Riprendo a scrivere su questo spazio gentilmente offertomi dall'amico Franco Marino (che ringrazio, anche per avermi sempre ricordato che qui c'era sempre un posto per me) dopo ormai esattamente otto mesi di assenza, dovuti ad una profonda crisi personale ed esistenziale da cui, sinceramente, in alcuni momenti non sapevo né come né se sarei riuscito a superare. Periodo che è culminato, a metà luglio, in un viaggio in Russia e relativa permanenza a Mosca per due settimane che avrebbe dovuto rappresentarne, nel progetto originario, la risoluzione. Risoluzione che, come spesso avviene, non è stata quella attesa, ma che ha comunque portato ad una cesura, alla chiusura di un cerchio, e il fatto che sia ancora qui vorrà pur dire qualcosa. Ho sentito anch'io la mancanza di questo spazio e di quanto vi scrivevo e leggevo, ma la botta è stata tanto pesante che per la prima volta in oltre vent'anni ho passato molti mesi senza alcuno stimolo ad usare internet. Ho cessato totalmente di frequentare i social, e per un pezzo neppure riuscivo ad andare oltre i titoli delle cosiddette “notizie”. Il peggio però non era questo: molto più grave è stato aver perso ogni interesse persino per la lettura, qualcosa che in qualsiasi momento della mia vita avrei trovato semplicemente impossibile. Mi ha salvato, fra le altre cose, la musica, soprattutto la classica, che mi ha accompagnato nell'ora più buia sino a quando non sono tornato “a riveder le stelle”, per citare l'Alighieri, il quale, verso la fine di questo pellegrinaggio anche spirituale, è stata una delle letture che mi hanno riportato a galla. Ora, lentamente ma decisamente, ho ripreso interesse nelle cose che ho sempre amato, e la scrittura per un gruppetto di lettori attenti e curiosi è l'ultimo tassello di un quadro che non credevo neppure di veder mai finito.


Mosca, dunque. Mancavo da nove anni dalla Russia, e, nonostante non avessi mai cessato di tenere i contatti con i miei vecchi amici, il ricordo che avevo di questo immenso Paese, a cui negli anni ho sentito di dover sempre di più, iniziava ad essere stantio e persino sbiadito. Ciò che ho visto, il bello e il meno bello, mi ha spesso sorpreso, e mi sembra un buon modo di tornare a parlare ai miei lettori quello di raccontare ciò che di interessante ho incontrato, e mai nessun mezzo di disinformazione italiano racconterebbe nemmeno sotto tortura.


Le novità mi hanno accolto sin da prima la frontiera: come tutte le altre volte, avevo deciso di passarla via terra, dall'Estonia. Sapevo che i treni diretti erano ormai un ricordo, avendo il governo estone, russofobo a livello di patologia psichiatrica, chiuso il passaggio della frontiera ad ogni mezzo di trasporto, e lasciando possibile solo l'attraversamento a piedi. Avevo deciso comunque di provare lo stesso. L'esperienza di passare una frontiera a piedi, come nel XIX secolo, mi sapeva di romantico, e ad un reazionario come me pareva un'occasione unica. Purtroppo il romanticismo è finito anche prima di arrivare in territorio russo: non solo mi sono beccato le insolenze di qualche idiota estone che mal sopportava, sul treno che da Tallinn porta a Narva, di sentirmi parlare russo, ma ai controlli di parte estone i solerti doganieri mi hanno perquisito anche i regali che portavo agli amici, forse alla ricerca di componenti utili a rifornire l'esercito di Mosca in Ucraina, dato che ormai devono smontare i chip dalle lavatrici e combattono con le pale in mancanza di meglio (da quasi due anni, a sentire i nostri tiggì). Poi, sempre loro, mi hanno contato il denaro sino al centesimo e costretto a tornare indietro a cambiare tutto in rubli, essendo l'euro è fra le merci la cui esportazione in Russia è vietata dalle sanzioni dell'UE, e probabilmente temendo che li portassi direttamente al Cremlino per finanziarne la conquista dell'Europa. Mi hanno anche fatto un verbale redarguendomi solennemente e facendomi promettere di non farlo più. Se non avessi perso quattro ore in fila come un profugo sotto al sole di luglio l'avrei anche trovato abbastanza divertente.


Arrivato a Mosca, le cose che ho notato, e che nove anni fa non erano neppure in programma, sono state tante. Fra le più interessanti, non è tanto il fatto che la città sia un ribollire di energia e che si vedano ovunque i segni di abbondanza di denaro e di lavoro, cose di cui si meraviglierebbe solo un povero di spirito convinto di trovare la miseria dei romanzi di Dostoevskij, quanto che da nessuna parte si percepisca l'assenza di tutte quelle merci che in Russia, a causa della marea di sanzioni (quanti “pacchetti” hanno già varato a Bruxelles? Otto? Nove? O siamo già sulle due cifre?) sarebbero dovute sparire dagli scaffali. Nei negozi si trovano tranquillamente tutte le marche e i marchi occidentali, compresa la Coca-Cola (che non sarebbe stata una grossa perdita), importate senza alcun problema da qualche vicino compiacente, ad esempio il Kazakhstan (ma era un gioco che faceva, e con ottimi risultati, già la Germania tramite Svezia e Danimarca durante la Grande Guerra). Questo dedicato affettuosamente a tutti quei presstituti di regime che (un esempio per tutti: Elena Zafesova dalle colonne della Stampa), ci assicuravano di come a Mosca ci fossero file pari a quelle dei tempi di Brežnev per un pacco di assorbenti. Altre merci, il cui trasporto è più complicato, sono invece in via di totale sostituzione, e questa, per noi, non è una bella notizia: per la prima volta in vita mia, ho visto una massiccia presenza di auto cinesi, tutte nuove ed ipertecnologiche, che stanno rapidamente prendendo il posto di quelle occidentali. Le marche di lusso, comunque, continuano a circolare e in certi quartieri ho visto più Bentley e Maybach di quante ne avessi mai visto a Chelsea o nel 16° Arrondissement a Parigi.


Ma non è nelle merci che la cesura con l'Occidente è stata più pesante. Il segno che ci stiano sostituendo, e che non sentano troppo la nostra mancanza, l'ho visto nel turismo. Rispetto a nove anni fa, la provenienza dei visitatori in giro per il centro era marcatamente diversa. In due settimane, in cui sono stato praticamente ogni giorno sulla Piazza Rossa e mi sono seduto ai tavolini di bar e ristoranti del centro, non ho mai sentito parlare italiano, tedesco o francese, e solo una volta sono incappato in una coppia di americani. In compenso, non si contavano i gruppi, le coppie e le famiglie la cui provenienza dall'Asia orientale, dal Medio Oriente o dal subcontinente indiano e persino dall'Africa subsahariana era scritta, si può dire, in faccia. E ho pure riconosciuto la parlata portoghese del Brasile. Tutta gente, manco a dirlo, piena di soldi, non certo il tipo di “visitatori” che accogliamo noi giornalmente a vagonate, anzi, a traghettate. Il mio amico mi ha spiegato con molta naturalezza il tutto con una sigla: “BRICS”. La Russia, parallelamente alla chiusura dei voli diretti dai nostri aeroporti, quando non pure delle frontiere fisiche (vedi Estonia e Finlandia), ha aperto ai visti dai Paesi che le si sono dimostrati amici, o almeno non nemici col coltello fra i denti, e riempie gli hotel e i locali a cinque stelle come se niente fosse. I programmi di cooperazione con questi Paesi non si limitano al turismo, ma vanno ben oltre, e sono ampiamente pubblicizzati, con congressi e la presenza di delegazioni permanenti. Tutte spie di un cambiamento di cui anche noi, presto o tardi, avvertiremo gli effetti, temo dolorosi.


Una cosa che mi ha stupito anche di più, poi, è la scomparsa del contante. Ve li ricordate sempre i servizi delle solite prostitute a mezzo stampa, appena due anni fa, sui russi in fila sotto la neve per “ritirare i contanti”, nel panico dopo che le lungimiranti Visa e Mastercard avevano sospeso ogni servizio sul loro territorio per ritorsione contro alla feroce aggressione all'Ucraina? Non so quanto abbiano guadagnato le nostre carte di credito da quella mossa spregiudicata, ma i russi, in quelle file, non hanno ritirato solo le loro nuove carte legate al sistema di transazione “Mir”, che oltre alla Russia funziona nella maggior parte dei territori ex-sovietici, a Cuba, in Venezuela, Birmania e Vietnam, e sta per espandersi ad una più vasta gamma di Paesi, dall'Iran all'Indonesia. A noi i loro soldi fanno schifo, volete che non si arrangino? Ma la cosa impressionante è un'altra. Più che le carte di credito, i russi usano il cellulare. Grazie a qualche applicazione, tutto, praticamente ovunque, dai negozi ai trasporti, viene pagato semplicemente appoggiando il cellulare ad un lettore. Io arrivavo carico di banconote, dopo la gentile concessione della dogana estone. E ho avuto spesso problemi a cambiare pezzi da cinquemila, equivalenti a cinquanta euro: semplicemente, nessuno li usa quasi più, e quasi nessuno ha il resto. “Perché non usa la carta?”, mi chiedevano. “Perché sono italiano”, era la sconsolata risposta. Ossia, cittadino di un povero stato-fantoccio che crede di fare la guerra alla Russia vietando l'esportazione di cannelloni (N.B. Nei negozi si trova tranquillamente la pasta Barilla...). Ora, scherzi a parte, questa della scomparsa del contante non è una buona notizia. Non per me, almeno. Sono di quelli che vedono nel contante una garanzia di libertà, anche solo del potersi fare i fatti propri senza essere tracciati da qualche miserabile e messi in un archivio. Lo vedo male qui, lo vedo male anche in Russia. Mi hanno spiegato che sul cellulare hanno anche l'identità elettronica, ossia non solo i soldi, ma pure i documenti personali. Ed io ho chiesto come si troverebbero se, lontano da casa, perdessero il telefono. Molto male, sono costretti ad ammettere anche loro. Che se poi il telefono non si perde, ma è qualcuno che ha in mano i sistemi elettronici, dal governo ai servizi segreti, a voler taglieggiare un individuo, le cose vanno anche peggio. Sarebbe come se venisse “spenta” la persona. Di questo i russi non si rendono conto, hanno fatto di necessità virtù ed ora, catapultati avanti nel futuro di parecchi anni, di quel futuro hanno già tutti i rischi. Ma è interessante notare come quelli che qui, da apologeti del “progresso”, sfottono la Russia definendola un regime o uno stato mafioso, siano gli stessi a farsi paladini della moneta elettronica. Essendo un mezzo micidiale in mano ad un regime, ed essendo stata praticamente già adottata da quello che ritengono un dittatore, sarebbe qualcosa più da temere che da auspicare. Ma non mi risulta che costoro si siano accorti di nulla.


Altre segno dell'uso ipertrofico della tecnologia: le consegne a domicilio. Non solo si vedono corrieri in bici o in moto ovunque, ma sono presenti anche dei curiosi scatoloni di plastica colorati su ruote, che si muovono autonomamente in lungo e in largo per i marciapiedi, attraversano sulle strisce e, se te li trovi davanti, ti rilevano, si fermano e ti evitano, e che sono anch'essi dei corrieri che trasportano, generalmente, cibo a domicilio. E, segnale ancora più negativo: la lettura. Un tempo nei Paesi ex-sovietici notavo spesso persone che leggevano libri in pubblico, nei trasporti, nei parchi. Oggi è tanto se c'è uno con l'e-reader. Tutti gli altri, incollati allo schermo dello smartphone. E, per completare l'alienazione, cuffie senza fili.

Mi ha sorpreso, fra l'altro, la presenza visibile di coppie omosessuali. E parlo di uomini che, in pieno centro, passeggiavano tenendosi per mano: difficile equivocare con un semplice gesto di amicizia. Ne parlai con i miei amici: "È così dappertutto", hanno riso del mio stupore. E dire che sulla nostra stampa igienica un paio d'anni fa avvisavano sul sorgere di campi di concentramento per gay... Sempre affidabili, le puttane di regime. Così come mi ha sorpreso, nella casa in cui fu assassinata Anna Politkovskaya, la presenza di una targa commemorativa. In piena dittatura? Una targa per una vittima del regime? Naturale...


Ho notato pochi segni del conflitto in corso. Pochi, ma comunque degni di nota, e a volte curiosi. Ad esempio, sulla Piazza Rossa, spesso, manca il segnale internet. La spiegazione che mi hanno dato è che viene disturbato regolarmente per impedire la geolocalizzazione usata dai missili a lungo raggio e dai droni. Una misura di guerra vera e propria, che rende, paradossalmente, il luogo in cui il segnale dovrebbe essere più forte, quello in cui è più intermittente... Per il resto, qualche mostra, molti cartelloni, cose che, in un popolo in cui il patriottismo è sempre stato alto, non mancavano neppure prima. Solo una volta mi sono fermato contemplare una sorta di bacheca, in pieno centro, fitta di fotografie, volti giovani, uomini e donne, e persino vecchi: tutti caduti nell'Operazione Militare Speciale. C'era persino Prigožin. La gente si fermava, meditava in silenzio, qualcuno accendeva una candelina. Mi ha fatto una profonda impressione. Erano i volti di persone morte; alcuni, come le due bellissime ragazze o il vecchio dai baffoni bianchi da cosacco, neppure obbligati ad essere là, ma che c'erano andati spinti da qualcosa a cui non avevano saputo resistere, e che sarebbe inutile cercare di spiegare dalle nostre parti. Erano i volti di quelli che per noi neppure esistono, o esistono solo come autori di crimini di guerra, magari violenze su bambini (che fortunatamente a Gaza ne sono esenti). Persone con un volto, un nome, una vita ormai spenta. Mi sono commosso, ve lo giuro.


E i moscoviti, altra grande sorpresa. Da sempre antipatici a tutto il resto della Russia perché aventi la fama di antipatici, stavolta li ho trovati più cordiali e amichevoli del solito. Non saprei spiegarne i motivi, forse è l'atmosfera da tempi di guerra che rende, paradossalmente, più sensibili, o forse è la necessità di doversi adattare alla presenza di visitatori provenienti da aree culturali ben più lontane dell'europeo-occidentale da quella russa, ma è stata comunque una simpatica novità.


Ho visto un Paese profondamente cambiato, insomma, ed è stato evidente persino da un soggiorno così breve. Un Paese in cui si può vivere, anche bene, e chi ci vive già lo fa. Ho visto in che appartamenti vivono i miei amici, che non sono oligarchi, ma vivono del proprio lavoro, ed è roba che, per superficie e qualità dell'arredo, a Milano potrebbe permettersi giusto un oligarca. Ho parlato con uno di quelli che, tempo fa, era “fuggito” in Kazakhstan, quando era scoppiata l'isteria degli arruolamenti forzati. Dopo poco, quando fu chiaro che non avrebbero arruolato nessuno a forza prelevandolo da casa o dalla strada, manco fossero nel regime-fantoccio di Kiev, se ne tornò alla vita di prima, e ancora se ne sta lì, tranquillamente. Un Paese che, mentre noi siamo ancora presi a blaterare di fascismo e a paventare il vaiolo delle scimmie dopo esserci impiccati alla terza dose, è entrato nel XXI secolo col passo di una società vivace e reagente alle sfide, non con la passività cadaverica di chi crede nelle virtù della “resilienza”. Un sistema ed un popolo che non è facile mettere in ginocchio (se mai lo fosse stato...) e che ha tutte le carte in regola per emergere come una delle potenze di domani.


Che poi, a ben vedere, è già oggi.

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Friedrich von Tannenberg
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