Dopo aver letto i necrologi d'eccezione di Filippo Barbera e Franco Marino, che per l'occasione si sono superati, ho dovuto defalcare molte voci che avrei voluto toccare nel mio ricordo del fu Silvio Berlusconi. Ho avuto la notizia di questa morte pesante proprio dalle pagine del “La Grande Italia”, e in quel momento ho saputo che avrei dovuto comunque scrivere qualcosa su di un uomo che è entrato, nel bene come nel male, nella vita di chiunque, in Italia, abbia più di vent'anni. Ma nel diluvio di commenti e ricordi e condoglianze più o meno sentite, che nel caso di certi soggetti particolarmente organici al regime è stato uno sversamento di lai tossici e aneddoti o inverosimili o insignificanti (è arrivato persino il ricordo commosso dell'ANM, voglio dire... spero che almeno Travaglio abbia più pudore, ed eviti), ho sentito il bisogno di spegnere tutto e recuperare ciò che quest'uomo è stato per me, nei lunghi anni in cui ha monopolizzato, e per certi versi sequestrato, l'immaginario e il discorso pubblico italiani, tanto che all'estero, quando andai a viverci, era andato a togliere il posto ai classici “Mafia, pizza e spaghetti” che venivano appioppati ad ogni nativo dell'ex-Belpaese.
Chi mi legge sa già che la mia provenienza è di eretico e profugo. Nato e cresciuto in quella setta satanica che è la sinistra italiana, per gran parte della sua avventura politica nel vederlo e giudicarlo sono stato avvelenato dallo specchio deformante con cui i fogliacci di propaganda del gruppo DeBenedetti lo presentavano al proprio pubblico, pubblico che, a dire il vero, non chiedeva altro: un mafioso, un fascista, un tiranno in divenire, un pericolo pubblico da fermare al più presto e con ogni mezzo. Il motivo principale per cui dire la frase preferita dal progressista italiota: “Mi vergogno di essere italiano”. Ogni buon lettore di Micromega (io ero anche abbonato), Repubblica e l'Espresso non poteva svegliarsi al nuovo giorno senza ripetersi, orwellianamente, “Io odio Silvio Berlusconi”, senza rendersi conto, in uno dei tanti cortocircuiti di chi, da allora sino ad oggi, che questo è esattamente il comportamento dei volenterosi carnefici di regime del Grande Fratello, e non certo dei suoi martiri.
La svolta, che fu praticamente una vera illuminazione, la ebbi durante il caso Noemi Letizia, nella primavera del 2009, quando per una comparsata al compleanno di una ragazzina (presenti i genitori della stessa) i giornali che per me erano la bocca della verità partirono lancia in resta in una campagna di demonizzazione dai risvolti risibilmente moralistici e dai toni inquisitoriali. Lo schiaffo che mi svegliò dal mio sonno dogmatico fu un'intervista, che prendeva due pagine intere, data su Repubblica al fidanzato della ragazzina, dove non si diceva assolutamente niente. Ma che diavolo fanno questi, mi dissi? Adesso passiamo il tempo a ricamare pettegolezzi e facendo un caso di Stato per una presenza ad una festa dei 18 anni? Mi sentii, non vagamente come Fantozzi, ma fortemente e con il pieno di irritazione, preso per i fondelli. E reagii rovesciando il paradigma.
Non mi va di dilungarmi troppo, ma due cose mi avvicinarono al Berlusconi di quegli anni, paradossalmente quello della fine come leader e prossimo al lungo crepuscolo terminato oggi. Una fu la fascinazione estetica che si va a subire, dopo tanto, da ciò per cui si è provata tanta, troppa repulsione. Gli eccessi fisici e verbali, il fare esagerato, le feste traboccanti di bellezze non troppo vestite, la pacchianeria di certi riti collettivi (pensate a quell'inno “Meno male che Silvio c'è”), la sfacciataggine della barzelletta fuori luogo, la sovrabbondanza di belle donne con cui amava circondarsi, era tutto un violare ogni arcinota e sacrosanta legge non scritta delle convenzioni sociali. E che per questo, alla fine, trovai irresistibile, esilarante, adorabile proprio perché inaccettabile. Come il suo ritratto pop, finito all'apice della sua fase goliardica sulla copertina di “Rolling Stone”.
L'altra, ben più seria, fu la rivisitazione della sua politica estera alla luce di due elementi, anch'essi nuovi nel mio modo di vedere le cose: il machiavellismo di Kissinger e la visione, momentanea ma chiara, di cosa ci fosse dietro al velo della messinscena mediatica e istituzionale. Accadde nell'estate del 2010, quando, dalle parole di un diplomatico della Repubblica, sentii dire che era convinzione, agli alti livelli, che ci fosse la mano dei servizi segreti statunitensi dietro all'operazione per la caduta del governo Berlusconi. Ora è cosa ben nota, confermata da ex capi di Stato e di governo, ma allora per me fu la fine dell'innocenza: sapere che il principale alleato del mio Paese tramava per sostituire il governo democraticamente eletto con qualcosa d'altro (e poi fu il governo-fantoccio di Mario Monti) fece tabula rasa di tutto ciò che pensassi della politica nazionale per dover ricostruire una mia visione da zero. E ciò che conclusi fu che Berlusconi, da personalità strabordante e imprenditore di un'azienda che non poteva essere trasferita all'estero, avesse ben chiaro il fatto che dal fallimento dell'Italia non avesse nulla da guadagnare (a differenza delle élite cosmopolite, specie nei conti in banca e patrimoni all'estero, che ci portano verso la bancarotta senza batter ciglio). E pertanto fosse visto sempre di traverso da chi, a Bruxelles come a Washington e a Wall Street, programmava il saccheggio della nostra economia. Per questo si barcamenò per anni nel gioco pericoloso di chi tiene il piede in due staffe: da una parte un'alleanza scomoda con dei padroni avidi e spietati; dall'altra il tentativo di costruire una rete di solidi rapporti con chi ci garantiva le risorse di cui avevamo bisogno, dalla Russia alla Libia. Oggi che la Libia è un verminaio in cui spadroneggiano signori della guerra e da cui si riversano torme di clandestini, mentre con la Russia siamo praticamente in guerra senza dichiarazione formale, è ancora più chiaro quanto fossero lungimiranti certi suoi viaggi di cui all'epoca si coglieva solo l'aspetto godereccio, e che avrebbero favorito il nostro benessere ben più di tante sciagurate regalie belliche fatte a chi non potrebbe darci comunque nulla in cambio, in nome di alleanze e libertà piene di lugubri significati.
Da allora, senza essere mai stato realmente un berlusconiano, lo difesi e sostenni in seguito per semplice simpatia umana, e con l'ammissione che, a conti fatti, fosse lui il meglio che ci potesse capitare in quel frangente. Mentre proseguiva l'isteria degli ex-compagni, che ancora vivevano nel clima degli anni '90 vedendo mafie e crimini e attentati alla Costituzione e fascismo incombente (tanto incombente che ancora incombe, dopo ventinove anni, senza decidersi mai...), lo votai persino, una volta, nel 2013, quando ormai la sua stagione era chiusa, come gesto simbolico a chiusura definitiva di un'ubriacatura ideologica che non aveva mai avuto sostanza. Dopo ne ho visto tutte le debolezze e i difetti, quel suo essersi piegato, alla fine, all'ignominia della collaborazione col Sistema che non lo aveva mai accettato e aveva fatto carte false pur di farlo fuori (senza risparmiarci umiliazioni, come l'infame siparietto Merkel-Sarkozy in cui si concretò tutto il disprezzo dei veri padroni d'Europa per l'Italia), usando una magistratura che (dopo averle provate tutte) era riuscita a condannarlo con un'accusa qualsiasi, scontata ridicolmente nell'ospizio di Cesano Boscone. Per salvare l'azienda, sulla quale gli sciacalli della finanza internazionale facevano leva, cedette ad un ricatto, e abbandonò tutto il suo progetto politico vendendoci per un piatto di lenticchie. Magari abbondante, come piatto, dato che si tratta pur sempre di un patrimonio multimiliardario. E però ben magra consolazione, se pensiamo a come, dopo di lui, siamo rimasti inermi contro ad un esercito di iene che stanno spolpando un popolo ed una nazione con voracità famelica. Chiaro, allora come prima e dopo era rimasto quello di sempre: non un eroe, quello che salvava l'Italia dai suoi nemici (i comunisti per i più, le elite euromafiose per i pochi che lo vedevano come me), ma un affarista che aveva sempre fatto gli affari propri. Eppure, per un attimo, era riuscito ad illudermi. E quindi a deludermi.
Chi mi legge sa già che la mia provenienza è di eretico e profugo. Nato e cresciuto in quella setta satanica che è la sinistra italiana, per gran parte della sua avventura politica nel vederlo e giudicarlo sono stato avvelenato dallo specchio deformante con cui i fogliacci di propaganda del gruppo DeBenedetti lo presentavano al proprio pubblico, pubblico che, a dire il vero, non chiedeva altro: un mafioso, un fascista, un tiranno in divenire, un pericolo pubblico da fermare al più presto e con ogni mezzo. Il motivo principale per cui dire la frase preferita dal progressista italiota: “Mi vergogno di essere italiano”. Ogni buon lettore di Micromega (io ero anche abbonato), Repubblica e l'Espresso non poteva svegliarsi al nuovo giorno senza ripetersi, orwellianamente, “Io odio Silvio Berlusconi”, senza rendersi conto, in uno dei tanti cortocircuiti di chi, da allora sino ad oggi, che questo è esattamente il comportamento dei volenterosi carnefici di regime del Grande Fratello, e non certo dei suoi martiri.
La svolta, che fu praticamente una vera illuminazione, la ebbi durante il caso Noemi Letizia, nella primavera del 2009, quando per una comparsata al compleanno di una ragazzina (presenti i genitori della stessa) i giornali che per me erano la bocca della verità partirono lancia in resta in una campagna di demonizzazione dai risvolti risibilmente moralistici e dai toni inquisitoriali. Lo schiaffo che mi svegliò dal mio sonno dogmatico fu un'intervista, che prendeva due pagine intere, data su Repubblica al fidanzato della ragazzina, dove non si diceva assolutamente niente. Ma che diavolo fanno questi, mi dissi? Adesso passiamo il tempo a ricamare pettegolezzi e facendo un caso di Stato per una presenza ad una festa dei 18 anni? Mi sentii, non vagamente come Fantozzi, ma fortemente e con il pieno di irritazione, preso per i fondelli. E reagii rovesciando il paradigma.
Non mi va di dilungarmi troppo, ma due cose mi avvicinarono al Berlusconi di quegli anni, paradossalmente quello della fine come leader e prossimo al lungo crepuscolo terminato oggi. Una fu la fascinazione estetica che si va a subire, dopo tanto, da ciò per cui si è provata tanta, troppa repulsione. Gli eccessi fisici e verbali, il fare esagerato, le feste traboccanti di bellezze non troppo vestite, la pacchianeria di certi riti collettivi (pensate a quell'inno “Meno male che Silvio c'è”), la sfacciataggine della barzelletta fuori luogo, la sovrabbondanza di belle donne con cui amava circondarsi, era tutto un violare ogni arcinota e sacrosanta legge non scritta delle convenzioni sociali. E che per questo, alla fine, trovai irresistibile, esilarante, adorabile proprio perché inaccettabile. Come il suo ritratto pop, finito all'apice della sua fase goliardica sulla copertina di “Rolling Stone”.
L'altra, ben più seria, fu la rivisitazione della sua politica estera alla luce di due elementi, anch'essi nuovi nel mio modo di vedere le cose: il machiavellismo di Kissinger e la visione, momentanea ma chiara, di cosa ci fosse dietro al velo della messinscena mediatica e istituzionale. Accadde nell'estate del 2010, quando, dalle parole di un diplomatico della Repubblica, sentii dire che era convinzione, agli alti livelli, che ci fosse la mano dei servizi segreti statunitensi dietro all'operazione per la caduta del governo Berlusconi. Ora è cosa ben nota, confermata da ex capi di Stato e di governo, ma allora per me fu la fine dell'innocenza: sapere che il principale alleato del mio Paese tramava per sostituire il governo democraticamente eletto con qualcosa d'altro (e poi fu il governo-fantoccio di Mario Monti) fece tabula rasa di tutto ciò che pensassi della politica nazionale per dover ricostruire una mia visione da zero. E ciò che conclusi fu che Berlusconi, da personalità strabordante e imprenditore di un'azienda che non poteva essere trasferita all'estero, avesse ben chiaro il fatto che dal fallimento dell'Italia non avesse nulla da guadagnare (a differenza delle élite cosmopolite, specie nei conti in banca e patrimoni all'estero, che ci portano verso la bancarotta senza batter ciglio). E pertanto fosse visto sempre di traverso da chi, a Bruxelles come a Washington e a Wall Street, programmava il saccheggio della nostra economia. Per questo si barcamenò per anni nel gioco pericoloso di chi tiene il piede in due staffe: da una parte un'alleanza scomoda con dei padroni avidi e spietati; dall'altra il tentativo di costruire una rete di solidi rapporti con chi ci garantiva le risorse di cui avevamo bisogno, dalla Russia alla Libia. Oggi che la Libia è un verminaio in cui spadroneggiano signori della guerra e da cui si riversano torme di clandestini, mentre con la Russia siamo praticamente in guerra senza dichiarazione formale, è ancora più chiaro quanto fossero lungimiranti certi suoi viaggi di cui all'epoca si coglieva solo l'aspetto godereccio, e che avrebbero favorito il nostro benessere ben più di tante sciagurate regalie belliche fatte a chi non potrebbe darci comunque nulla in cambio, in nome di alleanze e libertà piene di lugubri significati.
Da allora, senza essere mai stato realmente un berlusconiano, lo difesi e sostenni in seguito per semplice simpatia umana, e con l'ammissione che, a conti fatti, fosse lui il meglio che ci potesse capitare in quel frangente. Mentre proseguiva l'isteria degli ex-compagni, che ancora vivevano nel clima degli anni '90 vedendo mafie e crimini e attentati alla Costituzione e fascismo incombente (tanto incombente che ancora incombe, dopo ventinove anni, senza decidersi mai...), lo votai persino, una volta, nel 2013, quando ormai la sua stagione era chiusa, come gesto simbolico a chiusura definitiva di un'ubriacatura ideologica che non aveva mai avuto sostanza. Dopo ne ho visto tutte le debolezze e i difetti, quel suo essersi piegato, alla fine, all'ignominia della collaborazione col Sistema che non lo aveva mai accettato e aveva fatto carte false pur di farlo fuori (senza risparmiarci umiliazioni, come l'infame siparietto Merkel-Sarkozy in cui si concretò tutto il disprezzo dei veri padroni d'Europa per l'Italia), usando una magistratura che (dopo averle provate tutte) era riuscita a condannarlo con un'accusa qualsiasi, scontata ridicolmente nell'ospizio di Cesano Boscone. Per salvare l'azienda, sulla quale gli sciacalli della finanza internazionale facevano leva, cedette ad un ricatto, e abbandonò tutto il suo progetto politico vendendoci per un piatto di lenticchie. Magari abbondante, come piatto, dato che si tratta pur sempre di un patrimonio multimiliardario. E però ben magra consolazione, se pensiamo a come, dopo di lui, siamo rimasti inermi contro ad un esercito di iene che stanno spolpando un popolo ed una nazione con voracità famelica. Chiaro, allora come prima e dopo era rimasto quello di sempre: non un eroe, quello che salvava l'Italia dai suoi nemici (i comunisti per i più, le elite euromafiose per i pochi che lo vedevano come me), ma un affarista che aveva sempre fatto gli affari propri. Eppure, per un attimo, era riuscito ad illudermi. E quindi a deludermi.
E questo temo di non averglielo mai perdonato.