Recentemente, Franco Marino ha parlato della valenza educativa delle favole di Esopo, facendomi pensare, per estensione, al valore dei racconti di fantasia, nella storia della letteratura, proprio come mezzo per far passare una lettura in filigrana della società e degli uomini, a volte anche tramite una feroce satira. In antichità il successo di Esopo fu tale che, a Roma, un certo Fedro lo tradusse in latino aggiungendovi di proprio. In tutte le tradizioni popolari che conosco, dalla Finlandia alle fiabe africane, vi sono personaggi animali che parlano e agiscono come esseri umani, e che degli esseri umani incarnano vizi, virtù e psicologia. Durante il Medioevo non erano rari i racconti in cui orsi, volpi, leoni e altri animali facevano le veci di re, contadini, preti e briganti. E questo per due motivi: col cammuffamento bestiale si potevano evitare polemiche e la messa all'indice dello scritto, sottraendolo alla stretta attualità, e, per lo stesso motivo, renderla un'opera atemporale, valida sempre e sempre interessante. Ma quella di antropomorfizzare le bestie non era l'unico espediente usato per evitare strali censori o inquisitori. Con le grandi scoperte geografiche divenne usuale anche inventarsi una nuova terra scoperta per caso dal solito marinaio naufrago, in cui porre un qualche popolo dalle usanze bizzarre e inconsuete che potevano o adombrare quelle patrie, per metterle alla berlina, o addirittura servire da esempio per come emendarle. L'”Utopia” di Tommaso Moro, la “Città del Sole” di Campanella e la “Nuova Atlantide” di Bacone appartengono a quest'ultima categoria. Ma qui siamo già nell'espediente ad uso di un ideale filosofico, mentre per la satira sociale bisognerà aspettare sino a La Fontaine. Con costui il genere favolistico torna in gran spolvero. Come già Fedro, il francese tradusse Esopo, fra l'altro con un'eleganza e un'abilità nel metterlo in versi che per secoli, e sino ad oggi, le sue “Favole” vengono considerate un capolavoro e un classico della lingua e letteratura francese. Ma La Fontaine era anche un cortigiano al seguito del Re Sole, e non resistette alla tentazione di metterci del suo. Accanto alle traduzioni, si ingegnò a creare, calandole nella stessa atmosfera atemporale fatta di animali o anche di uomini, generici folli, saggi, contadini e borghesi, storie che celano, ma neppure troppo, il teatro sociale della sua epoca, additando al ridicolo o al disprezzo la stupidità, l'arroganza, la presunzione e altri vizi ben evidenti nell'ambiente concreto che lo circondava. Ed è un peccato che queste favole, più “contemporanee”, sfuggano generalmente alle edizioni nostrane, che ne hanno fatto quasi solo un autore per bambini – cosa che La Fontaine, come Esopo, non era affatto: altrimenti, non ne avrebbe dedicate un buon numero a personaggi del calibro del principe di Conti. Ne cito solo una, che mi è piaciuta molto, e già dal titolo, “L'Educazione”, promette di contenere un messaggio tutt'altro che infantile.
È la storia di due cani, fratelli, stessa razza ma diverse abitudini. Uno, provetto cacciatore, frequenta i boschi, l'altro, invece... le cucine. Col tempo il primo si illustra per le imprese venatorie, mentre il fratello si guadagna ben altra fama: quella di poltrone. A questo punto vengono distinti anche per il nome che viene loro dato, dato che il primo è chiamato Cesare, e il secondo, meno gloriosamente, Laridon. Chiaramente per il primo viene scelta con cura una compagna, affinché
ne fit en ses enfant degenerer son sang
(“il suo sangue non degenerasse nei figli”)
Laridon, manco a dirlo, si butta sulla prima che passa (e sulle successive, ça va sans dire). La morale sintetizza bene tutta la storia:
Le peu de soin, le temps, tout fait qu'on dégénère.
Faute de cultiver la nature et ses dons,
(“Non si seguono sempre le orme dei padri:
L'incuria, il tempo, tutto contribuisce alla degenerazione.
Oh, quanti Cesari si muteranno in Laridoni!”)
Si può pensare che La Fontaine avesse in mente il calo di talento nell'élite francese dal tempo di Richelieu a quello del Re Sole, e volesse evitare una critica diretta: di certo è quel che accadde anche in seguito, quando le cariche pubbliche, sia civili che militari, presero a venir distribuite quasi esclusivamente a rampolli di famiglie aristocratiche, i quali, sottratti a qualsiasi rischio e competizione, non si sforzavano certo di eccellere; ma il messaggio di questo, e di altri racconti usciti dalla penna del francese, è senza tempo, ed è facilmente adattabile ad ogni epoca (e la nostra non fa eccezione).
Nel Settecento, secolo dell'Illuminismo, della favola si appropriano spesso filosofi e polemisti da salotto per dare un tocco leggero, adatto alla conversazione brillante (e nel contempo meno suscettibile di attirare le attenzioni della censura) e alle tesi di moda, o a quelle che si premeva perché lo divenissero. Ho scritto qui, molto tempo fa, della “Favola delle api” di Bernard de Mandeville, con cui lo scrittore inglese si illustrò per essere stato il primo a sdoganare l'idea che il consumismo sia una gran bella cosa, e persino più utile, alla società, dei costumi frugali. E il ben più noto Voltaire fece largo uso di ambientazioni orientali, da Mille e Una Notte, per alcuni dei suoi celebri racconti e romanzi filosofici, in cui, sotto ad anagrammi assai poco criptici e travestimenti esotici era evidente l'intento di bersagliare il clero e le credenze religiose europee. A volte, poi, il gusto per l'ambientazione fiabesca prendeva la mano, e, in quegli stessi anni, autori più o meno noti sfornarono opere libertine (quando non chiaramente pornografiche) in cui l'intento satirico-sociale passava in secondo piano (ma non sempre: e a volte il risultato erano opere sì scabrose, ma comunque intelligenti e godibilissime come “I gioielli indiscreti” di Diderot).
L'Ottocento romantico fu il secolo della prosa, specie romanzesca, ma anche di un rinnovato interesse per le tradizioni popolari, e quindi per il mondo fiabesco e l'universo infantile. Inevitabile che anche la fiaba finisse, in mano ad autori di talento, per mettere in scena concetti che di infantile avevano assai poco. E fu allora che il genere produsse dei capolavori eterni, ma spesso, per colpa di scelte editoriali successive, equivocati a lungo come libri “per bambini”. Chi sospetterebbe mai, oggi, che “Il mago di Oz” di L.F. Baum, con gli indimenticabili personaggi di Dorothy, l'Uomo di Latta, il Leone Fifone e lo Spaventapasseri, nasconda una satira delle elezioni presidenziali americane del 1896? Eppure ho dovuto aspettare agli anni dell'università per scoprire, su di un manuale di economia politica, che tutto il batti e ribatti su oro e argento fosse un riferimento al dibattito sul bimetallismo, che teneva banco durante quella campagna elettorale (la spuntò il monometallismo aureo, per la cronaca). E Krylov, in Russia, replicò ad arte l'operazione esopica già riuscita a La Fontaine.
E però fu italiano il capolavoro di quell'epoca. Possiamo dire con orgoglio che il nostro “Pinocchio” fu probabilmente una delle opere più complesse, ricche di citazioni, metafore, e livelli di lettura che siano state prodotte nelle letterature europee di quel tempo. Carlo Collodi, infatti, lungi dall'essere uno scrittore per bambini, era un pubblicista con notevoli interessi letterari (produsse anche buone piéces per il teatro), e ridurlo all'autore di un solo libro, e pure “per l'infanzia”, significa fare un doppio, crudelissimo torto: a lui, e al libro. Se c'è, infatti, un'opera capace di raccontare, più e meglio di un tomo di storia o di sociologia, che razza di baraccone eterogeneo e in mano al malaffare fosse l'Italia post-unitaria, è proprio “Pinocchio”. C'è una manciata di righe, a metà del capitolo 18, semplicemente illuminanti. Il burattino arriva in una città, che già dal nome, “Acchiappa-citrulli”, fa capire tutto. È abitata da “cani spelacchiati, che sbadigliavano dall'appetito, di pecore tosate che tremavano dal freddo, di galline rimaste senza cresta e senza bargigli, che chiedevano l'elemosina di un chicco di granturco, di grosse farfalle che non potevano più volare, perché avevano venduto le loro bellissime ali colorite, di pavoni tutti scodati, che si vergognavano a farsi vedere, e di fagiani che zampettavano cheti cheti, rimpiangendo le loro scintillanti penne d’oro e d’argento, oramai perdute per sempre.
In mezzo a questa folla di accattoni e di poveri vergognosi, passavano di tanto in tanto alcune carrozze signorili con dentro o qualche volpe, o qualche gazza ladra, o qualche uccellaccio di rapina.” E per soprammercato, ad amministrare la giustizia ci sono giudici-gorilla che mettono al gabbio gli innocenti e assolvono seduta stante i delinquenti. Metafore piuttosto scoperte, direi. Altre, appena meno scoperte, sono altrettanto gustose, come l'Albero degli Zecchini d'Oro col miraggio del quale il Gatto e la Volpe derubano Pinocchio dei suoi sudati risparmi, e che ritengo forse la rappresentazione più fedele, e artisticamente più pregevole, delle tante trappole finanziarie con cui, a ruota, banche, società specializzate in speculazioni e piattaforme online fanno regolarmente strage nelle tasche degli sprovveduti ansiosi di facili guadagni.
Potrei continuare, ma l'intero libro è un florilegio di acute osservazioni e dissacranti rappresentazioni di una durissima realtà, a malapena velata dall'elemento fiabesco.
Il secolo successivo, malato di pedanteria ideologica (in gran parte eredità di quel materialismo storico di stampo marxista che infettò anche chi non lo seguiva), vide la separazione netta fra libri “seri” e “per bambini”. Mentre prima i bambini che desideravano leggere si eran fatti le ossa senza problemi indifferentemente su Salgari e Balzac, Melville e Verne, Defoe e Dumas, con l'epoca del progresso accelerato anche in pedagogia si scoprì che c'erano libri per “i più piccoli”, e altri che era meglio non far loro leggere. Anzi, in un anticipo di delirio da cancel culture, anche opere che erano state fruibili per secoli vennero appositamente rivedute e corrette per non turbare le giovani menti. Così le fiabe di Esopo e La Fontaine vennero ritradotte in selezioni sempre più striminzite, in cui le vicende animalesche divenivano sempre più asettiche e remote, come un cartone della Disney, mentre al finale di Cappuccetto Rosso, che Perrault aveva lasciato nella pancia del lupo in compagnia della nonna, era aggiunta un'appendice, in cui un cacciatore giunge provvidenzialmente a “liberare” le due donne, come se fosse più adatto (ed educativo) far credere ad un bambino di poter uscire intatti dallo stomaco di un predatore dopo essere stati masticati e ingoiati, piuttosto che instillare una sana diffidenza verso i consigli di suadenti sconosciuti.
E oggi? Oggi fa ancor meno conto pensare di trovare in letteratura qualcosa di simile a quanto uscito dall'ingegno di un Esopo, un La Fontaine o un Collodi. Perché per fare qualcosa di simile serve talento, fantasia, e libertà interiore, oltre che rispetto per la disciplina e un certo ordine morale. E nell'epoca della dittatura woke e della cancel culture, in cui vige il taglio, l'occultamento e la riscrittura politicamente corretta di qualunque cosa possa dar fastidio a chiunque, l'autocensura vigliacca e il servilismo intellettuale è l'abito culturale di chi ancora arriva a pubblicare qualcosa. Sugli scaffali delle librerie, le ultime volte che ci ho dato uno sguardo, erano disponibili storie edificanti di paradisi multirazziali e unioni gay da cui nascevano, contrariamente ad ogni legge di natura, felici pargoli. E parlo di edizioni illustrate, esplicitamente rivolte al pubblico dei più piccoli. Così da crescere giovani adulti incapaci di percepire il pericolo di un approccio pedofilo ma che credano verosimile che due coccodrilli maschi possano generare un pulcino. Chiaro che favole come la citata “L'Educazione”, che parla di degenerazione, farebbero strillare all'eugenetica razzista, e nessuno si sognerebbe di includerle in un'edizione moderna.
È la storia di due cani, fratelli, stessa razza ma diverse abitudini. Uno, provetto cacciatore, frequenta i boschi, l'altro, invece... le cucine. Col tempo il primo si illustra per le imprese venatorie, mentre il fratello si guadagna ben altra fama: quella di poltrone. A questo punto vengono distinti anche per il nome che viene loro dato, dato che il primo è chiamato Cesare, e il secondo, meno gloriosamente, Laridon. Chiaramente per il primo viene scelta con cura una compagna, affinché
(“il suo sangue non degenerasse nei figli”)
Laridon, manco a dirlo, si butta sulla prima che passa (e sulle successive, ça va sans dire). La morale sintetizza bene tutta la storia:
On ne suit pas toujours ses aieux, ni son pére:
Le peu de soin, le temps, tout fait qu'on dégénère.
Faute de cultiver la nature et ses dons,
O combien de Césars deviendront des Laridons!
(“Non si seguono sempre le orme dei padri:
L'incuria, il tempo, tutto contribuisce alla degenerazione.
Oh, quanti Cesari si muteranno in Laridoni!”)
Si può pensare che La Fontaine avesse in mente il calo di talento nell'élite francese dal tempo di Richelieu a quello del Re Sole, e volesse evitare una critica diretta: di certo è quel che accadde anche in seguito, quando le cariche pubbliche, sia civili che militari, presero a venir distribuite quasi esclusivamente a rampolli di famiglie aristocratiche, i quali, sottratti a qualsiasi rischio e competizione, non si sforzavano certo di eccellere; ma il messaggio di questo, e di altri racconti usciti dalla penna del francese, è senza tempo, ed è facilmente adattabile ad ogni epoca (e la nostra non fa eccezione).
Nel Settecento, secolo dell'Illuminismo, della favola si appropriano spesso filosofi e polemisti da salotto per dare un tocco leggero, adatto alla conversazione brillante (e nel contempo meno suscettibile di attirare le attenzioni della censura) e alle tesi di moda, o a quelle che si premeva perché lo divenissero. Ho scritto qui, molto tempo fa, della “Favola delle api” di Bernard de Mandeville, con cui lo scrittore inglese si illustrò per essere stato il primo a sdoganare l'idea che il consumismo sia una gran bella cosa, e persino più utile, alla società, dei costumi frugali. E il ben più noto Voltaire fece largo uso di ambientazioni orientali, da Mille e Una Notte, per alcuni dei suoi celebri racconti e romanzi filosofici, in cui, sotto ad anagrammi assai poco criptici e travestimenti esotici era evidente l'intento di bersagliare il clero e le credenze religiose europee. A volte, poi, il gusto per l'ambientazione fiabesca prendeva la mano, e, in quegli stessi anni, autori più o meno noti sfornarono opere libertine (quando non chiaramente pornografiche) in cui l'intento satirico-sociale passava in secondo piano (ma non sempre: e a volte il risultato erano opere sì scabrose, ma comunque intelligenti e godibilissime come “I gioielli indiscreti” di Diderot).
L'Ottocento romantico fu il secolo della prosa, specie romanzesca, ma anche di un rinnovato interesse per le tradizioni popolari, e quindi per il mondo fiabesco e l'universo infantile. Inevitabile che anche la fiaba finisse, in mano ad autori di talento, per mettere in scena concetti che di infantile avevano assai poco. E fu allora che il genere produsse dei capolavori eterni, ma spesso, per colpa di scelte editoriali successive, equivocati a lungo come libri “per bambini”. Chi sospetterebbe mai, oggi, che “Il mago di Oz” di L.F. Baum, con gli indimenticabili personaggi di Dorothy, l'Uomo di Latta, il Leone Fifone e lo Spaventapasseri, nasconda una satira delle elezioni presidenziali americane del 1896? Eppure ho dovuto aspettare agli anni dell'università per scoprire, su di un manuale di economia politica, che tutto il batti e ribatti su oro e argento fosse un riferimento al dibattito sul bimetallismo, che teneva banco durante quella campagna elettorale (la spuntò il monometallismo aureo, per la cronaca). E Krylov, in Russia, replicò ad arte l'operazione esopica già riuscita a La Fontaine.
E però fu italiano il capolavoro di quell'epoca. Possiamo dire con orgoglio che il nostro “Pinocchio” fu probabilmente una delle opere più complesse, ricche di citazioni, metafore, e livelli di lettura che siano state prodotte nelle letterature europee di quel tempo. Carlo Collodi, infatti, lungi dall'essere uno scrittore per bambini, era un pubblicista con notevoli interessi letterari (produsse anche buone piéces per il teatro), e ridurlo all'autore di un solo libro, e pure “per l'infanzia”, significa fare un doppio, crudelissimo torto: a lui, e al libro. Se c'è, infatti, un'opera capace di raccontare, più e meglio di un tomo di storia o di sociologia, che razza di baraccone eterogeneo e in mano al malaffare fosse l'Italia post-unitaria, è proprio “Pinocchio”. C'è una manciata di righe, a metà del capitolo 18, semplicemente illuminanti. Il burattino arriva in una città, che già dal nome, “Acchiappa-citrulli”, fa capire tutto. È abitata da “cani spelacchiati, che sbadigliavano dall'appetito, di pecore tosate che tremavano dal freddo, di galline rimaste senza cresta e senza bargigli, che chiedevano l'elemosina di un chicco di granturco, di grosse farfalle che non potevano più volare, perché avevano venduto le loro bellissime ali colorite, di pavoni tutti scodati, che si vergognavano a farsi vedere, e di fagiani che zampettavano cheti cheti, rimpiangendo le loro scintillanti penne d’oro e d’argento, oramai perdute per sempre.
In mezzo a questa folla di accattoni e di poveri vergognosi, passavano di tanto in tanto alcune carrozze signorili con dentro o qualche volpe, o qualche gazza ladra, o qualche uccellaccio di rapina.” E per soprammercato, ad amministrare la giustizia ci sono giudici-gorilla che mettono al gabbio gli innocenti e assolvono seduta stante i delinquenti. Metafore piuttosto scoperte, direi. Altre, appena meno scoperte, sono altrettanto gustose, come l'Albero degli Zecchini d'Oro col miraggio del quale il Gatto e la Volpe derubano Pinocchio dei suoi sudati risparmi, e che ritengo forse la rappresentazione più fedele, e artisticamente più pregevole, delle tante trappole finanziarie con cui, a ruota, banche, società specializzate in speculazioni e piattaforme online fanno regolarmente strage nelle tasche degli sprovveduti ansiosi di facili guadagni.
Potrei continuare, ma l'intero libro è un florilegio di acute osservazioni e dissacranti rappresentazioni di una durissima realtà, a malapena velata dall'elemento fiabesco.
Il secolo successivo, malato di pedanteria ideologica (in gran parte eredità di quel materialismo storico di stampo marxista che infettò anche chi non lo seguiva), vide la separazione netta fra libri “seri” e “per bambini”. Mentre prima i bambini che desideravano leggere si eran fatti le ossa senza problemi indifferentemente su Salgari e Balzac, Melville e Verne, Defoe e Dumas, con l'epoca del progresso accelerato anche in pedagogia si scoprì che c'erano libri per “i più piccoli”, e altri che era meglio non far loro leggere. Anzi, in un anticipo di delirio da cancel culture, anche opere che erano state fruibili per secoli vennero appositamente rivedute e corrette per non turbare le giovani menti. Così le fiabe di Esopo e La Fontaine vennero ritradotte in selezioni sempre più striminzite, in cui le vicende animalesche divenivano sempre più asettiche e remote, come un cartone della Disney, mentre al finale di Cappuccetto Rosso, che Perrault aveva lasciato nella pancia del lupo in compagnia della nonna, era aggiunta un'appendice, in cui un cacciatore giunge provvidenzialmente a “liberare” le due donne, come se fosse più adatto (ed educativo) far credere ad un bambino di poter uscire intatti dallo stomaco di un predatore dopo essere stati masticati e ingoiati, piuttosto che instillare una sana diffidenza verso i consigli di suadenti sconosciuti.
E oggi? Oggi fa ancor meno conto pensare di trovare in letteratura qualcosa di simile a quanto uscito dall'ingegno di un Esopo, un La Fontaine o un Collodi. Perché per fare qualcosa di simile serve talento, fantasia, e libertà interiore, oltre che rispetto per la disciplina e un certo ordine morale. E nell'epoca della dittatura woke e della cancel culture, in cui vige il taglio, l'occultamento e la riscrittura politicamente corretta di qualunque cosa possa dar fastidio a chiunque, l'autocensura vigliacca e il servilismo intellettuale è l'abito culturale di chi ancora arriva a pubblicare qualcosa. Sugli scaffali delle librerie, le ultime volte che ci ho dato uno sguardo, erano disponibili storie edificanti di paradisi multirazziali e unioni gay da cui nascevano, contrariamente ad ogni legge di natura, felici pargoli. E parlo di edizioni illustrate, esplicitamente rivolte al pubblico dei più piccoli. Così da crescere giovani adulti incapaci di percepire il pericolo di un approccio pedofilo ma che credano verosimile che due coccodrilli maschi possano generare un pulcino. Chiaro che favole come la citata “L'Educazione”, che parla di degenerazione, farebbero strillare all'eugenetica razzista, e nessuno si sognerebbe di includerle in un'edizione moderna.
Confido che quest'epoca buia arrivi alla fine, e dopo, come sempre, si risvegli anche l'ingegno. Quello capace di presentare la Verità anche ammantandola delle vesti lievi e multicolori della fiaba.