Come per molte altre opere d'arte che mi avevano affascinato e innamorato sin dall'adolescenza, anche del “Discobolo” di Mirone ignoravo la collocazione precisa e mi son meravigliato a scoprire, grazie ad una notizia di cronaca, che stava molto più vicino di quanto non sospettassi: per la precisione a Roma, al Museo Nazionale. Ma la sorpresa più grossa non è neppure stata questa. Come qualcuno avrà notato, magari con difficoltà, essendo ogni altra notizia stata soffocata dalla recente fictionFemminicidio Cecchettin”, che ha fagocitato qualsiasi altra cosa per due settimane, è sorta una mini-crisi diplomatico-artistica fra Roma e Berlino avente al suo centro la bellissima statua. In sostanza, la Germania chiedeva la restituzione dell'opera, mentre il ministro Sangiuliano rispondeva picche. Ma procediamo con ordine.

Mirone, celebre artista di Euletere in Grecia, scolpì il “Discobolo” verso la metà del V secolo a.C., destinata probabilmente a celebrare un vincitore spartano dei giochi olimpici. È un capolavoro di maestria scultorea, di realismo e di resa complessiva e nel dettaglio: coglie il lanciatore del disco nel momento di massima tensione, rendendo immortale l'atto di torsione che precede l'attimo in cui scaglierà il disco verso il cielo e la vittoria. L'atleta è ovviamente un modello di bellezza virile, ideale e quindi al di là di ogni identificazione soggettiva, e rende come poche altre l'idea di purezza e perfezione estetica che l'arte ellenica cercava, in quell'epoca, in maniera spasmodica nella cura del corpo umano, maschile innanzitutto. Per quanto mi riguarda, credo che solo l'Apollo del Belvedere e la testa di Atena Lemnia le stiano alla pari. Ovviamente non è l'originale, come praticamente nessuna statua greca che possiamo ammirare nelle collezioni contemporanee lo è: a causa delle vicissitudini storiche intercorse in oltre due millenni e mezzo, gli originali sono andati tutti trafugati, persi, distrutti o (come in questo caso) fusi se di bronzo per ottenerne metallo da usare altrimenti. Ma fortunatamente l'opera fu così apprezzata dai patrizi romani che ne vennero fatte molte copie, e due di queste ci sono giunte integre. Una sta a Londra, l'altra, la nostra, a Roma. Ma non è sempre stata là. Già Napoleone, da amante delle belle arti ma anche comprendendo il valore dell'immagine, se la portò in Francia dopo la prima campagna d'Italia, insieme ad altri capolavori. Fu restituita dopo il Congresso di Vienna grazie anche alle insistenze di Antonio Canova, scultore e artista neoclassico non inferiore all'autore del “Discobolo”. Poi, nel 1938, un altro appassionato d'arte ne fu conquistato: Adolf Hitler, in visita in Italia, espresse tale e tanta ammirazione che Mussolini chiese al principe Lancellotti, che ne era il proprietario, di accontentare l'ospite. La statua fu venduta per cinque milioni di lire, cifra per l'epoca enorme (erano gli anni che mille lire al mese erano considerati uno stipendio da sogno) nonostante il parere sfavorevole del ministro Bottai e nonostante il fatto che fosse vincolata come “di alto interesse nazionale” e quindi ne fosse vietata l'esportazione. Ma la vendita, per l'interessamento del regime, andò comunque a buon fine e l'opera arrivò a Monaco, dove il Führer la volle esposta alla Gliptotek come suo dono al popolo tedesco. Dopo la guerra, però, il governo italiano riuscì (non saprei come) a farla inserire fra le opere “acquisite illegalmente” dal regime tedesco e “restituita” all'Italia nel 1948.

Sin qui la faccenda appare abbastanza chiara: la statua fu venduta volontariamente dal proprietario (che era già da anni in trattative con altri interessati) ed esportata legalmente dall'Italia in Germania. Se qualcosa di irregolare c'è, fu la richiesta italiana di riaverla indietro, e solo il fatto che all'epoca la Germania fosse territorio occupato senza neppure un governo fantoccio di facciata, quindi in balia degli umori e della volontà degli occupanti, giustifica il fatto che a tale strampalata richiesta non ci fu una seria opposizione. Perché se infatti furono molte le opere d'arte confiscate dalle autorità tedesche o perché di proprietà ebraica o perché bottino di guerra, questa fu regolarmente acquistata e pagata, senza alcuna costrizione e senza neppure uno stato di guerra in corso. E chiariamo un'altra cosa: il bottino di guerra non è nulla di scandaloso né di illegale: da sempre i vincitori hanno preso e portato via quel che gli pareva di valore nei territori conquistati, o dai bagagli dei vinti, senza che la cosa sia mai stata considerata sbagliata: rientrava nel diritto di guerra, quindi, se pure oggi fosse dichiarato il contrario, sarebbe come minimo pretestuoso voler imporre il nuovo principio in maniera retroattiva.

Ma c'è di più. Nei tempi più recenti, proprio la Germania si è fatta capofila di quel movimento che vorrebbe la “restituzione” al Paesi d'origine di manufatti e reperti di interesse archeologico o artistico conservati nei propri musei. A dare inizio alla tendenza, purtroppo, è stata l'Italia, con la riconsegna dell'obelisco di Axum. Questo bel manufatto etiope antico, risalente ai primissimi secoli dopo Cristo, come molti ricorderanno, giunse a Roma nel 1937 per celebrare il primo anniversario dell'impero. Dopo la guerra, esattamente come per il Discobolo, fu catalogato fra quelle opere da restituire, ma, in modo tipicamente italiano, le operazioni subirono numerosi ritardi (per non dire che non furono nemmeno mai iniziate) e quando nel 1969 al negus Hailè Selassié venne offerta finalmente la restituzione, questi, che evidentemente era uomo pratico e ragionevole, all'apprendere l'entità dei costi di smontaggio, trasporto e ricollocamento, che sarebbero stati enormi, dichiarò che non era il caso di buttare via tutto quel denaro e che la stele la donava lui, in qualità di rappresentante il governo etiope, all'Italia. E questo nonostante i costi sarebbero stati tutti sostenuti dall'erario italiano. Appena cinque anni dopo, però, un colpo di Stato portò al potere il governo genocida di Menghistu, che fra le altre cose assassinò lo stesso negus, e richiese indietro l'obelisco. I governi italiani degli anni '70 e '80, come ovvio, fecero orecchie da mercante, ma quando negli anni '90 iniziammo a vedere esecutivi sempre più larvali e incapaci di opporsi a qualsiasi pressione esterna, la musica cambiò. Prodi, fra gli altri regali che ci fece (non fosse bastato l'ingresso nell'euro), accolse la richiesta di cui probabilmente neppure gli etiopi si ricordavano più, e rimise in moto l'operazione, con solerzia meritevole di ben altre cause. Per farla breve, dopo altri quattro anni, e qualche miliardo di lire prese dalle nostre tasche, l'obelisco tornò là dove era stato prima del 1937.

Di recente, la Germania ha deciso di seguire l'esempio, e proprio l'anno passato ha iniziato a rimandare in Africa migliaia di manufatti di ogni tipo conservati nei suoi musei dopo averne certificato, con la collaborazione del Paese di origine (che ci immaginiamo più che volonterosa), la provenienza illecita, ma ha fatto un certo scandalo sapere che un lotto di mille e cento reperti destinati alla Nigeria, al loro arrivo siano stati immediatamente trasferiti ad un erede del re del Benin (la regione nigeriana, non lo stato attuale) a cui erano stati rubati. Naturalmente il fatto che un signor nessuno, magari tramite quelle connessioni personali (specie se sono in valuta estera) che in Africa aprono tutte le porte, si sia ritrovato di colpo milionario, potendo rivendere legalmente tutto quel ben di Dio, non è piaciuto a chi, in Germania, viveva nel mondo ideale in cui ci si aspetta che l'Arte sia un patrimonio dell'Umanità tutta e che, anche restituita, continui a restare nella fruizione di detta Umanità. Ma Berlino ha tagliato corto: la restituzione è incondizionata, come a dire: noi li dobbiamo dare indietro, costi quel che costi, anche se finiranno in casa di qualche ricco, rubati o trafugati una seconda volta o distrutti per incuria. Le garanzie siamo solo noi a darle: gli altri hanno solo diritti.

Contemporaneamente si sono attivate commissioni dello stesso tipo in Francia, Belgio e Paesi Bassi, affiancate da gruppi di esperti congolesi, indonesiani e di altri posti pronti a dichiarare la liceità delle restituzioni. Messa così, a me pare semplicemente una nuova forma di autoflagellazione che, negli ultimi decenni, sta diventando l'ideologia ufficiale dei Paesi europei (non tutti, qualcuno sano di mente esiste ancora). Dobbiamo vergognarci di essere cristiani di fronte ad ebrei e mussulmani, di essere italiani (o francesi, o inglesi, o continuate voi) per il passato coloniale, di essere bianchi di fronte ai negri e di essere uomini di fronte alle donne. E anche di essere adulti di fronte a bambini e ragazzini, altrimenti non si spiegherebbe la degenerazione del comportamento anche minorile a tutti i livelli e latitudini. Il perché non è difficile da spiegare, anche se è più duro da mandare giù. Nel Basso Medioevo, in particolare all'epoca della Grande Peste della metà del XIV secolo, sorsero strane comunità di penitenti non ufficiali, ossia non creati né incoraggiati dall'autorità religiosa, che percorrevano le strade d'Europa, soprattutto la parte più occidentale, seminudi, e intenti, mentre recitavano preghiere e invocazioni al cielo, a frustarsi a sangue le spalle e la schiena, sia l'un l'altro che da sé. Un'usanza così barbara fu da subito respinta dal clero cattolico (che per certi versi era molto più ragionevole, e meno ecumenico, di oggi), proprio perché violenta e fuori da ogni logica. Ma una sua logica interna quell'atto lo aveva. L'arrivo improvviso e inspiegabile di un'epidemia che correva veloce come il migliore cavallo, passava tutte le difese e i tentativi di isolarlo, e raggiungeva picchi di mortalità anche del 50% (e le fonti locali, per alcune località, dicono anche di peggio), fra l'altro dopo qualcosa come otto secoli in cui, dalla Peste di Giustiniano, un morbo così letale non si fosse più visto, lasciava sgomenta e senza direzione la psiche collettiva dell'epoca. Di fronte ad un Male che colpiva chiunque, ricco o povero, virtuoso o peccatore, nobile o plebeo, cristiano o miscredente, ogni supporto vacillava, e non solo quello del buon senso, ma persino la fede nella religione ufficiale. Così fu quasi automatico che ci si dicesse che si era tutti colpevoli di fronte a Dio, anche chi si faceva passare per buono e degno, e che l'unico mezzo per placare quest'ira irrazionale e feroce fosse di punire in sé anche i peccati altrui. E non servì, almeno inizialmente, che questi “flagellanti” (dal flagello, la specie di frusta ornata di uncini con cui si colpivano) cadessero vittime delle successive ondate del contagio per mostrare come neppure il loro martirizzarsi facesse la differenza: moltissimi, nel popolo, li guardavano a bocca aperta chiedendosi se per caso non avessero ragione loro e, in certi casi, persino unendosi alla festa.

Cosa unirebbe quei flagellanti con l'atteggiamento di chi, oggi, si dà tanto da fare a svuotare le proprie collezioni d'arte? Parecchio, ma soprattutto l'atteggiamento psicologico di chi si ritiene moralmente due spanne sopra tutti gli altri, e si martirizza, nella propria esaltazione, convinto di farlo in ossequio a norme di valore supremo che solo lui mostra di saper ascoltare, anche a vantaggio dei miseri peccatori che lo criticano disapprovando, i poveri stolti.

L'Occidente però, in questa mania d'autolesionismo, non si rende conto di due semplici conseguenze. Una è che, rispetto agli ex popoli coloniali, si comporta con la stessa spocchia e la stessa implicita convinzione di superiorità civile con cui, a suo tempo, li trattava quando erano coloniali senza l'ex. Allora si giustificava l'invasione, l'occupazione, la disposizione delle risorse naturali, umane e (appunto) artistiche con il “fardello dell'Uomo Bianco”, ossia un imperativo morale supremo a cui i conquistatori si sottomettevano come ad un dovere. Quello di illuminare con la luce della civiltà quei poveri indigeni ignari di tutto, a partire dalle regole del decoro, e favorendoli con l'istruzione (che non andava oltre la quinta elementare: quando il Congo ottenne l'indipendenza dal Belgio, per fare un esempio, in tutto l'immenso Paese c'erano forse venti laureati), la costruzione di strade e infrastrutture (inevitabili per il controllo militare e lo sfruttamento del territorio), e l'insegnamento dei principi morali in voga in Occidente. Mica si poteva lasciare che quei selvaggi continuassero a girare nudi e ad ammazzarsi a bastonate senza sapere che non si fa?

Oggi non c'è nulla di diverso nel chiamarli e metterli al corrente che noi, l'Occidente, pentiti del male fatto e in riparazione del danno, restituiamo loro tutto quello che ci è arrivato in maniera illecita. E illecita secondo quanto decidiamo noi, innanzitutto. Da qui è chiaro come, in mezzo a questo fare la faccia contrita e cospargersi il capo di ceneri, chi restituisce lo fa con lo stesso animo di chi, due o tre generazioni fa, prendeva: noi, che siamo tanto civili, sappiamo cos'è meglio e soprattutto giusto, e adesso voi (che da soli neppure ci sareste mai arrivati) fate i bravi e collaborate a quest'operazione con cui dimostreremo all'Universo Mondo che siamo sempre giusti e corretti. Ancora una volta. A nessuno salterà mai in testa di discutere su come, all'epoca della loro fabbricazione, quei manufatti non avessero alcun valore artistico, ma d'uso, fosse esso bellico, magico, come strumenti di caccia o per semplice abbellimento, e quindi sarebbero stati destinati comunque ad una rapida usura e alla distruzione, né che sarebbe assurdo pretendere da un soldato o un funzionario coloniale che tornava dopo dieci anni in Africa Orientale carico di souvenir, avere appresso le ricevute fiscali per ogni manufatto barattato nei villaggi in mezzo alla savana per qualche pallottola o un pugno di sale. Ché questo è il valore che i proprietari potevano ragionevolmente dare, all'epoca, ai loro feticci e alle loro lance: come valuteremmo noi le padelle o i calendari che teniamo in casa, di fronte ad un alieno che ce li chiedesse in cambio di quelle che, per lui, sarebbero l'equivalente delle proverbiali perline di vetro? Per il loro semplice valore d'uso, e non ci sentiremmo imbrogliati neppure se ci dicessero che, a diecimila anni luce da qui, verranno esposti in un museo e valutati una montagna d'oro massiccio.

E arriviamo alla seconda conseguenza, a cui i promotori di tanto solerti iniziative non hanno pensato. Ed è stranissimo, dato che uno di essi è proprio il presidente Macron, nella cui capitale sorge il Louvre. Se qualcuno, infatti, è stato anche solo una volta in quel museo, avrà notato lo spazio impressionante che prendono le collezioni relative alle civiltà egizia, assiro-babilonese, persiana, del Vicino Oriente un tempo ellenico e della stessa Grecia. Ora, un conto è ammettere il diritto-dovere di restituire manufatti africani che, senza voler offendere nessuno, non sono certo il pezzo forte delle collezioni museali e non attirano poi la maggior parte del pubblico, che semmai varca gli oceani e i continenti per la Gioconda o la Nike di Samotracia. Quindi rendetevi conto cosa accadrà quando saranno Siria, Iran, Turchia, Egitto, Iraq, Libano, e magari la Grecia, a chiedere le stesse condizioni. Come gli si potrà rispondere? Che se a venir rubato è stato un bongo ugandese si deve restituire, e il bassorilievo assiro invece no? Perché? E se si dovesse proseguire secondo questo principio, invece, cosa resterebbe delle imponenti ali del Louvre in cui si ammirano tesori provenienti dall'Egitto e dal Vicino Oriente? È un interrogativo a cui sarebbe molto facile rispondere, per questo ho trovato molto strano che proprio i diretti interessati non sembrino esserselo posto. Come invece pare abbiano fatto a Londra, che ha respinto per l'ennesima volta le analoghe richieste della Grecia sui marmi del Partenone.

Se l'Europa fosse ancora pervasa da una vaga sanità mentale, invece di flagellarsi per il politicamente corretto dibatterebbe prima, come si faceva un tempo, sui caratteri della questione. Scopriremmo che c'è poco di cui scusarsi e restituire, quando nella cultura e nell'uso di tempi anche remoti era pienamente integrato il diritto del vincitore di razziare e portarsi a casa oggetti di valore. Alle truppe era promessa parte del bottino, e c'erano regole ufficialmente stabilite su come formare il monte frutto del saccheggio e ripartirlo poi fra ufficiali e soldati. Quando le legioni di Roma presero le città della Magna Grecia prima, e quelle della Grecia continentale poi, la capitale fu inondata di statue e altri oggetti d'arte di cui i patrizi furono subito entusiasti, e di cui non finirono mai di riempire le loro ville. Il bottino di guerra non fu mai considerato l'equivalente di un furto, almeno sino a tempi recentissimi, e con ragione, dato che il suo significato affonda nelle ataviche ragioni del vincitore sulla preda. La pretesa di voler essere meglio di come la natura ci ha fatti sa di arroganza, e tocca molto presto i suoi limiti. Proclamiamo come Patrimonio Universale dell'Umanità quello dell'arte, ovunque esso sia, anche in casi sinceramente assurdi, come quello dei villaggi di fango del Mali che ogni tanto vengono smantellati e rifatti da capo, e poi andiamo a rispedire indietro un feticcio che, nel paese di arrivo, non è più visto come un oggetto d'arte, e quindi non fatto oggetto della stessa cura, o addirittura viene messo in mano ad un privato che lo rivende per farci i soldi, col risultato che ciò che veniva custodito come un capolavoro dal possessore “abusivo”, viene ridotto a volgare merce di scambio da quello “legittimo”, di cui si avvantaggia uno solo o pochissimi: non proprio quel che avremmo inteso come “Patrimonio dell'Umanità”. Tutto questo svuotando collezioni che sino a quel momento erano state a disposizione di centinaia di milioni di studiosi e appassionati, per riportarle in luoghi in cui tale disponibilità non sarà, nel migliore dei casi, di qualità superiore. E tutto per la misera soddisfazione di pavoneggiarsi come i più buoni, morali e giusti del mondo.

Capite perché, con gente del genere, il Discobolo è meglio che ce lo teniamo noi?

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Friedrich von Tannenberg
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