Conosco Alberto Alpozzi (ahimé, solo come autore) da anni. Ho imparato ad apprezzarne gli sforzi per portare all'attenzione del pubblico un tema, il colonialismo italiano, conosciuto da pochi e studiato seriamente da pochissimi. Con una quantità impressionante di articoli, libri, riviste da lui stesso curate e prodotte, ha (ri)portato alla luce un capitolo della storia patria doppiamente vittima dell'ignoranza e della propaganda, i due grandi colpevoli dell'abbrutimento mentale di cui soffre non solo il vasto pubblico, ma anche quella classe di persone che, per studi e posizione sociale, ama considerarsi “acculturata”. Non solo alla scuola dell'obbligo si arriva difficilmente anche solo a toccare gli albori della presenza italiana in terra d'Africa, ma quando si arriva a giornali, libri pubblicati dalle principali case editrici e programmi di cosiddetto “approfondimento” storico (Focus e Rai Storia, per dirne due), va anche peggio: tutto quello che resta sono le disfatte catastrofiche di Adua e Dogali, i gas e gli eccidi di Graziani. E va bene che, contro a Spagna e Portogallo (quasi quattro secoli) o Francia e Inghilterra (quasi tre secoli) gli ottant'anni scarsi della storia coloniale italiana in terra d'Africa diano meno materiale su cui lavorare, ma si tratta pur sempre di una pagina ricca di eventi, figure di rilievo e prospettive non scontate di riflessione che varrebbe la pena affrontare e approfondire sine ira et studio, proprio come fa Alpozzi, a cui andrebbe la generale gratitudine per tanta dedizione che mette a disposizione di chiunque una fonte originale e preziosa di conoscenze.
E invece, cosa succede? Succede che, all'approssimarsi di una conferenza tenuta dallo stesso Alpozzi all'Aquila, lo scorso sabato 21 settembre, per presentare la sua trilogia “Bugie coloniali”, si sia messo in moto un tristemente noto meccanismo di allarmi, accuse e, dulcis in fundo, tentativi di far saltare l'evento, di cui si son resi protagonisti i soliti Anpi, i “Giovani Democratici”, il Partito della Rifondazione Comunista e l'immancabile codazzo di prostituti a mezzo stampa, con “La Repubblica” in prima linea a gettar fango. Le motivazioni sono le solite, trite e ritrite: Alberto Alpozzi non si limita ad una geremiade su stragi e disastri, ma porta alla luce le opere più interessanti e a volte misconosciute del lavoro degli italiani d'Africa, come infrastrutture, vestigia architettoniche, legislazione, vita e rapporti fra coloni e locali, sino ai prodotti (spesso molto apprezzabili) dell'arte e della grafica italiana a contatto con le realtà d'oltremare, rischiando di far pensare chi legge e ascolta che noi non si sia passati in terra d'Africa come degli Unni, intenti dalla mattina alla sera a saccheggiare, stuprare e uccidere. Quindi, Alpozzi è un fascista e la sua conferenza “apologia di fascismo”.
La reazione di quest'ultimo è stata estremamente civile e misurata: ha invitato, direttamente, ciascuno dei contestatori ad intervenire alla conferenza promettendo lo stesso spazio che avrebbe avuto lui, in modo da discutere e, eventualmente, correggerlo nel caso di errori materiali e falsità manifeste.
Com'è andata? Come possiamo immaginare: che nessuno (dico nessuno) dei vigili custodi della tenuta democratica del Paese si è presentato. Asini e vili. In questa riedizione in miniatura della guerra d'Africa, hanno fatto peggio degli abissini del Negus, e con nessuna dignità. Speriamo siano più coraggiosi quando arriveranno le truppe dello zar Putin ad invaderci, altrimenti stiamo freschi...
Siamo uno strano Paese: c'è gente che passa il tempo a blaterare di pericolo fascista, e propone censure e divieti; si autoelegge a difensore della libertà di pensiero ma sono i primi ad evocare bavagli e repressione. E la cosa interessante è che, in questo caso, non ci si è fermati nemmeno di fronte al richiamo dell'evento: un incontro di studio in una sala dalla capienza limitata (alla fine erano presenti una cinquantina di persone) che evidentemente è stato giudicato comunque una minaccia epocale e un pericolo da fermare, anche a costo di fargli pubblicità gratuita. Se l'acume dimostrato dal Soccorso Dem non è stato dei migliori, fa capire comunque molte cose. Così come è esemplificativo scorrere le reazioni degli illustri (si fa per dire) assenti. Se Anpi, Giovani Dem e consiglieri di minoranza hanno semplicemente taciuto (e sarebbe stato invece interessante sentire cosa avrebbero avuto da dire, loro, entrando nel merito della storia coloniale...), il presidente di Rifondazione ha giustificato la fuga con un “non vado ad incontri organizzati da Casapound”. E ha risibilmente chiuso con un “peccato mancasse uno storico come Raffaele Colapietra”. In sintesi: io mi confronto solo con quelli che mi piacciono e comunque il convegno faceva schifo perché non avevate il mio storico preferito”. Un livello così infantile che l'asilo Mariuccia di celebrata memoria figura come Accademia platonica.
L'episodio è emblematico del clima da cappa di piombo di controllo del discorso pubblico, censura e intolleranza che la cosiddetta democrazia liberale sta coltivando con cura. Importati dagli USA, i deliri woke con la riscrittura dei classici e il ritiro dei libri messi all'indice dalle biblioteche stanno facendo proseliti in quel verminaio che è la cosiddetta sinistra italiana, brodo di coltura di ogni perversione mentale dominata dall'ossessione per un nemico che ne insidia la purezza, al punto che vede fascismi, razzismi, omofobie e misoginie dappertutto, anche sotto al letto, e reagisce con eccessi da psicosi anche in casi apparentemente marginali, anche a costo di cadere nel ridicolo o nel vergognoso. Come per l'Olocausto, anche la storia coloniale, apparentemente lontana e inoffensiva, è divenuta un terreno vietato ad ogni ricerca e discorso che non ripeta pedissequamente la solita solfa del carnefice cattivo e della vittima buona, con un manicheismo che non solo non ha niente di scientifico, ma che, in una società più sana, sarebbe oggetto di interesse psichiatrico, e non fonte di casi politici. Basti pensare che il mammasantissima degli studi coloniali italiani, Angelo del Boca, pubblicato per decenni in eleganti edizioni dalla serissima Laterza, e che nelle sue opere riporta in modo quasi pornografico ogni violenza, eccidio o abuso delle forze armate italiane sugli indigeni, a volte senza corroborare tali racconti dell'orrore con fonti degne di fede, alla fine della propria carriera ammise candidamente, in un'intervista, che lui “ha sempre fatto il tifo per gli etiopi”. Capite? Uno storico che passa per oracolo e che nessuno osa contraddire ha riempito pagine e pagine di tesi costruite avendo dietro un tifo da stadio. L'esatto contrario di quello che uno storico onesto dovrebbe fare. Mentre dei libri di Alpozzi deve essere vietato anche di parlarne in pubblico, e non perché ne venga riconosciuta l'erroneità o smontata la prospettiva come falsata (difficile da parte di gente che neppure mostra di averne letto una pagina), ma per delle generiche accuse di “fascismo” che dovremmo prendere per buone visto che vengono da un ente inutile come l'Anpi.
E a poco vale che Alpozzi non abbia mai, nelle sue opere, nei suoi articoli o incontri pubblici, fatto professione di fascismo. Ormai, per essere additati come untori, nella Repubblica Italiana del 2024 non serve mica che l'accusa venga dimostrata: basta essere accusati di esserlo. E per di più da soggetti che si presentano con cipiglio grave e l'elmetto da prima linea sempre in testa, salvo poi nascondersi come topi al primo accenno di faccia a faccia.
E invece, cosa succede? Succede che, all'approssimarsi di una conferenza tenuta dallo stesso Alpozzi all'Aquila, lo scorso sabato 21 settembre, per presentare la sua trilogia “Bugie coloniali”, si sia messo in moto un tristemente noto meccanismo di allarmi, accuse e, dulcis in fundo, tentativi di far saltare l'evento, di cui si son resi protagonisti i soliti Anpi, i “Giovani Democratici”, il Partito della Rifondazione Comunista e l'immancabile codazzo di prostituti a mezzo stampa, con “La Repubblica” in prima linea a gettar fango. Le motivazioni sono le solite, trite e ritrite: Alberto Alpozzi non si limita ad una geremiade su stragi e disastri, ma porta alla luce le opere più interessanti e a volte misconosciute del lavoro degli italiani d'Africa, come infrastrutture, vestigia architettoniche, legislazione, vita e rapporti fra coloni e locali, sino ai prodotti (spesso molto apprezzabili) dell'arte e della grafica italiana a contatto con le realtà d'oltremare, rischiando di far pensare chi legge e ascolta che noi non si sia passati in terra d'Africa come degli Unni, intenti dalla mattina alla sera a saccheggiare, stuprare e uccidere. Quindi, Alpozzi è un fascista e la sua conferenza “apologia di fascismo”.
La reazione di quest'ultimo è stata estremamente civile e misurata: ha invitato, direttamente, ciascuno dei contestatori ad intervenire alla conferenza promettendo lo stesso spazio che avrebbe avuto lui, in modo da discutere e, eventualmente, correggerlo nel caso di errori materiali e falsità manifeste.
Com'è andata? Come possiamo immaginare: che nessuno (dico nessuno) dei vigili custodi della tenuta democratica del Paese si è presentato. Asini e vili. In questa riedizione in miniatura della guerra d'Africa, hanno fatto peggio degli abissini del Negus, e con nessuna dignità. Speriamo siano più coraggiosi quando arriveranno le truppe dello zar Putin ad invaderci, altrimenti stiamo freschi...
Siamo uno strano Paese: c'è gente che passa il tempo a blaterare di pericolo fascista, e propone censure e divieti; si autoelegge a difensore della libertà di pensiero ma sono i primi ad evocare bavagli e repressione. E la cosa interessante è che, in questo caso, non ci si è fermati nemmeno di fronte al richiamo dell'evento: un incontro di studio in una sala dalla capienza limitata (alla fine erano presenti una cinquantina di persone) che evidentemente è stato giudicato comunque una minaccia epocale e un pericolo da fermare, anche a costo di fargli pubblicità gratuita. Se l'acume dimostrato dal Soccorso Dem non è stato dei migliori, fa capire comunque molte cose. Così come è esemplificativo scorrere le reazioni degli illustri (si fa per dire) assenti. Se Anpi, Giovani Dem e consiglieri di minoranza hanno semplicemente taciuto (e sarebbe stato invece interessante sentire cosa avrebbero avuto da dire, loro, entrando nel merito della storia coloniale...), il presidente di Rifondazione ha giustificato la fuga con un “non vado ad incontri organizzati da Casapound”. E ha risibilmente chiuso con un “peccato mancasse uno storico come Raffaele Colapietra”. In sintesi: io mi confronto solo con quelli che mi piacciono e comunque il convegno faceva schifo perché non avevate il mio storico preferito”. Un livello così infantile che l'asilo Mariuccia di celebrata memoria figura come Accademia platonica.
L'episodio è emblematico del clima da cappa di piombo di controllo del discorso pubblico, censura e intolleranza che la cosiddetta democrazia liberale sta coltivando con cura. Importati dagli USA, i deliri woke con la riscrittura dei classici e il ritiro dei libri messi all'indice dalle biblioteche stanno facendo proseliti in quel verminaio che è la cosiddetta sinistra italiana, brodo di coltura di ogni perversione mentale dominata dall'ossessione per un nemico che ne insidia la purezza, al punto che vede fascismi, razzismi, omofobie e misoginie dappertutto, anche sotto al letto, e reagisce con eccessi da psicosi anche in casi apparentemente marginali, anche a costo di cadere nel ridicolo o nel vergognoso. Come per l'Olocausto, anche la storia coloniale, apparentemente lontana e inoffensiva, è divenuta un terreno vietato ad ogni ricerca e discorso che non ripeta pedissequamente la solita solfa del carnefice cattivo e della vittima buona, con un manicheismo che non solo non ha niente di scientifico, ma che, in una società più sana, sarebbe oggetto di interesse psichiatrico, e non fonte di casi politici. Basti pensare che il mammasantissima degli studi coloniali italiani, Angelo del Boca, pubblicato per decenni in eleganti edizioni dalla serissima Laterza, e che nelle sue opere riporta in modo quasi pornografico ogni violenza, eccidio o abuso delle forze armate italiane sugli indigeni, a volte senza corroborare tali racconti dell'orrore con fonti degne di fede, alla fine della propria carriera ammise candidamente, in un'intervista, che lui “ha sempre fatto il tifo per gli etiopi”. Capite? Uno storico che passa per oracolo e che nessuno osa contraddire ha riempito pagine e pagine di tesi costruite avendo dietro un tifo da stadio. L'esatto contrario di quello che uno storico onesto dovrebbe fare. Mentre dei libri di Alpozzi deve essere vietato anche di parlarne in pubblico, e non perché ne venga riconosciuta l'erroneità o smontata la prospettiva come falsata (difficile da parte di gente che neppure mostra di averne letto una pagina), ma per delle generiche accuse di “fascismo” che dovremmo prendere per buone visto che vengono da un ente inutile come l'Anpi.
E a poco vale che Alpozzi non abbia mai, nelle sue opere, nei suoi articoli o incontri pubblici, fatto professione di fascismo. Ormai, per essere additati come untori, nella Repubblica Italiana del 2024 non serve mica che l'accusa venga dimostrata: basta essere accusati di esserlo. E per di più da soggetti che si presentano con cipiglio grave e l'elmetto da prima linea sempre in testa, salvo poi nascondersi come topi al primo accenno di faccia a faccia.
Che dire? Almeno l'Inquisizione aveva una parvenza di serietà.