Ero alle prese con un articolo serio (e forse anche serioso) sulla congiuntura internazionale, quando è giunta anche a me la notizia come un fulmine a ciel sereno: Giorgia Meloni, in qualità di Presidente del Consiglio, ha annunciato la fine della propria relazione con Andrea Giambruno. La cosa mi ha lasciato incredulo, e non tanto perché fossi particolarmente certo della qualità del sodalizio, quanto per il fatto che la Meloni avesse fatto un annuncio ufficiale, urbi et orbi, di qualcosa che, detto francamente, al cittadino italiano medio non potrebbe fregare di meno. Ma era solo l'inizio, e, accanendomi nella mia masochistica abitudine di seguire i canali di sedicente informazione, rimanevo ancora più perplesso di fronte ai servizi cosiddetti giornalistici che tutti dedicavano al “caso”: corrispondenti che spendevano il proprio tempo a dar conto delle reazioni delle varie parti politiche ad un evento della cui trivialità non sto a dilungarmi, capipartito e parlamentari della Repubblica i quali, nel più totale disinteresse di questioni di rilevanza nazionale o internazionale (e ce ne sarebbero!), si premuravano di ribadire la loro solidarietà e vicinanza al Primo Ministro, manco fosse stata colpita da un grave lutto o vittima di un attentato sanguinoso.
La mia reazione non è stata guidata solo dall'irrilevanza dell'evento e dall'attenzione inversamente proporzionale dedicatagli dai rappresentanti delle istituzioni: da tempo chi mi legge sa dell'opinione che tributo alla classe dirigente italiana, ormai degna dello Stato-fantoccio in cui prospera nello sfacelo generale, soddisfatta di un ruolo puramente parassitario e anzi felice di potersi disinteressare di qualsiasi tema di politica estera, interna o economica, delegando l'esercizio del potere a quei centri finanziari stranieri che drenano i miliardi (e il sangue) frutto di decenni di genio e lavoro, in cambio di quegli spiccioli, dati in forma di mazzette, e del tempo libero che una così infame situazione lascia. Una classe dirigente di ragazzini in perenne vacanza a spese e a danno del resto della popolazione. In realtà il mio stupore viene da un altro elemento, che trovo senza precedenti.
Chiunque sia abbastanza appassionato di storia delle civiltà sa come, nelle varie epoche, la vita privata dei reggitori dello Stato si sia intrecciata in diverso modo al loro apparire pubblico, e questo in particolare per la vita sessuale di re e imperatori, dittatori e presidenti. I legami coniugali, in special modo, dovevano venir seguiti con particolare interesse e solennità, soprattutto nelle monarchie ereditarie, dato che da quei matrimoni derivava la continuità della dinastia e un passaggio di consegne, alla morte del sovrano, priva di scossoni. Ogni problema che sorgeva in camera da letto, fosse un adulterio o la sterilità, metteva in pericolo la legittimità della successione o la successione stessa, e apriva lotte di potere sanguinose che potevano degenerare in guerre civili, a danno di tutti. Quindi, matrimoni e separazioni erano annunciati e consacrati in forme fisse e pubbliche, e non di rado benedetti anche dalla classe dei sacerdoti, in modo da renderli più solidi (o almeno da farli sembrare tali) in quanto partecipi del crisma divino. Poi ci sono stati periodi, e organizzazioni statali, che trattavano queste faccende in modo più o meno pragmatico. Ad esempio, durante il primo periodo dell'impero, a Roma il principato non era ereditario, e il primogenito dell'imperatore non era affatto automaticamente il suo successore, ma bastava un parente che fosse della linea Giulio-Claudia, almeno sino a Nerone, o che venisse scelto preventivamente dall'imperatore ancora vivo per le sue doti politico-militari, come da Nerva a Marco Aurelio. I casi di successione ereditaria, Vespasiano-Tito e Marco Aurelio-Commodo, furono più l'eccezione che la regola. Anche lì, però, i legami coniugali erano trattati con molto rispetto, essendo una parentela con la casa imperiale un fatto che implicava il rispetto di certe convenienze. L'imperatore doveva far attenzione a non esagerare con le stravaganze, ad esempio pretendendo di sposare una prostituta o la propria sorella, e chi azzardò tanto poi fece una brutta fine. E tuttavia, tributato il dovuto rispetto a queste forme, re e imperatori erano liberissimi di soddisfare le proprie voglie con chiunque gliene venisse capriccio: amanti donne e anche uomini erano la prassi, e nessuno ebbe mai da ridire, a patto che fossero relegati nelle camere da letto, e non esibiti in occasioni ufficiali, cosa che avrebbe significato un invasione di competenze.
In epoca medievale, anche sotto l'influenza del cristianesimo, si instaurò il principio dell'ereditarietà, anche per la sacralità accentuata che l'unione coniugale ricevette in quel periodo. Non che mancassero separazioni e divorzi, ma erano piuttosto rari, e i casi di Luigi VII e Filippo Augusto di Francia furono tanto famosi proprio perché eccezionali. Non di rado una moglie portava in dote territori o alleanze, e rompere formalmente significava perdere gli uni e le altre, al punto che era preferibile avvelenare discretamente un/a consorte piuttosto che separarsi. Ma anche lì, rispettata la forma, cosa poi facessero re e regine nelle private stanze erano affari loro, e semmai chi avesse voluto spettegolarne troppo avrebbe rischiato il collo. Enrico VIII doveva per forza di cose informare ufficialmente il Parlamento e il regno delle sue intenzioni di divorziare da Caterina d'Aragona e sposare Anna Bolena, ma se poi nel tempo libero si trastullava con altre gentildonne non gli sarebbe passato per la testa di farne annuncio formale. Idem per il re Sole e per il suo successore, i cui appetiti sessuali divennero celebri e che esibirono anche le proprie amanti nelle occasioni formali, persino mentre la sposa ufficiale era ancora viva, ma che gestivano comunque la scelta delle compagne di letto e la loro dipartita in privato (cosa da notare per una società, quella di corte a Versailles, in cui la vita del re non aveva quasi nulla di privato, dal momento in cui si svegliava a quello in cui si svestiva per andare a letto, tutti ben seguiti da un codazzo di cortigiani e codificati sin nei dettagli).
È nelle società democratiche che è entrato il principio moderno di separazione totale fra la vita pubblica e quella privata del politico. Certo, si è affermato molto lentamente e affrontando lunghe resistenze, come residuo della morale cristiana e poi borghese, tant'è che nel mondo anglosassone, e massime negli USA, eventuali legami extraconiugali hanno rappresentato spesso la fine di brillanti carriere politiche. Situazione obbiettivamente ridicola, nel paese che ha sdoganato la pornografia come espressione del pensiero e della libertà artistica, e di cui in Italia e in Europa, giustamente, si rideva: tutti sanno delle amanti di Craxi negli anni '80, ma la cosa rimase a livello di pettegolezzo e neppure coi più sovrumani sforzi la stampa di allora avrebbe potuto far sì che assurgessero all'importanza di argomento in campagna elettorale. E anche se abbiamo visto una campagna stampa senza precedenti fare delle mutande di Ruby il fulcro del dibattito pubblico per anni, cosa di per sé segno di una pesante degenerazione nel costume, bisognava comunque che il fatto fosse sostenuto da considerazioni di rispettabilità e dignità per la carica di Presidente del Consiglio, e persino di pericolo per la sicurezza nazionale, se (e ci sono stati illustri precedenti) qualcuna delle belle accompagnatrici fosse in realtà stata un agente al soldo di potenze straniere. Il fatto in sé che Berlusconi andasse a letto con delle ragazze, anche molto più giovani di lui, è stato considerato dalla stragrande maggioranza del pubblico come fatti suoi.
Qui invece siamo ad un livello differente. Una persona che sta al massimo vertice istituzionale ed è responsabile delle politiche nazionali (che poi le decida lei o si faccia manovrare è altra cosa) usa un canale ufficiale per informare Parlamento e cittadinanza della rottura con il suo convivente, col quale non è nemmeno formalmente sposata. Il fatto che abbiano una figlia non aggiunge rilievo alla cosa: almeno sino a quando la carica di Presidente del Consiglio non sia ereditaria. Nè Giambruno è personaggio le cui qualità meritino cotanta commozione: lavora da anni in Mediaset come conduttore senza particolare lustro, ed è emerso recentemente come dispensatore di banalità e simpatico puttaniere (senza che questo possa valergli l'accusa di usurpare il posto a qualcuno con più competenze: in quel posto sono quelle le competenze). E l'evento surreale lo diventa ancora di più quando, in risposta, dalle istituzioni e dai partiti politici non arriva un imbarazzato silenzio o un sonoro “e chi se ne frega”, ma una pletora di partecipazioni e manifestazioni di simpatia che, sinceramente, in un Paese in costante impoverimento, avrebbero trovato miglior destinatario. Insomma, neppure in società in cui si seguivano con interesse le copule regali a Luigi XIV sarebbe passato per la mente di annunciare in Consiglio (e poi spedire messi ad ogni parlamento regionale) sulla fine della propria relazione con La Valliére, né Nerone si sarebbe presentato in Senato per informare d'essersi stancato di Celia Adriana (tant'è che noi a malapena conosciamo il nome di questa donna di cui pure fu perdutamente innamorato), e neppure nella più scalcagnata delle commedie italiane sarebbe stato credibile un Mussolini che si affaccia da Palazzo Venezia per far sapere di Claretta Petacci. Qui invece abbiamo un sistema politico così vuoto e privo di ogni reale funzione, che i suoi appartenenti, dopo un anno di governo in cui non si capisce chi abbia fatto la maggioranza e chi l'opposizione, non hanno alcun pudore nell'impiegare un tempo pagato (da noi) a carissimo prezzo occupandosi delle questioni relazionali della Presidente del Consiglio (che non a caso dopo un anno è ricordata solo per essere la prima donna in quella posizione). Un atteggiamento che non è solo criminale, ma è anche folle, considerato come il paese, nel frattempo, nella loro totale inerzia si trova ad aver gettato miliardi in armi regalate per guerre in cui non abbiamo alcun interesse, viene giornalmente invaso a ritmo sempre maggiore da orde di individui affamati e non precisamente imbevuti di civiltà del diritto, e non ha più alcun controllo delle leve fondamentali nella vita di uno Stato, dalla moneta all'esercito. Sembra che costoro, seduti sui loro scranni parlamentari o ministeriali, condividano appieno la frase attribuita a Luigi XV mentre accarezzava la sua bella madame de Pompadour: “dopo di noi, il diluvio”. E si aspettino che il mondo finisca dopo la loro indecente permanenza su questa terra. Nel frattempo lo scollamento con la società è arrivato ad un livello totale, abissale, eppure sembra che questi neppure sospettino possa mai esserci qualche reazione di fastidio al loro vivere fra di loro, parlandosi solo fra di loro e occupandosi solo del proprio ombelico. Realizzando, per qualche cortocircuito psichiatrico, un'altra affermazione regale, stavolta attribuita (ma poco credibilmente) al Re Sole: “Lo Stato sono io”. Con la differenza che sia Luigi XIV che suo nipote non cessarono mai di interessarsi agli affari pubblici, mentre questi, oltre ad esserne completamente incapaci, neppure abbiano il sospetto che tali affari esistano e che loro dovrebbero almeno far finta di occuparsene. Un caso di isolamento così plateale che, per quanto io abbia letto da più di trent'anni una mole di materiale su epoche e civiltà del mondo, non ricordo sia mai esistito in queste proporzioni.
La mia reazione non è stata guidata solo dall'irrilevanza dell'evento e dall'attenzione inversamente proporzionale dedicatagli dai rappresentanti delle istituzioni: da tempo chi mi legge sa dell'opinione che tributo alla classe dirigente italiana, ormai degna dello Stato-fantoccio in cui prospera nello sfacelo generale, soddisfatta di un ruolo puramente parassitario e anzi felice di potersi disinteressare di qualsiasi tema di politica estera, interna o economica, delegando l'esercizio del potere a quei centri finanziari stranieri che drenano i miliardi (e il sangue) frutto di decenni di genio e lavoro, in cambio di quegli spiccioli, dati in forma di mazzette, e del tempo libero che una così infame situazione lascia. Una classe dirigente di ragazzini in perenne vacanza a spese e a danno del resto della popolazione. In realtà il mio stupore viene da un altro elemento, che trovo senza precedenti.
Chiunque sia abbastanza appassionato di storia delle civiltà sa come, nelle varie epoche, la vita privata dei reggitori dello Stato si sia intrecciata in diverso modo al loro apparire pubblico, e questo in particolare per la vita sessuale di re e imperatori, dittatori e presidenti. I legami coniugali, in special modo, dovevano venir seguiti con particolare interesse e solennità, soprattutto nelle monarchie ereditarie, dato che da quei matrimoni derivava la continuità della dinastia e un passaggio di consegne, alla morte del sovrano, priva di scossoni. Ogni problema che sorgeva in camera da letto, fosse un adulterio o la sterilità, metteva in pericolo la legittimità della successione o la successione stessa, e apriva lotte di potere sanguinose che potevano degenerare in guerre civili, a danno di tutti. Quindi, matrimoni e separazioni erano annunciati e consacrati in forme fisse e pubbliche, e non di rado benedetti anche dalla classe dei sacerdoti, in modo da renderli più solidi (o almeno da farli sembrare tali) in quanto partecipi del crisma divino. Poi ci sono stati periodi, e organizzazioni statali, che trattavano queste faccende in modo più o meno pragmatico. Ad esempio, durante il primo periodo dell'impero, a Roma il principato non era ereditario, e il primogenito dell'imperatore non era affatto automaticamente il suo successore, ma bastava un parente che fosse della linea Giulio-Claudia, almeno sino a Nerone, o che venisse scelto preventivamente dall'imperatore ancora vivo per le sue doti politico-militari, come da Nerva a Marco Aurelio. I casi di successione ereditaria, Vespasiano-Tito e Marco Aurelio-Commodo, furono più l'eccezione che la regola. Anche lì, però, i legami coniugali erano trattati con molto rispetto, essendo una parentela con la casa imperiale un fatto che implicava il rispetto di certe convenienze. L'imperatore doveva far attenzione a non esagerare con le stravaganze, ad esempio pretendendo di sposare una prostituta o la propria sorella, e chi azzardò tanto poi fece una brutta fine. E tuttavia, tributato il dovuto rispetto a queste forme, re e imperatori erano liberissimi di soddisfare le proprie voglie con chiunque gliene venisse capriccio: amanti donne e anche uomini erano la prassi, e nessuno ebbe mai da ridire, a patto che fossero relegati nelle camere da letto, e non esibiti in occasioni ufficiali, cosa che avrebbe significato un invasione di competenze.
In epoca medievale, anche sotto l'influenza del cristianesimo, si instaurò il principio dell'ereditarietà, anche per la sacralità accentuata che l'unione coniugale ricevette in quel periodo. Non che mancassero separazioni e divorzi, ma erano piuttosto rari, e i casi di Luigi VII e Filippo Augusto di Francia furono tanto famosi proprio perché eccezionali. Non di rado una moglie portava in dote territori o alleanze, e rompere formalmente significava perdere gli uni e le altre, al punto che era preferibile avvelenare discretamente un/a consorte piuttosto che separarsi. Ma anche lì, rispettata la forma, cosa poi facessero re e regine nelle private stanze erano affari loro, e semmai chi avesse voluto spettegolarne troppo avrebbe rischiato il collo. Enrico VIII doveva per forza di cose informare ufficialmente il Parlamento e il regno delle sue intenzioni di divorziare da Caterina d'Aragona e sposare Anna Bolena, ma se poi nel tempo libero si trastullava con altre gentildonne non gli sarebbe passato per la testa di farne annuncio formale. Idem per il re Sole e per il suo successore, i cui appetiti sessuali divennero celebri e che esibirono anche le proprie amanti nelle occasioni formali, persino mentre la sposa ufficiale era ancora viva, ma che gestivano comunque la scelta delle compagne di letto e la loro dipartita in privato (cosa da notare per una società, quella di corte a Versailles, in cui la vita del re non aveva quasi nulla di privato, dal momento in cui si svegliava a quello in cui si svestiva per andare a letto, tutti ben seguiti da un codazzo di cortigiani e codificati sin nei dettagli).
È nelle società democratiche che è entrato il principio moderno di separazione totale fra la vita pubblica e quella privata del politico. Certo, si è affermato molto lentamente e affrontando lunghe resistenze, come residuo della morale cristiana e poi borghese, tant'è che nel mondo anglosassone, e massime negli USA, eventuali legami extraconiugali hanno rappresentato spesso la fine di brillanti carriere politiche. Situazione obbiettivamente ridicola, nel paese che ha sdoganato la pornografia come espressione del pensiero e della libertà artistica, e di cui in Italia e in Europa, giustamente, si rideva: tutti sanno delle amanti di Craxi negli anni '80, ma la cosa rimase a livello di pettegolezzo e neppure coi più sovrumani sforzi la stampa di allora avrebbe potuto far sì che assurgessero all'importanza di argomento in campagna elettorale. E anche se abbiamo visto una campagna stampa senza precedenti fare delle mutande di Ruby il fulcro del dibattito pubblico per anni, cosa di per sé segno di una pesante degenerazione nel costume, bisognava comunque che il fatto fosse sostenuto da considerazioni di rispettabilità e dignità per la carica di Presidente del Consiglio, e persino di pericolo per la sicurezza nazionale, se (e ci sono stati illustri precedenti) qualcuna delle belle accompagnatrici fosse in realtà stata un agente al soldo di potenze straniere. Il fatto in sé che Berlusconi andasse a letto con delle ragazze, anche molto più giovani di lui, è stato considerato dalla stragrande maggioranza del pubblico come fatti suoi.
Qui invece siamo ad un livello differente. Una persona che sta al massimo vertice istituzionale ed è responsabile delle politiche nazionali (che poi le decida lei o si faccia manovrare è altra cosa) usa un canale ufficiale per informare Parlamento e cittadinanza della rottura con il suo convivente, col quale non è nemmeno formalmente sposata. Il fatto che abbiano una figlia non aggiunge rilievo alla cosa: almeno sino a quando la carica di Presidente del Consiglio non sia ereditaria. Nè Giambruno è personaggio le cui qualità meritino cotanta commozione: lavora da anni in Mediaset come conduttore senza particolare lustro, ed è emerso recentemente come dispensatore di banalità e simpatico puttaniere (senza che questo possa valergli l'accusa di usurpare il posto a qualcuno con più competenze: in quel posto sono quelle le competenze). E l'evento surreale lo diventa ancora di più quando, in risposta, dalle istituzioni e dai partiti politici non arriva un imbarazzato silenzio o un sonoro “e chi se ne frega”, ma una pletora di partecipazioni e manifestazioni di simpatia che, sinceramente, in un Paese in costante impoverimento, avrebbero trovato miglior destinatario. Insomma, neppure in società in cui si seguivano con interesse le copule regali a Luigi XIV sarebbe passato per la mente di annunciare in Consiglio (e poi spedire messi ad ogni parlamento regionale) sulla fine della propria relazione con La Valliére, né Nerone si sarebbe presentato in Senato per informare d'essersi stancato di Celia Adriana (tant'è che noi a malapena conosciamo il nome di questa donna di cui pure fu perdutamente innamorato), e neppure nella più scalcagnata delle commedie italiane sarebbe stato credibile un Mussolini che si affaccia da Palazzo Venezia per far sapere di Claretta Petacci. Qui invece abbiamo un sistema politico così vuoto e privo di ogni reale funzione, che i suoi appartenenti, dopo un anno di governo in cui non si capisce chi abbia fatto la maggioranza e chi l'opposizione, non hanno alcun pudore nell'impiegare un tempo pagato (da noi) a carissimo prezzo occupandosi delle questioni relazionali della Presidente del Consiglio (che non a caso dopo un anno è ricordata solo per essere la prima donna in quella posizione). Un atteggiamento che non è solo criminale, ma è anche folle, considerato come il paese, nel frattempo, nella loro totale inerzia si trova ad aver gettato miliardi in armi regalate per guerre in cui non abbiamo alcun interesse, viene giornalmente invaso a ritmo sempre maggiore da orde di individui affamati e non precisamente imbevuti di civiltà del diritto, e non ha più alcun controllo delle leve fondamentali nella vita di uno Stato, dalla moneta all'esercito. Sembra che costoro, seduti sui loro scranni parlamentari o ministeriali, condividano appieno la frase attribuita a Luigi XV mentre accarezzava la sua bella madame de Pompadour: “dopo di noi, il diluvio”. E si aspettino che il mondo finisca dopo la loro indecente permanenza su questa terra. Nel frattempo lo scollamento con la società è arrivato ad un livello totale, abissale, eppure sembra che questi neppure sospettino possa mai esserci qualche reazione di fastidio al loro vivere fra di loro, parlandosi solo fra di loro e occupandosi solo del proprio ombelico. Realizzando, per qualche cortocircuito psichiatrico, un'altra affermazione regale, stavolta attribuita (ma poco credibilmente) al Re Sole: “Lo Stato sono io”. Con la differenza che sia Luigi XIV che suo nipote non cessarono mai di interessarsi agli affari pubblici, mentre questi, oltre ad esserne completamente incapaci, neppure abbiano il sospetto che tali affari esistano e che loro dovrebbero almeno far finta di occuparsene. Un caso di isolamento così plateale che, per quanto io abbia letto da più di trent'anni una mole di materiale su epoche e civiltà del mondo, non ricordo sia mai esistito in queste proporzioni.
Mi chiedo quanto possa ancora tardare il Diluvio.