Si resta semplicemente sconcertati di fronte all'esplosione di violenza scatenata da Israele praticamente in ogni direzione. Un delirio di furia distruttiva che ormai le flebili giustificazioni dei portavoce ufficiali non cercano nemmeno seriamente di coprire. Eppure, da lettore di Kissinger, insisto a non catalogare il tutto sotto all'interpretazione di comodo dell'improvvisa pazzia di qualcuno. Dire che Netanyahu è pazzo è ripetere lo stesso gioco già abusato dai soliti padroni della propaganda: Saddam era pazzo, Hitler era pazzo, Napoleone era pazzo, Putin è pazzo: tutti pazzi quando non piacciono più. Così il caso è chiuso facile facile e non se ne discute. No, Netanhyahu non è più pazzo di quanto lo fossero Napoleone e Hitler quando invasero la Russia, né tantomeno il povero Saddam quando si fece fregare sul Kuwait dagli “amici” americani tramite l'ambasciatrice a Baghdad. Ogni volta che un capo di Stato prende una decisione seria ed irrevocabile, e massimamente quando si tratta di iniziare una guerra, lo fa dopo serie considerazioni, lunghe discussioni col proprio entourage, e solidi calcoli. Che poi il Fato o il Caso rimescolino le carte, e tutto vada in malora, è un altro paio di maniche, ma non tiriamo fuori la malattia mentale: quando uno è davvero matto, non gli si fa invadere la Russia (o l'Ucraina): semplicemente, lo si mette da parte, e il gioco è continuato da chi ha ancora il controllo dei propri pensieri. Quindi cerchiamo una ragion d'essere di tanto sfacelo. Ché non è facile.

Nel momento in cui, infatti, è in corso da ormai due anni e mezzo un conflitto pesante e a rischio allargamento continentale in Ucraina, da persone sane di mente ci si aspetterebbero sforzi per disinnescarlo, circoscriverlo, e magari sospenderlo. Quel che fa Israele dopo dieci mesi di tempesta di fuoco su Gaza sembra invece un tentativo di far l'esatto contrario: come se, non contenti di quarantamila morti offerti in olocausto dei mille e settecento caduti ebrei dell'anno passato, ora lo Stato Ebraico, andando a colpire i principali alleati di Russia e Iran nella regione, e, in un paio di casi, direttamente l'Iran, volesse provocare una reazione che infiammasse anche il Medio Oriente. Ci si chiede, al netto dell'orrore per le montagne di cadaveri e la perfidia di metodi puramente terroristici (la trovata dei cercapersone è da serial killer), il perché di tutto questo. E un perché, molto più solido di quanto non sembri, c'è, contateci.

È scoppiata una guerra mondiale per l'attentato di Sarajevo, e un'altra per la cittadina di Danzica, sul Baltico: così almeno pareva ai contemporanei che leggevano i giornali. Sappiamo tutti bene, invece, che dietro le quinte c'erano ben altri interessi e altri motivi a spingere per un conflitto generale. Anche ora è così. E, in assenza di documenti che potrebbero venir desecretati fra anni o decenni, non resta che tentare di ragionare per esclusione, secondo logica.

Su questa stessa pagina, uno dei nostri amici, Caligorante, ha ipotizzato (fra il serio e il faceto?), che l'inerzia di Russia, Cina e Iran significasse una tacita accettazione di una Grande Israele. Ho escluso la cosa per ragioni che ho poi ulteriormente approfondito, e sintetizzo così.

È improbabile che la Russia accetti di lasciare ad Israele (e quindi agli USA) l'egemonia su di un'area strategica come il Medio Oriente. L'unico scambio possibile per decisioni di tal magnitudo sarebbe l'abbandono dell'Ucraina a sé stessa, ma non basterebbe a coprire la perdita di un teatro tanto importante, né ad accettare lo smantellamento di tutta la politica russa nella regione, incluse le pazientemente negoziate alleanze e accordi con Iran e Arabia Saudita, nonché l'abbandono del regime di Assad dopo aver combattuto una guerra guerreggiata per salvarlo dall'Isis (altra creatura made in USA). Per un accordo del genere Washington dovrebbe accettare di abbandonare anche i Paesi Baltici, la Polonia e, magari, l'area balcanica tutta. Perdendo la faccia in Europa e nel mondo.

Per l'Iran sarebbe ancora più difficile. Oltre a ragioni d'ordine geopolitico, ci sarebbe la stessa componente esistenziale del regime di Tehran: esso nasce in funzione antisionista. Se rinuncia ad opporsi ad Israele, perderebbe la sua principale ragion d'essere. E, in un momento in cui l'ordine interno in Iran è minacciato (da anni) dall'ennesima “primavera” colorata finanziata dai soliti “filantropi” della finanza internazionale targata Soros&Co., una cosciente decisione di disimpegno, ora, equivarrebbe ad una scelta di eutanasia.

La Cina, infine. L'attore forse più lontano, ma non certo il più disinteressato al teatro mediorientale. Certo, parrebbe che ai cinesi importi più che altro di ricevere petrolio per le proprie industrie, e per il resto si ammazzino fra di loro, ma sarebbe semplicistico concludere che ogni risultato gli sarebbe indifferente. Intanto perché anche la Cina fa parte dei BRICS, quel fronte globale sorto in reazione alla (pre)potenza statunitense degli anni '90, e se ha partecipato ad un progetto di così lungo respiro non è per abbandonarlo alla leggera. Ai cinesi conviene un'Arabia Saudita che limiti o ampli l'estrazione di greggio in armonia con le decisioni collegiali dei suoi nuovi alleati, o, come in passato, come un'arma al servizio del Dipartimento di Stato americano? Certo, ogni cosa ha il suo prezzo, e se gli USA avessero offerto, come merce di scambio, Taiwan, abbandonando l'isola in contropartita di un disimpegno verso Israele, la cosa avrebbe un senso per Pechino. Solo che, per raccogliere i frutti di un'offerta così interessante, i cinesi dovrebbero lanciare un'invasione di Taiwan al più presto: a novembre si vota e una nuova amministrazione potrebbe disconoscere gli impegni di quella uscente (come accaduto più volte). Senza la spalla cinese, comunque, Russia e Iran potrebbero non sentirsi abbastanza forti per opporsi ad un intervento israeliano su larga scala anche contro i loro alleati principali, Siria e Libano.

La chiave di lettura che, scartato l'improbabile, mi rimane, è proprio quella delle elezioni americane. Si vota fra poco più di un mese. La cordata di multinazionali che controlla la Casa Bianca sta dando segni di panico. Prima si sono accorti di avere, a quattro mesi dalle elezioni, un candidato completamente andato di testa e impresentabile, e hanno dovuto sostituirlo in fretta e furia (cosa che io avevo pronosticato, su questa stessa pagina, un anno fa, solo che supponevo quella gente abbastanza acuta da farlo almeno nell'estate 2023, per non ritrovarsi, come ora, a doversela giocare in pieno tempo di recupero). La scelta della Harris, una povera scema, non deve aver tranquillizzato nessuno, tant'è che hanno cercato di far fuori Trump ben due volte. Fallendo però miseramente anche in questa mossa disperata. Ora si sentono con le spalle al muro: se Trump va alla Casa Bianca, con tutti i difetti che può avere, è comunque uno che non possono manovrare a piacimento. Molto denaro, molti interessi andrebbero in fumo e molte teste cadrebbero. Per evitarlo, restano solo poche mosse, e tutte estreme. L'amministrazione Biden non può portare grandi risultati in politica economica in un mese. Resta lo scacchiere internazionale. In Ucraina è ormai assodato che una vittoria, non dico schiacciante ma anche solo ai punti, con la Russia, è fuori da ogni prospettiva. Lentamente ma inesorabilmente il rullo compressore russo avanza in tutto il fronte orientale. Il diversivo nell'oblast' di Kursk è scaduto velocemente a quel che era: un diversivo, appunto, sbandierato come “conquista” o addirittura “invasione” della Russia, pretesa risibile dato che fatta con un migliaio di mercenari stranieri i quali, dopo un mese, non solo non sono riusciti a distrarre forze dal Donetsk, ma ora che sono arrivate sul posto riserve fresche da Mosca stanno prendendo sonori calci nel sedere e rischiano pure l'accerchiamento. Il fallimento totale della politica di supporto a Kiev è sotto agli occhi di tutti quelli che contano (escludo il povero pubblico che si deve sorbire i pagliacceschi servizi di improbabili inviati di guerra con la faccia da impiegato, che da una piazza di Kiev o di Odessa leggono le veline di Zelensky prima di tornarsene in albergo). Miliardi di euro e dollari si sono convertiti in armi rivendute al mercato nero (alcune poi usate addirittura da Hamas contro Israele... giustizia poetica, verrebbe da dire) e viavai di ucraini spuntati dal nulla su Bentley e Rolls Royce nuove di zecca che acquistavano ville da milioni alle Canarie e in altre amene località. Cambierebbe qualcosa se gli eserciti NATO intervenissero direttamente, ma questo è semplicemente improponibile: abbiamo allevato società imbelli e non ci sarebbe verso di mandare qualche milione di ragazzi educati a “Grande Fratello” e Onlyfans a morire da eroi per la gloria di Zelensky. L'unica sarebbe costringere la Russia e l'Iran a reagire non contro la NATO, ma contro Israele, in una riedizione 2.0 di Pearl Harbour, facendo passare l'aggredito per aggressore e strappando la giustificazione all'intervento in una guerra generale, magari con l'uso di atomiche. Oggi come allora, infatti, il problema delle società anglosassoni è quello di andare alla guerra trascinandoci l'opinione pubblica, che è poi quella che farà da carne da cannone, perché senza la superiorità numerica anche quando hanno quella tecnica e materiale possono perdere miseramente (vedi Vietnam). Quindi, tutta l'attuale apocalisse scatenata sul Libano e, a breve, se non dovesse bastare, anche sulla Siria, ha motivi del tutto interni: galvanizzare l'opinione pubblica, rovesciare i sondaggi che, fuori da quelli addomesticati di CNN, ABC e altre reti amiche, mostrano una chiara sconfitta per i dem, e, se proprio dovesse vincere Trump, lasciargli sul groppone una guerra da cui non riuscirà a districarsi per anni, condannando al fallimento la politica di isolazionismo che è la sua bandiera. L'isolazionismo trumpiano, infatti, rappresenterebbe una catastrofe finanziaria non per gli americani, come vorrebbero far credere i fogliacci di regime, ma per le multinazionali delle armi e del petrolio che sulle guerre dell'epoca Bush e Obama hanno goduto di introiti stratosferici e consolidato la loro influenza sulla politica USA. Trump, per loro, è come il demonio per un cristiano medievale, a prescindere da quel che potrebbe poi concretamente fare, visti i limiti materiali e formali che una presidenza ha in America. Non per niente lo hanno dipinto come un tiranno e un dittatore sia durante che dopo la sua amministrazione, creando un clima d'odio e di violenza che ha portato (scientemente) ai tentativi di ucciderlo. Ma non dimentichiamo anche altri fatti, passati praticamente in sordina, e di altrettanta gravità. Come quando una “gola profonda” confessò alla stampa di area democratica l'esistenza di un patto, fra il personale della Casa Bianca, per ostacolare la messa in opera di ogni provvedimento uscito dall'Ufficio Ovale. Un'operazione che, se fosse stata manifestata durante la presidenza Obama, avrebbe provocato un'ondata di indignazione transnazionale e un'inchiesta per alto tradimento con relativo rotolar di teste. Mentre, per Trump, né la stampa né la magistratura parvero commuoversi. E poi ci indigniamo per le toghe italiane...

Nel frattempo, Netanyahu ha annunciato l'allargamento delle operazioni in Libano ad un'offensiva di terra (leggi: invasione), mentre il Cremlino ha annunciato la modifica della propria dottrina nucleare approvando l'uso dell'atomica in caso di bombardamenti del territorio russo anche col solo concorso indiretto di paesi Nato (che è esattamente quel che si sta cercando di far fare a Kiev). Si spera sia solo un avvertimento, anche se stavolta non si tratta di un Medveved o di un Peskov, ma del Presidente in persona, cosa che da' al messaggio una sostanza inedita. L'unica speranza è che Putin mantenga i nervi saldi, come ha sempre fatto, perché la Russia, a ragionare come ragionano a quei livelli, dall'apertura di un fronte sud avrebbe più da perdere che da guadagnare: si logorerebbe ulteriormente, dividendo forze e sforzi strategici, e rischierebbe un confronto nucleare che toccherebbe direttamente il proprio territorio europeo, che poi è quello principale, in cui sono concentrate la maggioranza delle sue infrastrutture e della popolazione. Non può ritirarsi interamente dallo scacchiere mediorientale, e per lanciare un bel messaggio ad Israele sarebbe interessante fornire all'Iran qualche missile a lungo raggio che colpisca Tel Aviv o qualche altro obbiettivo di forte impatto in Israele. Ma a quel punto l'intervento diretto USA sarebbe quasi automatico, divenendo la pressione delle lobby ebraiche d'oltreoceano insostenibile. Quindi, cosa aspettarsi dai prossimi giorni? Un intensificarsi degli attacchi israeliani è già nei fatti. Il Libano verrà ridotto poco meglio che Gaza e ci sono già un milione di sfollati. La Siria si sta relativamente salvando perché vi sono sul terreno e militari e basi navali russe, che, colpite, equivarrebbero ad una dichiarazione di guerra (mettendo Israele nei panni dell'aggressore). Sperare in una tregua è puerile, essendo chiare le intenzioni dello Stato Ebraico. Azioni militari dirette in qualsiasi punto della regione rischierebbero comunque di precipitare la situazione. Se potessi permettermi di azzardare un'ipotesi, fossi nei panni dei russi cercherei di isolare Israele innanzitutto per via diplomatica, magari firmando patti con Egitto e Arabia Saudita, e inducendo qualcuno degli stati della regione a denunciare i relativi trattati di pace con Israele, cosa che rimetterebbe quest'ultimo in una situazione equivalente a quella prima degli accordi di Camp David, indietro di quarantacinque anni. Naturalmente bisognerebbe offrire alle controparti qualcosa di abbastanza allettante, e qui starebbe alla perizia negoziale di Lavrov trovare la quadra. Magari cercando di far rientrare nella partita l'ondivaga Turchia, che nei rapporti con la Russia non si è mostrata particolarmente affidabile, ma che, sin dai primi anni di Erdogan, ha mostrato di aver scelto, nei confronti di Israele, la strada della contrapposizione. Ma in ogni caso cercherei di ergere un cordone sanitario attorno all'azione israeliana (e quindi americana) in attesa che le elezioni passino e la situazione si raffreddi.

In definitiva, avremmo bisogno tutti di un'azione diplomatica decisa e poco meno che geniale, alla Bismarck, per disinnescare una situazione estremamente minacciosa. Specie per noi: mentre la svampita ex-sovranista se ne sta in giro a sbrodolarsi in promesse di fedeltà al padrone (fra l'altro parlando in inglese, per rendere la dimostrazione di servilismo completa), fra i primi obbiettivi di un attacco nucleare russo ci saremmo proprio noi, che “ospitiamo” alcune fra le principali basi USA del Mediterraneo, da Aviano a Napoli. Questo per chiarire quali siano i veri interessi italiani, e non quegli altri, assai poco comprensibili, che la premier sostiene avere in un'inverosimile vittoria ucraina contro alla Russia.

In tutto questo, ci sono due attori che emergono, ciascuno per proprio conto, come i chiari vincitori.

Il primo è Benjamin Netanyahu. Il 7 ottobre scorso appariva come un condannato sul viale del tramonto, a capo di un governo debole e coi giorni contati, inseguito da una magistratura implacabile coi perdenti (su modello di quella nostrana) e sepolto sotto l'esecrazione dell'opinione pubblica. La débâcle di quella giornata pareva essere la pietra tombale della sua carriera politica. È riuscito a trasformarla in una pietra miliare, facendone il pretesto per incenerire i più vicini nemici di Israele, costringendo l'intero Occidente a prendere le sue parti in barba al diritto umanitario e ai palesi crimini di guerra commessi dal suo esercito, manifestando la totale inerzia dei vicini arabi e l'impotenza, almeno per il momento, dell'Iran, approfittando nel contempo del fatto che la Russia sia in ben altre faccende affaccendata per sostenere i propri alleati nella regione. E si è anche potuto permettere di andare all'ONU, usando il mandato di arresto della Corte dell'Aja come carta igienica, per trattare a pesci in faccia, apostrofandoli come inutili e cacasotto, i rappresentanti di quello scatolone vuoto (ma costosissimo) che è il Palazzo di Vetro. Si può esecrare l'operato di Israele quanto si vuole, come lo fa chi scrive, ma si deve anche avere l'onestà di ammettere che in tutto questo sfacelo, se emerge uno statista della tempra di Bismarck e di Kissinger, questo è lui. Chapeau.

Il secondo vincitore sono i complottisti. Per l'ennesima volta si rivelano quelli che spiegavano ciò che stava succedendo con mesi, quando non sono anni, di anticipo sulla stampa sedicente “seria”. Subito dopo le stragi del 7 ottobre leggevo su siti alternativi di informazione, come Weltanschauung Italia o Il Duca, di “false flag” e di operazione psicologica manovrata dal Mossad per poter schiacciare con più agio i palestinesi e levarsi Gaza come spina nel fianco. Pareva esagerato anche a me. I fatti mostrano che, ammesso e non concesso che i vertici di Israele fossero all'oscuro dei piani di Hamas, ne hanno approfittato con una prontezza e anche una solerzia tipiche di chi non aspettava altro (mettendosi nel sacco anche Hezbollah). Dopo esattamente un anno, invece, la più blasonata, tradizionale e, diciamolo, servile stampa del cosiddetto mondo libero, dal Washington Post al Times di Londra, è ancora lì, a produrre mezze analisi stiracchiate che sembrano di Mentana con la stitichezza. Ancora una volta, Complottisti 1 – Professionisti dell'informazione 0.

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Condivido poco il tuo stato d'animo ottimista. Gli statunitensi fanno professione di “isolazionismo” in due occasioni: quando sono troppo deboli per affrontare un nemico potente (dalla fondazione al 1917) o quando vogliono incendiare il mondo indirettamente, adoperando pedine e leve finanziarie (periodo tra le due guerre nel XX secolo e oggi). Io temo che la pace la sigleranno Washington e Mosca; l'UE delle vedovelle dem nella migliore delle ipotesi manterrà il disaccoppiamento dalla Russia, nella peggiore scenderà in campo e combatterà fino ad autoannientarsi, causando il maggior danno possibile alla Russia. Ricordiamoci che negli anni Trenta General Motors e General Electric, dopo aver rimesso in sesto l'industria tedesca, continuarono anche durante il conflitto a rifornire di carburante i sommergibili tedeschi e a fare affari con i nazisti. Inoltre Trump è, come il genero Kushner, un convinto assertore del sionismo e del virus giudeocristiano (che contagia buona parte dell'elettorato di Crodino Biondo e delle destre filoputiniane), e come tale sosterrà Israele costi quel che costi. E se devo essere sincero stento a vedere una Russia apertamente anti-israeliana, per una serie di motivi di ordine culturale e storico. In ultimo ti snocciolo una piccola ipotesi di natura economica e sociologica: l'Iran e la Russia, e forse anche la Cina, hanno le "mani legate" dalle rispettive borghesie e quinte colonne, minoranze rumorose che potrebbero destabilizzare un paese in guerra; non si spiega altrimenti un simile atteggiamento rinunciatario di fronte alla decapitazione dei vertici di Hezbollah. Mi ricordano l'Italia del ventennio: anglofoba a parole e anglofila nei fatti, specie ai piani alti e tra i frondisti. Su quest'ultimo argomento scriverò un paio di pezzi.
 

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