Henry Kissinger, nato Heinz Alfred Kissinger, compie oggi cento anni. Quello che all'epoca era il figlio di una coppia di ebrei bavaresi, e che si salvò per un pelo dallo sparire come una cifra fra milioni delle vittime dell'olocausto, una volta in salvo oltreatlantico, ottenne la cittadinanza americana e tornò in Germania, da vincitore, come interprete dell'esercito invasore. Fu la prima delle sue incarnazioni come nemesi, ma non l'ultima.
Per molti anni, in quanto ispiratore dei sanguinosi golpe e degli ancor più sanguinosi regimi che ne seguirono in Cile e Argentina, lo esecrai e contestai chiunque lo citasse. Stupidamente, come per tutte le pregiudiziali ideologiche: Kissinger era ben altro, e molto di meglio, dell'ideologia che servì.
Passata la sbornia progressista, conobbi Kissinger a mente fredda quando, illudendomi di poter entrare, da vil plebeo, nell'olimpo del servizio diplomatico italiano, studiai per anni con passione testi di storia diplomatica di ogni provenienza. Li divisi rapidamente in tre categorie: quelli di storici accademici anglosassoni, quelli di diplomatici di carriera italiani, e quelli di Kissinger. I primi avevano come obbiettivo da dimostrare ad ogni pagina che le potenze anglosassoni avevano ragione, e tutti quelli che si mettevano di traverso al loro progetto di predominio mondiale (spagnoli, francesi, tedeschi, russi, cinesi), torto. I secondi non avevano alcun obbiettivo chiaro, e infatti risultavano inconcludenti pastoni di aneddoti poco significativi, citazioni ancor meno significative di colleghi e amici, e zero utilità al fine di comprendere qualsiasi cosa.
I testi di Kissinger, invece, avevano tutto quello che mancava agli altri: conoscenza precisa dei fatti, logica stringente nello spiegarli, acume spietato nell'analisi delle intenzioni e dei risultati. Inoltre, erano le uniche pagine da cui si poteva capire come ragionassero le persone che si trovano a certi livelli. Il tutto senza l'ombra di pregiudizi ideologici, cosa che mi stupì, in quello che era passato alla Storia come l'eminenza grigia della politica imperiale statunitense.
Due esempi fra i tanti.
L'argomento che più appassionò di tutti, in Storia Diplomatica, è sempre stato la Crisi di Luglio, ossia quell'inestricabile imbroglio fra cancellerie, ministeri, governi e capi di Stato che prese forma a partire dall'attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914 e sfociò nello scoppio della Grande Guerra. Un enorme puzzle che sino a tempi recentissimi ben pochi hanno avuto le forze e la volontà di ricostruire. Al largo pubblico, complice la spazzatura giornalistica e un insegnamento scolastico di marca prettamente ideologica, è arrivata per un secolo solo la versione della “colpa tedesca”, come se la ricerca storica fosse rimasta ferma ai dettami del Trattato di Versailles. Solo pochissimi, a ridosso del centenario, e ancor meno prima, hanno cercato di far emergere le responsabilità vere di singoli uomini, sparsi per le capitali europee, che hanno spinto verso le ostilità volendo una guerra limitata e lasciandosi poi sfuggire di mano la situazione. Solo che questi storici hanno avuto bisogno di interi libri per arrivare a questo risultato: Kissinger ci riesce in un solo capitolo. Ed è limpido, logico e impeccabile nel suo mostrare come a certe scelte politiche dovessero seguire certe scelte militari, e come a volte la malafede, alle altre la debolezza e l'ottusità abbiano fatto i danni peggiori. Il tutto senza cadere mai nella stupidità di voler indicare un colpevole, men che meno un governo nazionale più degli altri, di una catastrofe che, in realtà, nessuno aveva voluto in tutta quell'estensione.
Secondo esempio: chiunque lo conosca anche solo superficialmente sa quanto Kissinger sia stato visceralmente anticomunista, al punto di sollecitare e appoggiare colpi di Stato e regimi repressivi sanguinosissimi ovunque si rischiassero svolte marxiste. Ma pochissimi sanno dell'ammirazione che lo stesso Kissinger nutre per il talento diplomatico di Stalin, da lui definito “Il Richelieu del XX secolo”. Sempre in “Diplomacy” sono innumerevoli i punti, e anzi interi i capitoli, dedicati ad analizzare e presentare il percorso e i successi della politica estera sovietica sotto Stalin, concludendo sempre nel riconoscimento delle superiori capacità del leader sovietico, senza cadere mai in sentimentalismi umanitari o ire ideologiche. E anzi, facendo capire bene al lettore che, dati gli obbiettivi e i mezzi, Stalin fece quanto di meglio una mente umana avrebbe potuto fare per raggiungere i primi tramite i secondi.
Questo per il Kissinger teorico. Volendo poi passare al Kissinger statista, la materia è forse ancora più ricca. E, per una rara volta, non tocca dover dire di qualcuno che ha “predicato bene ma razzolato male”, perché nei fatti, da Segretario di Stato, non ha mai fatto altro che applicare con freddezza chirurgica quella logica quasi matematica con cui ha esposto la sua visione dei rapporti fra Stati.
I rapporti fra Stati sono un equilibrio tra forze. E il Diritto Internazionale è una sorta di galateo osservabile quando non ci sono interessi vitali in ballo, giunti i quali le cosiddette regole vengono gettate alle ortiche per passare a confrontarsi secondo altre, ben più ferree regole. Le organizzazioni internazionali come l'ONU sono enti inutili, i cui fini dichiarati sono impossibili e la cui funzione materiale sarebbe sostituibile in modi più immediati e meno costosi. La guerra è uno strumento a cui ricorrere quando si riveli più efficiente degli altri disponibili (e Clausewitz vi avrebbe visto una parafrasi della sua definizione di “continuazione della politica con altri mezzi”), ma non deve avere la preferenza: la diplomazia è in genere meno costosa e più efficace. La leadership non deve farsi condizionare dalle oscillazioni elettorali (leggi “democrazia”), ma semmai educare (leggi “dirottare”) l'opinione pubblica verso la realizzazione o la difesa degli interessi nazionali. Questi sono alcuni dei principi che emergono dalla sua politica, e che hanno probabilmente salvato gli USA negli anni più difficili e che avrebbero potuto risultare catastrofici per la loro potenza, che invece riemerse trionfalmente col decennio reaganiano. Nei pochi anni in cui fu segretario di Stato, infatti, Kissinger riuscì a liquidare la guerra in Vietnam, abbandonando a sé stesso il regime-fantoccio di Saigon, giudicato (giustamente) una causa persa. Bloccò la ripresa araba durante la prima fase della Guerra del Kippur vietando letteralmente all'URSS di intervenire direttamente, e permettendo al proprio alleato di rovesciare la situazione. Traghettò prima i rapporti con l'Unione Sovietica dallo scontro indiretto alla distensione, ponendo le basi per i trattati di disarmo, e poi, abbandonando il riconoscimento di Taiwan, riavvicinandosi persino alla Cina di Mao, col risultato di acuire la frattura fra questa e l'URSS e quindi indebolire il campo avverso proprio nel momento di maggior crisi americana nel Sud-Est asiatico. Spazzò via ogni influenza sovietica e cubana in Sudamerica promuovendo il colpo di Stato in Cile, quello in argentina, e sostenendo attivamente il regime militare in Brasile. E tutto questo mentre, fra ritiro dal Vietnam e scandalo Watergate, l'influenza americana all'estero sembrava andare verso il tracollo. Sono pochi gli statisti che potrebbero vantare di aver tenuto botta in questo modo e a condizioni altrettanto sfavorevoli.
Non ha mai mostrato alcun pentimento, e neppure ripensamento, sui mezzi usati per raggiungere questi risultati. I bombardamenti di Laos e Cambogia, i desaparecidos di Cile e Argentina, i torturati scomparsi nelle mille carceri e campi dell'orrore in Sudamerica e Africa, tutto questo non rileva perché, secondo la sua fredda logica, i risultati sono stati raggiunti, e come cita lui stesso da Lenin “non si può fare una frittata senza rompere le uova” (a questo punto chi legge si stupirà di meno nell'apprendere che Kissinger loda anche il talento tattico del leader bolscevico).
Anticipo molte delle proteste e dei moti di repulsione che questa descrizione fondamentalmente di apprezzamento susciterà: poco ma sicuro, Kissinger accentra sulla sua persona caratteristiche che richiamano ostilità profonda, et pour cause: ebreo, statunitense, pezzo da 90 delle amministrazioni repubblicane ma consigliere fisso anche in quelle democratiche (ufficiosamente, magari), ispiratore e sostenitore di colpi di Stato e regimi sanguinari. Ed è un errore: perché si può detestare, persino esecrare qualcuno come persona e per ciò che rappresenta, ma si può apprezzare la sua lezione e, chi può, metterla a frutto nei fatti. Nel suo caso è fuor di dubbio che, per comprendere come funzioni la logica della politica internazionale, sia necessario leggerne le opere (ed è ancor più chiaro che, nel nostro corpo diplomatico, praticamente nessuno lo abbia fatto). Pochi altri hanno mai avuto la sincerità, o l'acutezza, di esporre il modo di ragionare di chi prende le decisioni ai massimi livelli. Dopo averlo letto, per quanto mi riguarda, non ho mai più guardato ai rapporti fra Stati con gli stessi occhi. Come se non bastasse, è stato un attento lettore di Spengler, e da lui ha tratto la convinzione che l'Occidente sia entrato in una spirale di irreversibile declino. Ogni azione da lui intrapresa, anche la più aggressiva e violenta, ha solo mirato a rallentare questo processo e ad uscirne col massimo vantaggio per la parte che serviva.
Ed è questo il punto: non c'è da indignarsi perché ci sia stato un Kissinger, ma piuttosto per non averne avuto uno, o anche più d'uno, noi, in Europa. Kissinger ha servito il proprio Paese nel modo che ha reputato il migliore, per tutelarne innanzitutto la sopravvivenza, e poi gli interessi materiali. Noi non abbiamo visto che servi, mentecatti e accattoni ignoranti di tutto tranne che del proprio IBAN. Se avessimo avuto un Kissinger in Italia, uno in Francia ed uno in Germania, probabilmente oggi vivremmo più sicuri tutti.
Chi c'è, invece, nel panorama internazionale, che possa dire di averne imparato la lezione? Di sicuro gli statisti cinesi, la cui capacità di aspettare pazientemente e la sostanziale indifferenza ideologica, come mostra la svolta “mercatista” di Deng Xiaoping, mai nei fatti rinnegata dai suoi successori, è stata apprezzata proprio da lui. Non per niente la Cina prima ci ha allettato facendo leva sulla nostra avidità e prendendosi tutte le nostre attività produttive, e poi, quando era troppo tardi per tornare indietro, ci ha levato anche i mercati di sbocco delle stesse merci. E questo con il vero intento non di far soldi, ma di consolidare la propria potenza. La Russia ha giocato da una posizione infinitamente più debole, eppure Vladimir Putin, in coppia con Lavrov, “Il Teschio”, come poco affettuosamente ribattezzato dai suoi compatrioti, hanno mostrato la stessa spregiudicatezza nello sfruttare ogni occasione per riportare quello che era un rottame spolpato da mafiosi locali e stranieri in una potenza nuovamente importante a livello globale. Tutte le mosse di Putin, persino la campagna di Georgia del 2008 e l'attuale guerra ucraina, sono state ampiamente discusse da Kissinger che le ha giudicate ampiamente fondate e che chiunque, col suo buonsenso, avrebbe evitato facilmente. Una scintilla della sua lealtà agli interessi del proprio Paese si riscontra in altre politiche, quella del Brasile, dell'Arabia Saudita, e senz'altro della Turchia di Erdogan. Ma proprio sul continente in cui è nato, oggi, si sente l'abissale mancanza di qualcuno con la sua lucidità e la sua preparazione.
Tornando a lui, nella sua vita ha elevato ad esempio Otto von Bismarck, il Cancelliere di Ferro che, senza né scrupoli né ripensamenti, attraverso trabocchetti, guerre, ferro e fuoco, mutò la carta d'Europa erigendo la Prussia ad impero, unificando la Germania, e modificando a proprio vantaggio i rapporti di forza sul continente. Ma io credo che il suo vero modello, lo spietato fiorentino dalla mente luciferina, sia Machiavelli. Nonostante non lo citi quasi mai, l'uomo che, in pieno Rinascimento, fra mistici riformatori e artisti estatici affondò il coltello amputando dalla politica qualsiasi cosa (etica, religione, legami familiari, gloria...) che non fosse il mero esercizio del potere, in modo da renderlo saldo ed efficace, è probabilmente il miglior candidato a vedere Henry Kissinger come reincarnazione del principio “il fine giustifica i mezzi”. A patto che i mezzi siano usati con mente superiore, acume che sfiori la preveggenza, logica glaciale e abilità quasi magica.
Per molti anni, in quanto ispiratore dei sanguinosi golpe e degli ancor più sanguinosi regimi che ne seguirono in Cile e Argentina, lo esecrai e contestai chiunque lo citasse. Stupidamente, come per tutte le pregiudiziali ideologiche: Kissinger era ben altro, e molto di meglio, dell'ideologia che servì.
Passata la sbornia progressista, conobbi Kissinger a mente fredda quando, illudendomi di poter entrare, da vil plebeo, nell'olimpo del servizio diplomatico italiano, studiai per anni con passione testi di storia diplomatica di ogni provenienza. Li divisi rapidamente in tre categorie: quelli di storici accademici anglosassoni, quelli di diplomatici di carriera italiani, e quelli di Kissinger. I primi avevano come obbiettivo da dimostrare ad ogni pagina che le potenze anglosassoni avevano ragione, e tutti quelli che si mettevano di traverso al loro progetto di predominio mondiale (spagnoli, francesi, tedeschi, russi, cinesi), torto. I secondi non avevano alcun obbiettivo chiaro, e infatti risultavano inconcludenti pastoni di aneddoti poco significativi, citazioni ancor meno significative di colleghi e amici, e zero utilità al fine di comprendere qualsiasi cosa.
I testi di Kissinger, invece, avevano tutto quello che mancava agli altri: conoscenza precisa dei fatti, logica stringente nello spiegarli, acume spietato nell'analisi delle intenzioni e dei risultati. Inoltre, erano le uniche pagine da cui si poteva capire come ragionassero le persone che si trovano a certi livelli. Il tutto senza l'ombra di pregiudizi ideologici, cosa che mi stupì, in quello che era passato alla Storia come l'eminenza grigia della politica imperiale statunitense.
Due esempi fra i tanti.
L'argomento che più appassionò di tutti, in Storia Diplomatica, è sempre stato la Crisi di Luglio, ossia quell'inestricabile imbroglio fra cancellerie, ministeri, governi e capi di Stato che prese forma a partire dall'attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914 e sfociò nello scoppio della Grande Guerra. Un enorme puzzle che sino a tempi recentissimi ben pochi hanno avuto le forze e la volontà di ricostruire. Al largo pubblico, complice la spazzatura giornalistica e un insegnamento scolastico di marca prettamente ideologica, è arrivata per un secolo solo la versione della “colpa tedesca”, come se la ricerca storica fosse rimasta ferma ai dettami del Trattato di Versailles. Solo pochissimi, a ridosso del centenario, e ancor meno prima, hanno cercato di far emergere le responsabilità vere di singoli uomini, sparsi per le capitali europee, che hanno spinto verso le ostilità volendo una guerra limitata e lasciandosi poi sfuggire di mano la situazione. Solo che questi storici hanno avuto bisogno di interi libri per arrivare a questo risultato: Kissinger ci riesce in un solo capitolo. Ed è limpido, logico e impeccabile nel suo mostrare come a certe scelte politiche dovessero seguire certe scelte militari, e come a volte la malafede, alle altre la debolezza e l'ottusità abbiano fatto i danni peggiori. Il tutto senza cadere mai nella stupidità di voler indicare un colpevole, men che meno un governo nazionale più degli altri, di una catastrofe che, in realtà, nessuno aveva voluto in tutta quell'estensione.
Secondo esempio: chiunque lo conosca anche solo superficialmente sa quanto Kissinger sia stato visceralmente anticomunista, al punto di sollecitare e appoggiare colpi di Stato e regimi repressivi sanguinosissimi ovunque si rischiassero svolte marxiste. Ma pochissimi sanno dell'ammirazione che lo stesso Kissinger nutre per il talento diplomatico di Stalin, da lui definito “Il Richelieu del XX secolo”. Sempre in “Diplomacy” sono innumerevoli i punti, e anzi interi i capitoli, dedicati ad analizzare e presentare il percorso e i successi della politica estera sovietica sotto Stalin, concludendo sempre nel riconoscimento delle superiori capacità del leader sovietico, senza cadere mai in sentimentalismi umanitari o ire ideologiche. E anzi, facendo capire bene al lettore che, dati gli obbiettivi e i mezzi, Stalin fece quanto di meglio una mente umana avrebbe potuto fare per raggiungere i primi tramite i secondi.
Questo per il Kissinger teorico. Volendo poi passare al Kissinger statista, la materia è forse ancora più ricca. E, per una rara volta, non tocca dover dire di qualcuno che ha “predicato bene ma razzolato male”, perché nei fatti, da Segretario di Stato, non ha mai fatto altro che applicare con freddezza chirurgica quella logica quasi matematica con cui ha esposto la sua visione dei rapporti fra Stati.
I rapporti fra Stati sono un equilibrio tra forze. E il Diritto Internazionale è una sorta di galateo osservabile quando non ci sono interessi vitali in ballo, giunti i quali le cosiddette regole vengono gettate alle ortiche per passare a confrontarsi secondo altre, ben più ferree regole. Le organizzazioni internazionali come l'ONU sono enti inutili, i cui fini dichiarati sono impossibili e la cui funzione materiale sarebbe sostituibile in modi più immediati e meno costosi. La guerra è uno strumento a cui ricorrere quando si riveli più efficiente degli altri disponibili (e Clausewitz vi avrebbe visto una parafrasi della sua definizione di “continuazione della politica con altri mezzi”), ma non deve avere la preferenza: la diplomazia è in genere meno costosa e più efficace. La leadership non deve farsi condizionare dalle oscillazioni elettorali (leggi “democrazia”), ma semmai educare (leggi “dirottare”) l'opinione pubblica verso la realizzazione o la difesa degli interessi nazionali. Questi sono alcuni dei principi che emergono dalla sua politica, e che hanno probabilmente salvato gli USA negli anni più difficili e che avrebbero potuto risultare catastrofici per la loro potenza, che invece riemerse trionfalmente col decennio reaganiano. Nei pochi anni in cui fu segretario di Stato, infatti, Kissinger riuscì a liquidare la guerra in Vietnam, abbandonando a sé stesso il regime-fantoccio di Saigon, giudicato (giustamente) una causa persa. Bloccò la ripresa araba durante la prima fase della Guerra del Kippur vietando letteralmente all'URSS di intervenire direttamente, e permettendo al proprio alleato di rovesciare la situazione. Traghettò prima i rapporti con l'Unione Sovietica dallo scontro indiretto alla distensione, ponendo le basi per i trattati di disarmo, e poi, abbandonando il riconoscimento di Taiwan, riavvicinandosi persino alla Cina di Mao, col risultato di acuire la frattura fra questa e l'URSS e quindi indebolire il campo avverso proprio nel momento di maggior crisi americana nel Sud-Est asiatico. Spazzò via ogni influenza sovietica e cubana in Sudamerica promuovendo il colpo di Stato in Cile, quello in argentina, e sostenendo attivamente il regime militare in Brasile. E tutto questo mentre, fra ritiro dal Vietnam e scandalo Watergate, l'influenza americana all'estero sembrava andare verso il tracollo. Sono pochi gli statisti che potrebbero vantare di aver tenuto botta in questo modo e a condizioni altrettanto sfavorevoli.
Non ha mai mostrato alcun pentimento, e neppure ripensamento, sui mezzi usati per raggiungere questi risultati. I bombardamenti di Laos e Cambogia, i desaparecidos di Cile e Argentina, i torturati scomparsi nelle mille carceri e campi dell'orrore in Sudamerica e Africa, tutto questo non rileva perché, secondo la sua fredda logica, i risultati sono stati raggiunti, e come cita lui stesso da Lenin “non si può fare una frittata senza rompere le uova” (a questo punto chi legge si stupirà di meno nell'apprendere che Kissinger loda anche il talento tattico del leader bolscevico).
Anticipo molte delle proteste e dei moti di repulsione che questa descrizione fondamentalmente di apprezzamento susciterà: poco ma sicuro, Kissinger accentra sulla sua persona caratteristiche che richiamano ostilità profonda, et pour cause: ebreo, statunitense, pezzo da 90 delle amministrazioni repubblicane ma consigliere fisso anche in quelle democratiche (ufficiosamente, magari), ispiratore e sostenitore di colpi di Stato e regimi sanguinari. Ed è un errore: perché si può detestare, persino esecrare qualcuno come persona e per ciò che rappresenta, ma si può apprezzare la sua lezione e, chi può, metterla a frutto nei fatti. Nel suo caso è fuor di dubbio che, per comprendere come funzioni la logica della politica internazionale, sia necessario leggerne le opere (ed è ancor più chiaro che, nel nostro corpo diplomatico, praticamente nessuno lo abbia fatto). Pochi altri hanno mai avuto la sincerità, o l'acutezza, di esporre il modo di ragionare di chi prende le decisioni ai massimi livelli. Dopo averlo letto, per quanto mi riguarda, non ho mai più guardato ai rapporti fra Stati con gli stessi occhi. Come se non bastasse, è stato un attento lettore di Spengler, e da lui ha tratto la convinzione che l'Occidente sia entrato in una spirale di irreversibile declino. Ogni azione da lui intrapresa, anche la più aggressiva e violenta, ha solo mirato a rallentare questo processo e ad uscirne col massimo vantaggio per la parte che serviva.
Ed è questo il punto: non c'è da indignarsi perché ci sia stato un Kissinger, ma piuttosto per non averne avuto uno, o anche più d'uno, noi, in Europa. Kissinger ha servito il proprio Paese nel modo che ha reputato il migliore, per tutelarne innanzitutto la sopravvivenza, e poi gli interessi materiali. Noi non abbiamo visto che servi, mentecatti e accattoni ignoranti di tutto tranne che del proprio IBAN. Se avessimo avuto un Kissinger in Italia, uno in Francia ed uno in Germania, probabilmente oggi vivremmo più sicuri tutti.
Chi c'è, invece, nel panorama internazionale, che possa dire di averne imparato la lezione? Di sicuro gli statisti cinesi, la cui capacità di aspettare pazientemente e la sostanziale indifferenza ideologica, come mostra la svolta “mercatista” di Deng Xiaoping, mai nei fatti rinnegata dai suoi successori, è stata apprezzata proprio da lui. Non per niente la Cina prima ci ha allettato facendo leva sulla nostra avidità e prendendosi tutte le nostre attività produttive, e poi, quando era troppo tardi per tornare indietro, ci ha levato anche i mercati di sbocco delle stesse merci. E questo con il vero intento non di far soldi, ma di consolidare la propria potenza. La Russia ha giocato da una posizione infinitamente più debole, eppure Vladimir Putin, in coppia con Lavrov, “Il Teschio”, come poco affettuosamente ribattezzato dai suoi compatrioti, hanno mostrato la stessa spregiudicatezza nello sfruttare ogni occasione per riportare quello che era un rottame spolpato da mafiosi locali e stranieri in una potenza nuovamente importante a livello globale. Tutte le mosse di Putin, persino la campagna di Georgia del 2008 e l'attuale guerra ucraina, sono state ampiamente discusse da Kissinger che le ha giudicate ampiamente fondate e che chiunque, col suo buonsenso, avrebbe evitato facilmente. Una scintilla della sua lealtà agli interessi del proprio Paese si riscontra in altre politiche, quella del Brasile, dell'Arabia Saudita, e senz'altro della Turchia di Erdogan. Ma proprio sul continente in cui è nato, oggi, si sente l'abissale mancanza di qualcuno con la sua lucidità e la sua preparazione.
Tornando a lui, nella sua vita ha elevato ad esempio Otto von Bismarck, il Cancelliere di Ferro che, senza né scrupoli né ripensamenti, attraverso trabocchetti, guerre, ferro e fuoco, mutò la carta d'Europa erigendo la Prussia ad impero, unificando la Germania, e modificando a proprio vantaggio i rapporti di forza sul continente. Ma io credo che il suo vero modello, lo spietato fiorentino dalla mente luciferina, sia Machiavelli. Nonostante non lo citi quasi mai, l'uomo che, in pieno Rinascimento, fra mistici riformatori e artisti estatici affondò il coltello amputando dalla politica qualsiasi cosa (etica, religione, legami familiari, gloria...) che non fosse il mero esercizio del potere, in modo da renderlo saldo ed efficace, è probabilmente il miglior candidato a vedere Henry Kissinger come reincarnazione del principio “il fine giustifica i mezzi”. A patto che i mezzi siano usati con mente superiore, acume che sfiori la preveggenza, logica glaciale e abilità quasi magica.