Il liceo classico è un'istituzione anacronistica, inutile nell'epoca attuale, una gran perdita di tempo, qualcosa da abolire al più presto a favore di scuole professionali per agricoltori, idraulici ed elettricisti (prima che tutti i ragazzi divengano influencer e non si trovi più nessuno capace di produrre un po' di cereali, aggiustare una presa elettrica o far ripartire l'acqua corrente). È un concetto che ho già espresso, rafforzato dal fatto di averci perso cinque anni della mia vita. Eppure, forse proprio in virtù di questa sua caratteristica così fuori dal mondo e dalla società dei consumi, è anche l'unico posto in cui è possibile apprendere concetti e fatti che spiegano la vita molto meglio che tutti i premi Nobel in Economia passati e futuri.
Ad esempio, è più facile scoprire, sprofondati nelle lettere classiche, che l'imperatore Augusto, nel 18 avanti Cristo, decise di istituire quasi un intero mese dedicato al riposo e che da lui prese il nome: Feriae Augusti, il “riposo di Augusto”, del quale a noi rimane solo la corruzione di “Ferragosto”. Il concetto che a noi è rimasto rinsecchito e atrofizzato ad un solo giorno, come ben si addice alla nostra epoca, era molto semplice. Chi lavora nel settore agricolo sa come in questo tipo di attività non esistono ferie, né malattia, né congedi straordinari. Le bestie mangiano tutti i giorni, i campi e le colture vanno curati sempre, e se questo è vero oggi, figuriamoci venti secoli fa, quando tutto veniva fatto a mano. In epoca imperiale, se a Roma ormai si lavorava sempre meno e si campava di distribuzioni gratuite di cereali (il corrispondente del compianto RdC), nei campi e in provincia era ben diverso, e il settore che occupava il maggior numero di braccia era, ovviamente, quello agricolo. Ottaviano Augusto, personaggio straordinario e secondo solo allo stesso Giulio Cesare, volle ufficializzare un periodo di riposo che valesse per tutti, anche e soprattutto per chi viveva in campagna, e decise per il mese che oggi porta il suo nome non a caso: le ultime importanti operazioni della stagione, ossia la mietitura, si concludono ai primi di agosto, quando un'interruzione relativa non farebbe troppo danno. Ma il motivo principale non era solo quello di costringere contadini e allevatori a starsene con le mani in mano come la plebe di Roma. Chi conosce la cultura e la letteratura classiche sa che al concetto di “otium” non era attaccato alcuno stigma negativo, semmai il contrario. L'ozio, per il cittadino romano, era una benedizione, un privilegio concesso alle classi alte che potevano così dedicarsi alla propria formazione culturale, a quella dei figli, allo studio delle arti e anche alla composizione di opere dello spirito. Insomma, tutto ciò che, nella concezione dell'epoca, faceva un uomo degno di questo nome. Ed era contrapposto al “negotium”, ossia al lavoro manuale, quello sì vera maledizione che ricadeva su chi non aveva i mezzi per elevarsi spiritualmente e doveva vivere assorbito dal lavoro e abbrutito dalle necessità materiali, sino alla fine (non esisteva ancora la pensione). Se ci pensiamo bene, è un punto di vista del tutto naturale e ragionevole, e potersi dedicare a qualcosa per passione e non spinti dalla dura necessità è il desiderio di qualunque persona sensata. Persino la Bibbia nella Genesi sposa questa concezione, quando Dio, per punire Adamo ed Eva della disobbedienza, condanna il primo a cavare dalla terra i suoi frutti col sudore della fronte, concezione che era ben più antica, dato che nella “Satira dei mestieri” egizia, risalente al Medio Regno (2170-1750 a.C.) del contadino si dice che “sta bene come uno che sta fra i leoni”.
Col cristianesimo le cose cambiano, se già Paolo poteva permettersi di dire “chi non lavora non mangi”, dato che lui stesso praticava qualche lavoro manuale per sostentarsi, e la polemica pauperista contro le classi privilegiate, che erano privilegiate proprio perché vivevano lontano dalle preoccupazioni materiali, durò per secoli attraverso tutto il Medioevo sino all'età moderna. L'ascesa della borghesia, classe sociale che non solo lavora per vivere, ma che cavalca il lavoro per costruire il proprio successo, la propria influenza e prepara la conquista del potere, è essenziale per comprendere il cambio di paradigma, e di come si passi dall'invettiva contro chi non lavora alla glorificazione del lavoro. “Il lavoro nobilita l'uomo” è una delle divise ideologiche più velenose della classe borghese, che cerca di costruire la propria “nobiltà” e dignità contro a quella dell'aristocrazia non rubandole i titoli, come aveva inizialmente fatto infiltrandosi come “nobiltà di toga”, ma rovesciando la radice del merito (e quindi della detenzione del potere) trasferendola a ciò che le era proprio. Ma è nel nostro tempo, dopo le rivoluzioni industriali e quella digitale, che il lavoro è passato ad essere un'ossessione e una malattia. Anzi, prima una malattia.
Esiste un termine, nelle lingue anglosassoni (e non è casuale che non esista un termine singolo per tradurlo nelle lingue latine...), che indica chi è dominato dal bisogno patologico di lavorare, produrre, esibire risultati in ambito lavorativo: workaholic, il quale richiama l'alcolismo anche filologicamente. E non è un accostamento errato. Quando mi interessai, per un periodo della mia vita, alla cultura giapponese, e lessi parecchi libri sulla vita e sulla società nipponica, incontrai per la prima volta questo termine. Pare che la degenerazione del lavoro in mania compulsiva sia iniziata lì, insieme alla tendenza a passare gran parte della giornata in spostamenti pendolari e a dormire in alloggi minuscoli sempre per adattarsi alle necessità lavorative, e nonostante fosse sino agli anni '80 stigmatizzata come la negazione di una vita sana, abbia poi tracimato, manco a dirlo, prima nel mondo anglosassone, e poi nel resto del cosiddetto “Occidente”. Io stesso, quando lavorai per alcuni anni in una multinazionale, esperienza notevole ed istruttiva ma che fatta una volta basta e avanza, sapevo di gente che, di sabato mattina, era in ufficio a lavorare, evidentemente per mancanza di meglio, o che, il giorno del proprio compleanno, costringeva anche i colleghi coi quali lavorava ad un progetto a stare dietro al computer ancora a mezzanotte perché c'era da fare bella figura col capo. Non faccio il puritano, anche io ho fatto delle levatacce o le ore piccole quando c'erano (e tutt'ora ci sono) delle emergenze, ma col pensiero fisso alla loro conclusione prima possibile, per ricominciare a vivere subito dopo, e non, come facevano quelli, al raggiungimento del risultato come ragione in sé per essere soddisfatti della propria esistenza.
Perché questo è divenuta la società di inizio del III Millennio: una triste accolita di individui, non più legati da alcun denominatore comune e anzi divisi da tutto, dominati dall'invidia per chi ha anche solo un centesimo di suo (invidia abilmente rinfocolata dalla propaganda di regime, come visto per il reddito di cittadinanza), dalla paura per un futuro che di roseo non ha più nulla, e dall'ansia da prestazione in contesti lavorativi sempre più predatori, in cui i diritti (ad un orario, alle ferie, ad un salario minimo) sono presentati come arroganti pretese da fannulloni che “non hanno voglia di lavorare”. Come fu risposto a me quando, appena arrivato in un ufficio di una prestigiosa multinazionale italiana chiesi che orario facessero. “Qui si lavora”, fu l'ottusa ma rivelatrice risposta. Come se avessi chiesto se potessi giocare a tennis in corridoio o usare i bagni per fare la sauna. In realtà si intendeva “qui non ci sono orari”, ma nel senso di orari minimi, non certo massimi.
A questa disumanizzazione degli ambienti di lavoro e dello stesso rapporto della società e dell'individuo col lavoro si è arrivati, com'è ovvio, per gradi, anche se alcuni sono stati più accelerati di altri. Ricordo come in molti editoriali e su riviste dell'intellighenzia di sinistra degli anni '90 si ironizzava sulle opere che tratteggiavano la decadenza della borghesia nel XIX e XX secolo, come “I Buddenbrook” di Thomas Mann, giocando sul fatto che, col crollo dell'URSS, essa pareva piuttosto in buona salute. Il paragone era assai stupido e miope, confondendo capitalismo e borghesia. Perché già allora la borghesia come classe sociale era in pieno disfacimento e le classi medie che ne avevano costituito la sostanza erano sempre più in difficoltà, cosa che non solo romanzieri come Tom Wolfe ma le stesse statistiche mettevano nero su bianco a partire dagli anni '80. Essa, come forza trainante dell'economia di mercato, era stata semplicemente sostituita dalla finanza, ossia dal denaro, una forza impersonale che non ha bisogno degli esseri umani per esistere, o almeno non di nessuno in particolare, se non di una massa obbediente pronta anche a indebitarsi pur di soddisfare l'ansia da prestazione collettiva impersonata dalla “crescita”, in particolare quella del PIL, ossia l'indicatore più stupido e meno utile per valutare la forza e l'entità dei complessi produttivi e sociali nazionali, e che ciononostante (o forse proprio per questo) ne è diventato l'unico metro e l'ossessione dominante. Facile capire come in questo sistema ciascuno non possa che sentirsi irrilevante, oppresso e infelice.
E facile anche comprendere come un monarca assoluto di venti secoli fa trovasse invece salutare per la tenuta sociale imporre un mese di riposo a tutta la popolazione lavoratrice perché, fermandosi, si potessero ritemprare le energie fisiche e spirituali, che un lavoro continuo e ossessivo non può che logorare. Concetto facile da comprendere, ma oggi come non mai impossibile non solo da applicare, ma anche solo da discutere. Ce la vedreste l'imposizione di un mese di ferie ad agosto per tutti? Il governo (che neppure vuole discutere di salario minimo) paventerebbe attentati all'economia nazionale (la stessa che però è stata smantellata mandando tutte le imprese migliori in Cina), Confindustria calcolerebbe la perdita netta sulla produzione annua, l'Unione Europea intimerebbe l'alt agli attentati al libero mercato, e il popolo bue si accapiglierebbe sui social fra chi le ferie le vorrebbe a dicembre e chi inveisse contro a “fannulloni e parassiti” rei di pesare sulle povere finanze statali, rubando quei soldi di cui l'Ucraina e i parlamentari han tanto bisogno.
Non meraviglia che il Secolo di Augusto sia passato alla storia come un'età dell'oro per la produzione artistica e letteraria, oltre che per la prosperità materiale e la potenza politico-militare. Era gente, quella, che aveva la saggezza di dire “mens sana in corpore sano”, sapendo che mente e corpo vanno accoppiati. Noi, che ci disinteressiamo di entrambi e abbiamo posto il mezzo in vece del fine, al più abbiamo prodotto le inutili geremiadi di un Saviano o le blasfeme (quando non plagiarie) sciocchezze della Murgia.
Direi che ci meritiamo anche la scomparsa del riposo.
Ad esempio, è più facile scoprire, sprofondati nelle lettere classiche, che l'imperatore Augusto, nel 18 avanti Cristo, decise di istituire quasi un intero mese dedicato al riposo e che da lui prese il nome: Feriae Augusti, il “riposo di Augusto”, del quale a noi rimane solo la corruzione di “Ferragosto”. Il concetto che a noi è rimasto rinsecchito e atrofizzato ad un solo giorno, come ben si addice alla nostra epoca, era molto semplice. Chi lavora nel settore agricolo sa come in questo tipo di attività non esistono ferie, né malattia, né congedi straordinari. Le bestie mangiano tutti i giorni, i campi e le colture vanno curati sempre, e se questo è vero oggi, figuriamoci venti secoli fa, quando tutto veniva fatto a mano. In epoca imperiale, se a Roma ormai si lavorava sempre meno e si campava di distribuzioni gratuite di cereali (il corrispondente del compianto RdC), nei campi e in provincia era ben diverso, e il settore che occupava il maggior numero di braccia era, ovviamente, quello agricolo. Ottaviano Augusto, personaggio straordinario e secondo solo allo stesso Giulio Cesare, volle ufficializzare un periodo di riposo che valesse per tutti, anche e soprattutto per chi viveva in campagna, e decise per il mese che oggi porta il suo nome non a caso: le ultime importanti operazioni della stagione, ossia la mietitura, si concludono ai primi di agosto, quando un'interruzione relativa non farebbe troppo danno. Ma il motivo principale non era solo quello di costringere contadini e allevatori a starsene con le mani in mano come la plebe di Roma. Chi conosce la cultura e la letteratura classiche sa che al concetto di “otium” non era attaccato alcuno stigma negativo, semmai il contrario. L'ozio, per il cittadino romano, era una benedizione, un privilegio concesso alle classi alte che potevano così dedicarsi alla propria formazione culturale, a quella dei figli, allo studio delle arti e anche alla composizione di opere dello spirito. Insomma, tutto ciò che, nella concezione dell'epoca, faceva un uomo degno di questo nome. Ed era contrapposto al “negotium”, ossia al lavoro manuale, quello sì vera maledizione che ricadeva su chi non aveva i mezzi per elevarsi spiritualmente e doveva vivere assorbito dal lavoro e abbrutito dalle necessità materiali, sino alla fine (non esisteva ancora la pensione). Se ci pensiamo bene, è un punto di vista del tutto naturale e ragionevole, e potersi dedicare a qualcosa per passione e non spinti dalla dura necessità è il desiderio di qualunque persona sensata. Persino la Bibbia nella Genesi sposa questa concezione, quando Dio, per punire Adamo ed Eva della disobbedienza, condanna il primo a cavare dalla terra i suoi frutti col sudore della fronte, concezione che era ben più antica, dato che nella “Satira dei mestieri” egizia, risalente al Medio Regno (2170-1750 a.C.) del contadino si dice che “sta bene come uno che sta fra i leoni”.
Col cristianesimo le cose cambiano, se già Paolo poteva permettersi di dire “chi non lavora non mangi”, dato che lui stesso praticava qualche lavoro manuale per sostentarsi, e la polemica pauperista contro le classi privilegiate, che erano privilegiate proprio perché vivevano lontano dalle preoccupazioni materiali, durò per secoli attraverso tutto il Medioevo sino all'età moderna. L'ascesa della borghesia, classe sociale che non solo lavora per vivere, ma che cavalca il lavoro per costruire il proprio successo, la propria influenza e prepara la conquista del potere, è essenziale per comprendere il cambio di paradigma, e di come si passi dall'invettiva contro chi non lavora alla glorificazione del lavoro. “Il lavoro nobilita l'uomo” è una delle divise ideologiche più velenose della classe borghese, che cerca di costruire la propria “nobiltà” e dignità contro a quella dell'aristocrazia non rubandole i titoli, come aveva inizialmente fatto infiltrandosi come “nobiltà di toga”, ma rovesciando la radice del merito (e quindi della detenzione del potere) trasferendola a ciò che le era proprio. Ma è nel nostro tempo, dopo le rivoluzioni industriali e quella digitale, che il lavoro è passato ad essere un'ossessione e una malattia. Anzi, prima una malattia.
Esiste un termine, nelle lingue anglosassoni (e non è casuale che non esista un termine singolo per tradurlo nelle lingue latine...), che indica chi è dominato dal bisogno patologico di lavorare, produrre, esibire risultati in ambito lavorativo: workaholic, il quale richiama l'alcolismo anche filologicamente. E non è un accostamento errato. Quando mi interessai, per un periodo della mia vita, alla cultura giapponese, e lessi parecchi libri sulla vita e sulla società nipponica, incontrai per la prima volta questo termine. Pare che la degenerazione del lavoro in mania compulsiva sia iniziata lì, insieme alla tendenza a passare gran parte della giornata in spostamenti pendolari e a dormire in alloggi minuscoli sempre per adattarsi alle necessità lavorative, e nonostante fosse sino agli anni '80 stigmatizzata come la negazione di una vita sana, abbia poi tracimato, manco a dirlo, prima nel mondo anglosassone, e poi nel resto del cosiddetto “Occidente”. Io stesso, quando lavorai per alcuni anni in una multinazionale, esperienza notevole ed istruttiva ma che fatta una volta basta e avanza, sapevo di gente che, di sabato mattina, era in ufficio a lavorare, evidentemente per mancanza di meglio, o che, il giorno del proprio compleanno, costringeva anche i colleghi coi quali lavorava ad un progetto a stare dietro al computer ancora a mezzanotte perché c'era da fare bella figura col capo. Non faccio il puritano, anche io ho fatto delle levatacce o le ore piccole quando c'erano (e tutt'ora ci sono) delle emergenze, ma col pensiero fisso alla loro conclusione prima possibile, per ricominciare a vivere subito dopo, e non, come facevano quelli, al raggiungimento del risultato come ragione in sé per essere soddisfatti della propria esistenza.
Perché questo è divenuta la società di inizio del III Millennio: una triste accolita di individui, non più legati da alcun denominatore comune e anzi divisi da tutto, dominati dall'invidia per chi ha anche solo un centesimo di suo (invidia abilmente rinfocolata dalla propaganda di regime, come visto per il reddito di cittadinanza), dalla paura per un futuro che di roseo non ha più nulla, e dall'ansia da prestazione in contesti lavorativi sempre più predatori, in cui i diritti (ad un orario, alle ferie, ad un salario minimo) sono presentati come arroganti pretese da fannulloni che “non hanno voglia di lavorare”. Come fu risposto a me quando, appena arrivato in un ufficio di una prestigiosa multinazionale italiana chiesi che orario facessero. “Qui si lavora”, fu l'ottusa ma rivelatrice risposta. Come se avessi chiesto se potessi giocare a tennis in corridoio o usare i bagni per fare la sauna. In realtà si intendeva “qui non ci sono orari”, ma nel senso di orari minimi, non certo massimi.
A questa disumanizzazione degli ambienti di lavoro e dello stesso rapporto della società e dell'individuo col lavoro si è arrivati, com'è ovvio, per gradi, anche se alcuni sono stati più accelerati di altri. Ricordo come in molti editoriali e su riviste dell'intellighenzia di sinistra degli anni '90 si ironizzava sulle opere che tratteggiavano la decadenza della borghesia nel XIX e XX secolo, come “I Buddenbrook” di Thomas Mann, giocando sul fatto che, col crollo dell'URSS, essa pareva piuttosto in buona salute. Il paragone era assai stupido e miope, confondendo capitalismo e borghesia. Perché già allora la borghesia come classe sociale era in pieno disfacimento e le classi medie che ne avevano costituito la sostanza erano sempre più in difficoltà, cosa che non solo romanzieri come Tom Wolfe ma le stesse statistiche mettevano nero su bianco a partire dagli anni '80. Essa, come forza trainante dell'economia di mercato, era stata semplicemente sostituita dalla finanza, ossia dal denaro, una forza impersonale che non ha bisogno degli esseri umani per esistere, o almeno non di nessuno in particolare, se non di una massa obbediente pronta anche a indebitarsi pur di soddisfare l'ansia da prestazione collettiva impersonata dalla “crescita”, in particolare quella del PIL, ossia l'indicatore più stupido e meno utile per valutare la forza e l'entità dei complessi produttivi e sociali nazionali, e che ciononostante (o forse proprio per questo) ne è diventato l'unico metro e l'ossessione dominante. Facile capire come in questo sistema ciascuno non possa che sentirsi irrilevante, oppresso e infelice.
E facile anche comprendere come un monarca assoluto di venti secoli fa trovasse invece salutare per la tenuta sociale imporre un mese di riposo a tutta la popolazione lavoratrice perché, fermandosi, si potessero ritemprare le energie fisiche e spirituali, che un lavoro continuo e ossessivo non può che logorare. Concetto facile da comprendere, ma oggi come non mai impossibile non solo da applicare, ma anche solo da discutere. Ce la vedreste l'imposizione di un mese di ferie ad agosto per tutti? Il governo (che neppure vuole discutere di salario minimo) paventerebbe attentati all'economia nazionale (la stessa che però è stata smantellata mandando tutte le imprese migliori in Cina), Confindustria calcolerebbe la perdita netta sulla produzione annua, l'Unione Europea intimerebbe l'alt agli attentati al libero mercato, e il popolo bue si accapiglierebbe sui social fra chi le ferie le vorrebbe a dicembre e chi inveisse contro a “fannulloni e parassiti” rei di pesare sulle povere finanze statali, rubando quei soldi di cui l'Ucraina e i parlamentari han tanto bisogno.
Non meraviglia che il Secolo di Augusto sia passato alla storia come un'età dell'oro per la produzione artistica e letteraria, oltre che per la prosperità materiale e la potenza politico-militare. Era gente, quella, che aveva la saggezza di dire “mens sana in corpore sano”, sapendo che mente e corpo vanno accoppiati. Noi, che ci disinteressiamo di entrambi e abbiamo posto il mezzo in vece del fine, al più abbiamo prodotto le inutili geremiadi di un Saviano o le blasfeme (quando non plagiarie) sciocchezze della Murgia.
Direi che ci meritiamo anche la scomparsa del riposo.