse molto lontane da quelle del platonismo cristiano: l'Aquinate, infatti, fu il protagonista della riscoperta di Aristotele, e in un'opera monumentale, il cui titolo più conosciuto fu la “Summa Teologica”, si sforzò di riscrivere i concetti di Dio, fede e destinazione dell'Uomo nel mondo seguendo i principi di questa scuola filosofica. Uno dei suoi capisaldi furono le cosiddette “Cinque Vie”, ossia cinque argomenti razionali per giungere alla stessa conclusione: Dio esiste.
1) Prova cosmologica, che è quella di Aristotele. Tutto è mosso da qualcos'altro, e l'unico modo per evitare un'inconcepibile catena infinita di mossi e moventi è un movente supremo, non mosso da altro che da sé stesso: Dio.
2) Prova causale. Simile alla precedente, ma riferita alla catena di cause ed effetti, anch'essa nel mondo fisico apparentemente infinita e fatta di elementi causati da altro, nessuno dei quali capace di esistenza indipendente o eterna. Se ne esce solo ipotizzando una Causa Prima suprema ed eterna: Dio.
3) Il Necessario. Tutto ciò che esiste al mondo pare contingente, ossia dipendente da qualcos'altro, senza il quale non sarebbe esistito. L'insieme di tutte le cose contingenti quindi da sé non spiega la propria esistenza. Essa è data da un'origine unica, che ha il carattere della necessità. Dio, appunto.
4) I gradi della perfezione. In tutte le cose si osservano qualità positive, ma in grado differente. Ogni cosa è in un certo grado buona, vera, bella. Ma è sempre possibile che ve ne siano di ancor più buone, belle, vere. Sino al grado massimo, oltre il quale non può darsi nulla di più: Dio (notare la somiglianza con la prova ontologica).
5) La Finalità. Ogni cosa sembra esistere secondo una ragione, come se fosse diretta ad un fine. Le stesse leggi di natura paiono scritte da una ragione che mirasse ad un fine, come il mantenimento in essere, l'armonia e la coordinazione di ogni parte del creato. Solo una mente eccelsa può aver concepito una finalità universale, e averla poi messa in atto. La mente di Dio.
Bisogna dire che anche queste prove non mancano di ragionevolezza, eleganza e coerenza, ciascuna richiamando le altre. Certo non erano la prova unificante di Anselmo, ma soddisfecero enormemente le esigenze dell'epoca, tanto che la stessa Chiesa, dopo aver condannato gli scritti di Tommaso, ne fece l'impalcatura intellettuale della propria teologia ufficiale. Ed elevarono lo stesso Tommaso agli onori degli altari.
Il secolo successivo, il XIV, fu quello in cui i due grandi ordini mendicanti entrarono in conflitto. Le ragioni furono tante, ma a noi interessa qui ricordare il momento in cui le frizioni generarono un altro importante capitolo nella storia del pensiero, quando il francescano scozzese Giovanni Duns Scoto (Tommaso era domenicano) scartò le Cinque Vie per tornare ad una prova unica e semplice, come lo stesso Dio. E tornò in sostanza a sant'Anselmo, ma preoccupandosi di rendere la prova ontologica inattaccabile sin dalle fondamenta. Non mise in discussione il fatto che, dalla perfezione divina derivasse automaticamente l'esistenza. Tuttavia, bisognava dimostrare come un Essere Perfetto simile fosse non solo pensabile, ma anche possibile. E Giovanni vi si butta in modo sistematico, analizzando i pro e i contro, in modo da renderla inattaccabile, raggiungendo vette di analisi tanto raffinate da sfiorare la matematica. Ho letto non so più quante opere filosofiche, alcune “pesanti” e per linguaggio tecnico e per mole, ma devo confessare che le neppure cento paginette del “Trattato sul Primo Principio” sono state uno scoglio arduo. La sostanza è che nella catena delle cause, quella precedente è più completa della successiva, dato che contiene in sé i semi (o le ragioni) di quest'ultima. Più si risale indietro, più si incontrano cause maggiormente caratterizzate dalla completezza. Dovendosi incontrare una causa prima, questa non può che essere quella più completa di tutte, ossia perfetta. La sua possibilità è logicamente determinata, ma la cosa interessante è che, una volta ammessa la possibilità, ne consegue automaticamente... la necessità. Perché se una Causa Prima è possibile, allora dev'esserci necessariamente, costituendo una soluzione razionale all'esistenza di una catena causale, le cui alternative (catena circolare o infinita) sono assurde e inconcepibili.
Anche durante il Rinascimento la questione rimase sul tavolo, ma per trovare maggiore originalità bisogna attendere il XVII secolo, con Renato Cartesio. Chi ha fatto un po' di filosofia non dimenticherà che il suo nome è associato al “cogito”, ossia alla decostruzione di tutte le certezze, sensoriali e intellettuali, ad opera del dubbio portato all'estremo (e perciò detto “iperbolico”). Tutto ciò che esperiamo coi sensi può essere illusione, magari ad opera di un diavoletto dispettoso che abbia la capacità di illuderci, ma il semplice fatto che io pensi non è falsificabile. E se penso, esisto. Ma qui si va oltre, perché l'esistenza del soggetto pensante non basta a giustificare sé stessa. Costui, infatti, potrà anche avere idee che vengono direttamente dall'esperienza sensoriale (avventizie), o inventate assemblando le precedenti (fattizie, come quella di una sirena), ma possiede anche idee innate, ossia non-nate da esperienza sensoriale. E una di questa è la Perfezione. Si capisce che idee di questo tipo (accantonata come irragionevole l'ipotesi del diavoletto ingannatore) possano derivare solo da un'origine della stessa natura. Ossia Dio, che è la Perfezione stessa.
Cartesio era un uomo di scienza, assai differente dai filosofi platonizzanti o teologizzanti dei secoli precedenti, e inaugura un'epoca nuova. Lui stesso passò più tempo a studiare problemi di matematica e geometria e scienze naturali che ad approfondire i temi della scolastica medievale, come l'Ente e l'Essenza, ed è considerato il primo esponente del cosiddetto filone razionalista. Dopo di lui, l'ebreo olandese Spinoza fece un ulteriore passo avanti, e identificò Dio con la Natura. Tutto ciò che esiste è passeggero, soggetto a modifiche incessanti. Solo la Sostanza sottostante è unica e causa di sé. Unica, perché un'altra sostanza che ne avesse le stesse caratteristiche coinciderebbe con essa. E due sostanze alla base di tutto l'esistente sarebbero logicamente autoescludentesi (una non potrebbe generare l'altra). Causa di sé deriva dal resto: altrimenti esisterebbe altro di più sostanziale da cui avrebbe origine. Cosa sia di preciso però questa sostanza non era chiaro in un'epoca di tensioni e guerre di religione appena concluse, e la tesi che identificava Dio con la Natura di tutte le cose, ossia il Panteismo, rendendo il concetto del primo sin troppo impersonale, sapeva di escamotage per nascondere l'ateismo dell'autore. Spinoza infatti fu espulso dalla propria comunità ebraica proprio per ateismo, ed era fortunato a vivere in Olanda, in cui l'autorità civile era del tutto indifferente alle problematiche di fede, altrimenti avrebbe fatto una brutta fine.
Dopo di lui, ad affrontare il tema fu un tedesco. Gottfried Wilhelm Leibniz, una personalità straordinaria, un vero genio universale ingiustamente declassato alle poche pagine di filosofia e matematica ma che portò le sue facoltà intellettuali a sondare i limiti del sapere del suo tempo, in alcuni casi spingendoli oltre. Scopritore del calcolo differenziale, diplomatico alla corte del Re Sole, linguista, teologo e giurista, affrontò ogni problema con l'ingenuità di un bambino e la dedizione di un fanatico, sino alla desiderata soluzione. Purtroppo non ottenne sempre il giusto riconoscimento per le proprie conquiste, anche perché altri, come Newton, sapevano arruffianarsi meglio i circoli che contavano, e pagò sempre il prezzo del proprio disinteresse e della propria buonafede, venendo anche deriso indegnamente da un Voltaire che, intellettualmente, non gli arrivava al ginocchio.
Su Dio scrisse pagine eccezionali, come su qualsiasi altro argomento. Lo affrontò dal punto di vista puramente logico (e qui non mi addentro, non avendo studiato quel punto), ma nei “Saggi di Teodicea” espose un intero sistema ad esplicazione del mondo come regno dell'etica, della libertà umana e della presenza di Dio come architetto e giustificazione di tutto, di cui non ho letto ancora nulla di simile per coerenza, semplicità, erudizione e completezza. Dall'esistenza di un Cosmo ordinato da leggi perfette e razionali dedusse l'esistenza di Dio quale causa similmente onnisciente e razionale. Dalla finalità di tutto il mondo fisico e delle azioni umane, la sua esistenza come origine degli stessi concetti di libertà e Bene. Dall'infinità del Cosmo e della stessa Ragione, la sua natura infinita. Ho letto due volte quel testo, e lo rileggerei la terza senza trovarvi nulla di stucchevole, noioso o fuori posto. Leibniz chiude davvero degnamente la più che bimillenaria ricerca delle prove dell'esistenza di Dio. E a poco valse un Kant che criticò sia le sue che le precedenti date. L'impostazione kantiana, quella che si barrica dietro ai limiti della ragione umana, senza dedurre dallo stesso principio di coscienza le prospettive infinite di conoscenza metafisica, fu adeguatamente criticata da Schelling ed Hegel. E la stessa prova data da Hegel non è se non un'estensione di quella ontologica. Dice infatti questo grande, che non solo dal concetto di Dio deriva la prova della sua esistenza, ma dallo stesso Concetto inteso in senso assoluto deriva l'esistenza di tutto ciò che esiste. Ciascun concetto chiama a sé l'esistenza del proprio oggetto, e il Concetto assoluto esige che esista l'Assoluto di cui è espressione intellettuale. A questo Hegel arriva dopo le vette (a volte vertiginose) di speculazione del suo capolavoro, la “Scienza della Logica”, ma lo fa con noncuranza, quasi con sufficienza, come se ormai non fosse più il tempo di occuparsi del tema. E in effetti fu l'ultima volta che si tentò, con una certa serietà, di approcciarsi a Dio come al centro di tutto lo sforzo intellettuale umano. Successivamente se ne parlò ancora, ma livello puramente accademico, quasi come un gioco, più per far mostra di erudizione o di capacità logiche che come qualcosa da cui dipendeva la vita e la ragion d'essere umane.
E qui io mi fermo, trovando che a Dio bisogni approcciarsi solo col rispetto, la devozione e l'umiltà che il massimo dei temi meriti.
E spero così facendo di aver celebrato degnamente il giorno della natività del Signore.
Auguri a chi legge di un buono e sereno Natale.