“Il Vero è il Tutto”
G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito
Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), massimo esponente della corrente filosofica dell'idealismo tedesco, che per il pensiero dell'Ottocento ebbe un'influenza paragonabile a quella di Napoleone nella cultura popolare, non gode di buona fama, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, quando in opere a larga diffusione fu presentato come uno dei precursori del totalitarismo novecentesco, concetto abbastanza vago ma che fa sempre presa sul pubblico. E le due citazioni che Franco Marino gli ha dedicato in poco tempo, entrambe piuttosto critiche, mi hanno ricordato questa caduta del filosofo nella stima generale (anche se lui lo giudica per l'idealismo, e non per improbabili complicità in genocidio). E siccome per me Hegel, da una quindicina di anni, è divenuto un compagno di viaggio fra i più cari, anche se non sempre fra i più leggeri, mi sento spinto a spezzare una lancia in suo favore.
Non è semplice, per me, darne un ritratto a chi sia digiuno di studi filosofici specifici. Tendo sempre a raccontare gli autori che hanno inciso sulla mia vita attraverso il modo e le occasioni con cui l'hanno fatto. Spero mi perdonerete se anche stavolta la butto un po' sul personale...
Ho nutrito una passione continua per la filosofia sin dai sedici anni, quando mi è capitato in mano un volume di Nietzsche, ma ad Hegel arrivai molto più tardi, all'età fatidica di trentadue, quasi a voler significare un suo ruolo in quella fase di morte e resurrezione che mi ha portato dall'abbandono delle posizioni progressiste, atee e materialiste, a lidi praticamente opposti. In precedenza orbitavo attorno agli illuministi settecenteschi e, un po' meno, ai marxisti (che non riuscivo a farmi piacere neppure a forza, trovandoli noiosi e pedanti). Kant era il mio cavallo di battaglia, pur se, me ne rendo conto solo ora, non è che ne capissi poi tanto. Hegel lo guardavo con grande sospetto, se non con profonda avversione. Tutto l'idealismo mi pareva una faccenda sbagliata, un grosso abbaglio da parte di chi, non contento dei traguardi raggiunti dal razionalismo dei Lumi, pretendeva di andare oltre, manco fossero stati una Verità rivelata, quei lumi. Com'è noto, l'Illuminismo, ultima reincarnazione del razionalismo, negava ogni trascendenza e dava credito solo ai fenomeni materiali, arrivando all'assurdo di opere come quella di La Mettrie, che, con “L'uomo macchina”, riduceva tutto ad un materialismo tanto materiale che neppure si capiva come avesse fatto a scrivere quel libro, un automa di formazione casuale, privo di spirito e di coscienza. Il kantismo faceva un passo indietro, anche perché farne uno avanti sarebbe stato assai difficile, e ammetteva la possibilità di Dio, anche a partire dal fatto della coscienza morale e dal sentimento del bello e del sublime. Ma, in fatto di conoscenza, rimaneva ancorato ai fenomeni materiali, dichiarando impossibile trovare qualcosa d'altro, oltre a ciò di cui i nostri sensi danno testimonianza. Un discepolo assai devoto, ma non troppo fedele di Kant, Fichte, ruppe questo quadro lucido ma limitato e limitante introducendo un elemento che rappresenta la presa della Bastiglia nella storia del pensiero filosofico occidentale: il concetto di Io come frutto dell'auto-coscienza, l'auto-intuizione di sé. L'io si percepisce da sé, senza l'ausilio dei sensi, quindi non è un fenomeno materiale, e prova che oggetto della scienza possano essere anche fenomeni di natura non-materiale. Da qui a creare un sistema filosofico fondato non sull'intuizione derivante dai cinque sensi, e non su oggetti esistenti nello spazio e nel tempo, ma su un qualcosa di natura infinitamente più ricca, in quanto dotato di coscienza, facoltà pensante e creatrice, il passo era stato fatto. Per una dozzina d'anni in Germania prima, e in Europa poi, non si parlò d'altro (mi riferisco agli ambienti accademici, che altrove, con una Rivoluzione e le guerre napoleoniche in corso, di sicuro si parlava soprattutto d'altro...). Ci fu un amico di Fichte, Schelling, enfant prodige della filosofia tedesca, che a venticinque anni produsse un “Sistema dell'idealismo trascendentale” (che già così fa paura dal titolo) in cui andava oltre l'io, e individuava nel principio di Assoluto la fonte di tutto l'esistente, ricavando all'autore fama e affermazione professionale. Ma sino a quel punto Hegel, che pure di Schelling era stato amico sin dai tempi del collegio, era rimasto nell'oscurità. Oscurità da cui uscì con una serie di opere, la cui prima, la “Fenomenologia dello Spirito”, del 1807, inaugurò una sistematizzazione del sapere che non si vedeva dai tempi di Tommaso d'Aquino. E Hegel si inserisce nel piccolo gruppo di quei grandi pensatori che sono stati capaci di reinterpretare, secondo i propri canoni, le varie branche dello scibile umano: storia, estetica, diritto, logica: fra quei pochi capaci di trattare con tanta sicurezza temi anche distanti ci sono stati Aristotele, il citato Tommaso d'Aquino e, per certi versi, il “compagno di classe” Schelling. Una buona compagnia.
Non mi salta neppure per la testa di esporre qui il pensiero di Hegel: intanto non ne sarei capace, avendo letto solo una piccola parte delle sue opere, la prima solo quindici anni fa, e non giudicandomi capace di aver assorbito integralmente neppure quelle. Citando Oscar Wilde, non posso certo ricordare tutto quello che so. E poi, per chi lo desiderasse, esistono sintesi fatte da professionisti del mestiere già disponibili, dove c'è tutto l'essenziale e a cui io non potrei mai avvicinarmi: consiglierei i capitoli dedicati agli idealisti della “Storia della Filosofia” di Nicola Abbagnano e il poderoso, forse datato ma assolutamente pregevole “La filosofia dell'idealismo tedesco” di Nicolai Hartmann. Io mi accontento di cercare di far brillare qualche scintilla di quella fiamma che la lettura di Hegel ha acceso in un animo esausto, in crisi di rigetto verso praticamente tutto e tutti e in cerca di una nuova direzione. E che, ad un certo punto della vita, ha contribuito a cambiare il mio modo di vedere tutto: la vita, le persone, il mondo.
In generale l'idealismo ha goduto di pessima fama per il concetto, assai grossolano, che il pubblico si è fatto della stessa parola. “Idealista” è un'etichetta che si appiccica a personaggi poco a contatto con la realtà, sognatori con la testa per aria che pensano più ad un mondo come dovrebbe essere che a quello che è, e ovviamente dovrebbe essere come se lo sognano loro. Ma con l'idealismo quale movimento filosofico, questa immagine non si sposa tanto bene. Intanto furono gli illuministi a teorizzare con vigore un mondo “come deve essere”, e Kant fu particolarmente focalizzato, nella sua etica, sul “dover essere”, esattamente come i più esaltati rivoluzionari francesi. In particolare, quando lo scoprii, rimasi esterrefatto della povertà di esperienze di vita nell'esistenza terrena di Kant, che mai si sposò, mai ebbe figli, mai ebbe persino (pare) una donna, non uscì mai dalla sua cittadina natale, non conosceva le grandi opere d'arte della storia umana, e neppure aveva mai sentito o altrimenti apprezzato i grandi della musica suoi contemporanei, da Bach a Mozart. Invece, tutti e tre i principali esponenti dell'idealismo tedesco furono sposati, padri di famiglia e immersi nel dibattito politico e culturale della propria epoca. Hegel fu poi probabilmente il più “concreto” di tutti: non solo ebbe moglie e figli, ma anche un'amante (e un figlio illegittimo che si mise in casa e gli diede seri grattacapi), vide da vicino Napoleone, diresse un giornale favorevole allo stesso, scalò le gerarchie accademiche finendo per divenire rettore dell'Università di Berlino, viaggiò molto in Europa, amò l'arte e la musica, soprattutto l'opera di Rossini e Mozart, cosa che apprezzai molto quando ne lessi le “Lezioni di Estetica”. Non certo, quindi, un filosofo da barzelletta, di quelli che parlano di cose di cui non hanno alcuna conoscenza diretta e che ha perso il contatto con la realtà. Ma allora perché questa imbarazzante fama? Il fatto è che gli idealisti avevano posto qualcosa di immateriale, concepibile solo a livello intellettuale (ideale, appunto), alla base dello stesso mondo materiale. L'io, ossia la coscienza, per Fichte, senza la quale un mondo esterno non esisterebbe (chi lo concepirebbe, altrimenti?). O anche qualcosa di meno definibile, seppur più affascinante, come l'Assoluto di Schelling: ma cos'è un assoluto? Un qualcosa di incondizionato, e per esserlo deve includere tutto. Ad esempio, esso è sia oggetto che soggetto conoscitore. Concezione grandiosa, ma che rischiava di essere imprecisa, e se ne accorse lo stesso Hegel, che, bonariamente, la paragonò alla “notte in cui tutte le vacche sono nere” (e Schelling questo non glielo perdonò mai).
Hegel, quindi. Cosa mi ha portato a vederlo come un astro a cui rivolgermi nel tempo in cui tutto pareva nero a me? Intanto c'era la concezione dello Spirito come centro di tutto l'esistente (o anche di tutto l'Essere, come piaceva dire allora). Tutto è determinato da un'entità spirituale che non è una divinità, ma semmai qualcosa di molto più grande. Spirito è la legge fondamentale che tiene insieme la materia, le dà forma, la anima, e poi vi si risveglia come coscienza, coscienza di ciò che è esterno, e quindi auto-coscienza di sé, di ciò che è interno. È la “Fenomenologia dello Spirito”, un librone descritto spesso come “romanzo filosofico”, ma che spicca per l'inusuale vitalità che risalta sui tecnicismi a volte labirintici delle opere sue contemporanee. Di Hegel è noto il metodo con cui giungeva a formare i propri concetti, presente già implicitamente in quest'opera, e che troneggerà nelle profondità a volte di difficile penetrazione della sua opera massima, la “Scienza della Logica”: parlo della dialettica, quel movimento ridotto a schemino nei manuali del liceo come “tesi-antitesi-sintesi”, e che è invece la figura di un pensiero che scopre tutto in tutte le cose, e si muove, vivo in un mondo vivo, senza incontrare ostacoli. La dialettica hegeliana è semplicemente il modo di porre i problemi e risolverli, ma non con una risposta che ponga fine alla discussione: se la tesi pone la prima manifestazione di un concetto, e l'antitesi mette in luce che, al suo stesso interno, vi è anche il suo contrario, la sintesi non significa semplicemente aver messo insieme i due, ma essersi portati avanti, superando quel primo concetto per affrontare il successivo, allo stesso modo. Un modo infinito. Ammetto di aver sentito la pelle d'oca quando, ad un certo punto proprio della “Scienza della Logica”, ho letto il concetto secondo cui “tutte le cose sono contraddittorie”. Parlando di quello che, da Aristotele in poi, era stato un caposaldo del pensiero logico-razionale, ossia il principio di non-contraddizione (“se qualcosa è A, non può allo stesso tempo essere anche non-A”), Hegel ne mette in luce come l'esperienza stessa della vita lo nega e lo supera: in ogni cosa, mentre esiste in uno stato definito, vi sono i germi del suo opposto. In ciò che è vivo vi sono i presupposti della sua morte, e neppure potremmo concepire il concetto di “vita” se, allo stesso tempo, esso non evocasse il suo contrario. E così il resto: l'interno è esterno, il positivo è negativo. Mi sono sentito come illuminato: all'apparenza un assurdo, eppure non c'è niente di più immediato e intuitivo. E ci son voluti ventun secoli perché ci si arrivasse... Mi ha fatto sentire come se tutta la mia esistenza non fosse, con i suoi dolori, le sue incertezze e i suoi passi falsi, una serie di storture a fronte di un'ideale, di un modello “giusto” da cui non facevo che allontanarmi, ma che tutto ciò che vi avveniva fosse, invece, naturale, coerente con la natura incoerente delle stesse cose, e che solo “il morto oggetto”, per usare le parole dello stesso Hegel, sia coerente con sé stesso e mai colto in contraddizione.
L'accusa fatta agli idealisti di concepire un mondo irreale, basato su fumosi concetti, risale a Marx, che all'epoca del liceo trovavo assai concreta e razionale, ma che oggi, ad una lettura e comprensione più attenta di Hegel, trovo passibile delle stesse critiche. Hegel poneva alla base del mondo lo Spirito, che con gli anni definisce poi meglio come il Concetto, ossia la regola interna e ideale di tutte le cose, quella che dà senso, forma e sostanza ad una materia priva, in sé, di tutto ciò. E intanto la scienza più recente dà torto ai materialisti e ragione agli idealisti e a Hegel: se pure ai tempi suoi poteva credere che la materia fosse non dico compatta (già durante il Settecento si parlava di corpi porosi, fatti di molecole che non si toccavano materialmente), ma per lo meno fatta di parti in sé compatte e dotate di continuità, con la moderna fisica ogni illusione di questo tipo è caduta: le molecole sono risultate scomponibili in atomi, e lo stesso atomo, il cui significato è “non divisibile”, sconfessa la propria etimologia risultando composto da particelle ancora minori: elettroni, protoni e neutroni. Infine, nemmeno queste sono solide, come quelle piccole sfere che vediamo nelle rappresentazioni grafiche, ma sono semplici cariche elettriche. E una carica elettrica non ha alcuna consistenza materiale. In definitiva, la solida materia è quanto di più inconsistente e irreale si possa credere, e i sensi non ci presentano le cose come sono. L'unica cosa alla base di tutto è quella regola, legge, idea, schema, concetto – Ragione, alla fine, immateriale, che regge e dona esistenza e forma e coerenza e vita a tutto. Perché per Hegel non è tanto l'idea a reggere tutto, quanto la ragione. Ma non la ragione illuminista, ossia la logica formale, il raziocinio, o il placido buon senso da salotto parigino, brillante e scettico (cosa che invece, incredibilmente, credettero alcuni, arrivando a concepire un Hegel razionalista in modo più totale e assoluto di un Voltaire). No, la Ragione hegeliana è più una forza universale, un'entità incomparabile con la ragione umana, a cui può essere paragonata solo come metafora, e che si ritrova come sottostante a tutto l'esistente: non solo ciò che esiste in materia, ma anche nel pensiero e come concetto. Simile al Dio neoplatonico, che, se pensa, lo fa in modo assoluto, non comparabile a come lo fa la mente umana, né da essa integralmente comprensibile. E divinamente bene lo descrive Hartmann quando ne dà conto come “qualcosa di divino nei pensieri umani, una rivelazione dell'eterno in ciò ch'è nel tempo e dal tempo è condizionato, l'annuncio e la lingua di una ragione assoluta nella ragione soggettivo-finita”. E sempre Hartmann, parlando del linguaggio usato dal filosofo: “La tensione interiore di questa situazione è così potente che riecheggia nelle sue ricche note anche per il lettore che non comprende ancora il contenuto. In tal modo questa tensione può condurre chi ha una fine percezione linguistica ad una sorta di comprensione intuitiva della cosa”. Anni prima di arrivare a questa sintesi dello studioso tedesco, avevo provato personalmente ciò che intendeva leggendo Hegel. Molti hanno fatto uno sport del denigrare lo stile oscuro, ed obbiettivamente ostico del filosofo, a tratti incomprensibile e contraddittorio, e all'inizio della mia esperienza mi confortava ricordare come un “collega” come Adorno, a sua volta filosofo e di madrelingua tedesca, trovava alcune sue pagine “del tutto incomprensibili”, mentre altri erano più netti e si pronunciavano per l'impossibilità di poter spiegare, parola per parola, anche solo una pagina dei suoi corposi scritti. Quindi, mi dicevo, se non capisco qualcosa non sono io ad essere scemo... Eppure, a differenza dei tecnicismi kantiani o cartesiani e delle aridità di un Locke, la prosa hegeliana aveva qualcosa di affascinante, emanava come il respiro di un pensiero sovrumano, come se uscisse dall'origine stessa del senso. Ed io stesso, nel seguire un periodare in alcuni punti sconcertante nella sua cripticità quasi mistica, sentivo di coglierne il senso profondo come a livello poetico.
Oltre alla dialettica, una delle espressioni usate ed abusate come frasi fatte per sintetizzarne all'estremo il pensiero fu “Tutto ciò che è reale è razionale, e tutto ciò che è razionale è reale”, spesso interpretato come un'esaltazione del carrierismo e dell'adesione a qualsiasi corrente si imponga sulle altre, per il solo fatto che il successo, calvinisticamente, le ha giustificate. Oltre all'incredibile etichetta di “razionalista”, inteso in senso settecentesco e ad un livello persino superiore, che qualche commentatore ha affibbiato ad Hegel. Spiegazioni entrambe frettolose e immeritate per chi, con una grandezza di concezione ed un respiro a tratti supremo, si è innalzato ben oltre le facili catalogazioni ad uso dei manuali di liceo. Perché la Ragione hegeliana non è quella illuminista né quella cartesiana, ed è più vicina all'Uno neoplatonico che alle matematizzazioni spinoziane. Essa è qualcosa di mistico, di veramente metafisico, e quello che perde in chiarezza di esposizione lo guadagna in profondità. Col semplice buonsenso se ne può cavare ben poco, ma avendo la necessaria sensibilità (e un'adeguata volontà a seguirne fino in fondo le complesse curve logico-dialettiche) se ne può intuire il senso. E qui la battuta di chi definì Hegel “Eraclito redivivo”, il filosofo greco denominato “l'Oscuro”, assume ben altro e serio significato: non solo per la vicinanza metafisica dello Spirito o della Ragione hegeliana al Logos eracliteo, quanto per il ritorno, nelle vesti di un suo massimo rappresentante, della filosofia occidentale alle sue stesse origini. Un cerchio si è chiuso.
G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito
Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), massimo esponente della corrente filosofica dell'idealismo tedesco, che per il pensiero dell'Ottocento ebbe un'influenza paragonabile a quella di Napoleone nella cultura popolare, non gode di buona fama, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, quando in opere a larga diffusione fu presentato come uno dei precursori del totalitarismo novecentesco, concetto abbastanza vago ma che fa sempre presa sul pubblico. E le due citazioni che Franco Marino gli ha dedicato in poco tempo, entrambe piuttosto critiche, mi hanno ricordato questa caduta del filosofo nella stima generale (anche se lui lo giudica per l'idealismo, e non per improbabili complicità in genocidio). E siccome per me Hegel, da una quindicina di anni, è divenuto un compagno di viaggio fra i più cari, anche se non sempre fra i più leggeri, mi sento spinto a spezzare una lancia in suo favore.
Non è semplice, per me, darne un ritratto a chi sia digiuno di studi filosofici specifici. Tendo sempre a raccontare gli autori che hanno inciso sulla mia vita attraverso il modo e le occasioni con cui l'hanno fatto. Spero mi perdonerete se anche stavolta la butto un po' sul personale...
Ho nutrito una passione continua per la filosofia sin dai sedici anni, quando mi è capitato in mano un volume di Nietzsche, ma ad Hegel arrivai molto più tardi, all'età fatidica di trentadue, quasi a voler significare un suo ruolo in quella fase di morte e resurrezione che mi ha portato dall'abbandono delle posizioni progressiste, atee e materialiste, a lidi praticamente opposti. In precedenza orbitavo attorno agli illuministi settecenteschi e, un po' meno, ai marxisti (che non riuscivo a farmi piacere neppure a forza, trovandoli noiosi e pedanti). Kant era il mio cavallo di battaglia, pur se, me ne rendo conto solo ora, non è che ne capissi poi tanto. Hegel lo guardavo con grande sospetto, se non con profonda avversione. Tutto l'idealismo mi pareva una faccenda sbagliata, un grosso abbaglio da parte di chi, non contento dei traguardi raggiunti dal razionalismo dei Lumi, pretendeva di andare oltre, manco fossero stati una Verità rivelata, quei lumi. Com'è noto, l'Illuminismo, ultima reincarnazione del razionalismo, negava ogni trascendenza e dava credito solo ai fenomeni materiali, arrivando all'assurdo di opere come quella di La Mettrie, che, con “L'uomo macchina”, riduceva tutto ad un materialismo tanto materiale che neppure si capiva come avesse fatto a scrivere quel libro, un automa di formazione casuale, privo di spirito e di coscienza. Il kantismo faceva un passo indietro, anche perché farne uno avanti sarebbe stato assai difficile, e ammetteva la possibilità di Dio, anche a partire dal fatto della coscienza morale e dal sentimento del bello e del sublime. Ma, in fatto di conoscenza, rimaneva ancorato ai fenomeni materiali, dichiarando impossibile trovare qualcosa d'altro, oltre a ciò di cui i nostri sensi danno testimonianza. Un discepolo assai devoto, ma non troppo fedele di Kant, Fichte, ruppe questo quadro lucido ma limitato e limitante introducendo un elemento che rappresenta la presa della Bastiglia nella storia del pensiero filosofico occidentale: il concetto di Io come frutto dell'auto-coscienza, l'auto-intuizione di sé. L'io si percepisce da sé, senza l'ausilio dei sensi, quindi non è un fenomeno materiale, e prova che oggetto della scienza possano essere anche fenomeni di natura non-materiale. Da qui a creare un sistema filosofico fondato non sull'intuizione derivante dai cinque sensi, e non su oggetti esistenti nello spazio e nel tempo, ma su un qualcosa di natura infinitamente più ricca, in quanto dotato di coscienza, facoltà pensante e creatrice, il passo era stato fatto. Per una dozzina d'anni in Germania prima, e in Europa poi, non si parlò d'altro (mi riferisco agli ambienti accademici, che altrove, con una Rivoluzione e le guerre napoleoniche in corso, di sicuro si parlava soprattutto d'altro...). Ci fu un amico di Fichte, Schelling, enfant prodige della filosofia tedesca, che a venticinque anni produsse un “Sistema dell'idealismo trascendentale” (che già così fa paura dal titolo) in cui andava oltre l'io, e individuava nel principio di Assoluto la fonte di tutto l'esistente, ricavando all'autore fama e affermazione professionale. Ma sino a quel punto Hegel, che pure di Schelling era stato amico sin dai tempi del collegio, era rimasto nell'oscurità. Oscurità da cui uscì con una serie di opere, la cui prima, la “Fenomenologia dello Spirito”, del 1807, inaugurò una sistematizzazione del sapere che non si vedeva dai tempi di Tommaso d'Aquino. E Hegel si inserisce nel piccolo gruppo di quei grandi pensatori che sono stati capaci di reinterpretare, secondo i propri canoni, le varie branche dello scibile umano: storia, estetica, diritto, logica: fra quei pochi capaci di trattare con tanta sicurezza temi anche distanti ci sono stati Aristotele, il citato Tommaso d'Aquino e, per certi versi, il “compagno di classe” Schelling. Una buona compagnia.
Non mi salta neppure per la testa di esporre qui il pensiero di Hegel: intanto non ne sarei capace, avendo letto solo una piccola parte delle sue opere, la prima solo quindici anni fa, e non giudicandomi capace di aver assorbito integralmente neppure quelle. Citando Oscar Wilde, non posso certo ricordare tutto quello che so. E poi, per chi lo desiderasse, esistono sintesi fatte da professionisti del mestiere già disponibili, dove c'è tutto l'essenziale e a cui io non potrei mai avvicinarmi: consiglierei i capitoli dedicati agli idealisti della “Storia della Filosofia” di Nicola Abbagnano e il poderoso, forse datato ma assolutamente pregevole “La filosofia dell'idealismo tedesco” di Nicolai Hartmann. Io mi accontento di cercare di far brillare qualche scintilla di quella fiamma che la lettura di Hegel ha acceso in un animo esausto, in crisi di rigetto verso praticamente tutto e tutti e in cerca di una nuova direzione. E che, ad un certo punto della vita, ha contribuito a cambiare il mio modo di vedere tutto: la vita, le persone, il mondo.
In generale l'idealismo ha goduto di pessima fama per il concetto, assai grossolano, che il pubblico si è fatto della stessa parola. “Idealista” è un'etichetta che si appiccica a personaggi poco a contatto con la realtà, sognatori con la testa per aria che pensano più ad un mondo come dovrebbe essere che a quello che è, e ovviamente dovrebbe essere come se lo sognano loro. Ma con l'idealismo quale movimento filosofico, questa immagine non si sposa tanto bene. Intanto furono gli illuministi a teorizzare con vigore un mondo “come deve essere”, e Kant fu particolarmente focalizzato, nella sua etica, sul “dover essere”, esattamente come i più esaltati rivoluzionari francesi. In particolare, quando lo scoprii, rimasi esterrefatto della povertà di esperienze di vita nell'esistenza terrena di Kant, che mai si sposò, mai ebbe figli, mai ebbe persino (pare) una donna, non uscì mai dalla sua cittadina natale, non conosceva le grandi opere d'arte della storia umana, e neppure aveva mai sentito o altrimenti apprezzato i grandi della musica suoi contemporanei, da Bach a Mozart. Invece, tutti e tre i principali esponenti dell'idealismo tedesco furono sposati, padri di famiglia e immersi nel dibattito politico e culturale della propria epoca. Hegel fu poi probabilmente il più “concreto” di tutti: non solo ebbe moglie e figli, ma anche un'amante (e un figlio illegittimo che si mise in casa e gli diede seri grattacapi), vide da vicino Napoleone, diresse un giornale favorevole allo stesso, scalò le gerarchie accademiche finendo per divenire rettore dell'Università di Berlino, viaggiò molto in Europa, amò l'arte e la musica, soprattutto l'opera di Rossini e Mozart, cosa che apprezzai molto quando ne lessi le “Lezioni di Estetica”. Non certo, quindi, un filosofo da barzelletta, di quelli che parlano di cose di cui non hanno alcuna conoscenza diretta e che ha perso il contatto con la realtà. Ma allora perché questa imbarazzante fama? Il fatto è che gli idealisti avevano posto qualcosa di immateriale, concepibile solo a livello intellettuale (ideale, appunto), alla base dello stesso mondo materiale. L'io, ossia la coscienza, per Fichte, senza la quale un mondo esterno non esisterebbe (chi lo concepirebbe, altrimenti?). O anche qualcosa di meno definibile, seppur più affascinante, come l'Assoluto di Schelling: ma cos'è un assoluto? Un qualcosa di incondizionato, e per esserlo deve includere tutto. Ad esempio, esso è sia oggetto che soggetto conoscitore. Concezione grandiosa, ma che rischiava di essere imprecisa, e se ne accorse lo stesso Hegel, che, bonariamente, la paragonò alla “notte in cui tutte le vacche sono nere” (e Schelling questo non glielo perdonò mai).
Hegel, quindi. Cosa mi ha portato a vederlo come un astro a cui rivolgermi nel tempo in cui tutto pareva nero a me? Intanto c'era la concezione dello Spirito come centro di tutto l'esistente (o anche di tutto l'Essere, come piaceva dire allora). Tutto è determinato da un'entità spirituale che non è una divinità, ma semmai qualcosa di molto più grande. Spirito è la legge fondamentale che tiene insieme la materia, le dà forma, la anima, e poi vi si risveglia come coscienza, coscienza di ciò che è esterno, e quindi auto-coscienza di sé, di ciò che è interno. È la “Fenomenologia dello Spirito”, un librone descritto spesso come “romanzo filosofico”, ma che spicca per l'inusuale vitalità che risalta sui tecnicismi a volte labirintici delle opere sue contemporanee. Di Hegel è noto il metodo con cui giungeva a formare i propri concetti, presente già implicitamente in quest'opera, e che troneggerà nelle profondità a volte di difficile penetrazione della sua opera massima, la “Scienza della Logica”: parlo della dialettica, quel movimento ridotto a schemino nei manuali del liceo come “tesi-antitesi-sintesi”, e che è invece la figura di un pensiero che scopre tutto in tutte le cose, e si muove, vivo in un mondo vivo, senza incontrare ostacoli. La dialettica hegeliana è semplicemente il modo di porre i problemi e risolverli, ma non con una risposta che ponga fine alla discussione: se la tesi pone la prima manifestazione di un concetto, e l'antitesi mette in luce che, al suo stesso interno, vi è anche il suo contrario, la sintesi non significa semplicemente aver messo insieme i due, ma essersi portati avanti, superando quel primo concetto per affrontare il successivo, allo stesso modo. Un modo infinito. Ammetto di aver sentito la pelle d'oca quando, ad un certo punto proprio della “Scienza della Logica”, ho letto il concetto secondo cui “tutte le cose sono contraddittorie”. Parlando di quello che, da Aristotele in poi, era stato un caposaldo del pensiero logico-razionale, ossia il principio di non-contraddizione (“se qualcosa è A, non può allo stesso tempo essere anche non-A”), Hegel ne mette in luce come l'esperienza stessa della vita lo nega e lo supera: in ogni cosa, mentre esiste in uno stato definito, vi sono i germi del suo opposto. In ciò che è vivo vi sono i presupposti della sua morte, e neppure potremmo concepire il concetto di “vita” se, allo stesso tempo, esso non evocasse il suo contrario. E così il resto: l'interno è esterno, il positivo è negativo. Mi sono sentito come illuminato: all'apparenza un assurdo, eppure non c'è niente di più immediato e intuitivo. E ci son voluti ventun secoli perché ci si arrivasse... Mi ha fatto sentire come se tutta la mia esistenza non fosse, con i suoi dolori, le sue incertezze e i suoi passi falsi, una serie di storture a fronte di un'ideale, di un modello “giusto” da cui non facevo che allontanarmi, ma che tutto ciò che vi avveniva fosse, invece, naturale, coerente con la natura incoerente delle stesse cose, e che solo “il morto oggetto”, per usare le parole dello stesso Hegel, sia coerente con sé stesso e mai colto in contraddizione.
L'accusa fatta agli idealisti di concepire un mondo irreale, basato su fumosi concetti, risale a Marx, che all'epoca del liceo trovavo assai concreta e razionale, ma che oggi, ad una lettura e comprensione più attenta di Hegel, trovo passibile delle stesse critiche. Hegel poneva alla base del mondo lo Spirito, che con gli anni definisce poi meglio come il Concetto, ossia la regola interna e ideale di tutte le cose, quella che dà senso, forma e sostanza ad una materia priva, in sé, di tutto ciò. E intanto la scienza più recente dà torto ai materialisti e ragione agli idealisti e a Hegel: se pure ai tempi suoi poteva credere che la materia fosse non dico compatta (già durante il Settecento si parlava di corpi porosi, fatti di molecole che non si toccavano materialmente), ma per lo meno fatta di parti in sé compatte e dotate di continuità, con la moderna fisica ogni illusione di questo tipo è caduta: le molecole sono risultate scomponibili in atomi, e lo stesso atomo, il cui significato è “non divisibile”, sconfessa la propria etimologia risultando composto da particelle ancora minori: elettroni, protoni e neutroni. Infine, nemmeno queste sono solide, come quelle piccole sfere che vediamo nelle rappresentazioni grafiche, ma sono semplici cariche elettriche. E una carica elettrica non ha alcuna consistenza materiale. In definitiva, la solida materia è quanto di più inconsistente e irreale si possa credere, e i sensi non ci presentano le cose come sono. L'unica cosa alla base di tutto è quella regola, legge, idea, schema, concetto – Ragione, alla fine, immateriale, che regge e dona esistenza e forma e coerenza e vita a tutto. Perché per Hegel non è tanto l'idea a reggere tutto, quanto la ragione. Ma non la ragione illuminista, ossia la logica formale, il raziocinio, o il placido buon senso da salotto parigino, brillante e scettico (cosa che invece, incredibilmente, credettero alcuni, arrivando a concepire un Hegel razionalista in modo più totale e assoluto di un Voltaire). No, la Ragione hegeliana è più una forza universale, un'entità incomparabile con la ragione umana, a cui può essere paragonata solo come metafora, e che si ritrova come sottostante a tutto l'esistente: non solo ciò che esiste in materia, ma anche nel pensiero e come concetto. Simile al Dio neoplatonico, che, se pensa, lo fa in modo assoluto, non comparabile a come lo fa la mente umana, né da essa integralmente comprensibile. E divinamente bene lo descrive Hartmann quando ne dà conto come “qualcosa di divino nei pensieri umani, una rivelazione dell'eterno in ciò ch'è nel tempo e dal tempo è condizionato, l'annuncio e la lingua di una ragione assoluta nella ragione soggettivo-finita”. E sempre Hartmann, parlando del linguaggio usato dal filosofo: “La tensione interiore di questa situazione è così potente che riecheggia nelle sue ricche note anche per il lettore che non comprende ancora il contenuto. In tal modo questa tensione può condurre chi ha una fine percezione linguistica ad una sorta di comprensione intuitiva della cosa”. Anni prima di arrivare a questa sintesi dello studioso tedesco, avevo provato personalmente ciò che intendeva leggendo Hegel. Molti hanno fatto uno sport del denigrare lo stile oscuro, ed obbiettivamente ostico del filosofo, a tratti incomprensibile e contraddittorio, e all'inizio della mia esperienza mi confortava ricordare come un “collega” come Adorno, a sua volta filosofo e di madrelingua tedesca, trovava alcune sue pagine “del tutto incomprensibili”, mentre altri erano più netti e si pronunciavano per l'impossibilità di poter spiegare, parola per parola, anche solo una pagina dei suoi corposi scritti. Quindi, mi dicevo, se non capisco qualcosa non sono io ad essere scemo... Eppure, a differenza dei tecnicismi kantiani o cartesiani e delle aridità di un Locke, la prosa hegeliana aveva qualcosa di affascinante, emanava come il respiro di un pensiero sovrumano, come se uscisse dall'origine stessa del senso. Ed io stesso, nel seguire un periodare in alcuni punti sconcertante nella sua cripticità quasi mistica, sentivo di coglierne il senso profondo come a livello poetico.
Oltre alla dialettica, una delle espressioni usate ed abusate come frasi fatte per sintetizzarne all'estremo il pensiero fu “Tutto ciò che è reale è razionale, e tutto ciò che è razionale è reale”, spesso interpretato come un'esaltazione del carrierismo e dell'adesione a qualsiasi corrente si imponga sulle altre, per il solo fatto che il successo, calvinisticamente, le ha giustificate. Oltre all'incredibile etichetta di “razionalista”, inteso in senso settecentesco e ad un livello persino superiore, che qualche commentatore ha affibbiato ad Hegel. Spiegazioni entrambe frettolose e immeritate per chi, con una grandezza di concezione ed un respiro a tratti supremo, si è innalzato ben oltre le facili catalogazioni ad uso dei manuali di liceo. Perché la Ragione hegeliana non è quella illuminista né quella cartesiana, ed è più vicina all'Uno neoplatonico che alle matematizzazioni spinoziane. Essa è qualcosa di mistico, di veramente metafisico, e quello che perde in chiarezza di esposizione lo guadagna in profondità. Col semplice buonsenso se ne può cavare ben poco, ma avendo la necessaria sensibilità (e un'adeguata volontà a seguirne fino in fondo le complesse curve logico-dialettiche) se ne può intuire il senso. E qui la battuta di chi definì Hegel “Eraclito redivivo”, il filosofo greco denominato “l'Oscuro”, assume ben altro e serio significato: non solo per la vicinanza metafisica dello Spirito o della Ragione hegeliana al Logos eracliteo, quanto per il ritorno, nelle vesti di un suo massimo rappresentante, della filosofia occidentale alle sue stesse origini. Un cerchio si è chiuso.
Ancora si attende l'apertura di un altro, altrettanto degno.