Anni fa, dopo il terribile terremoto che falcidiò la popolazione di Haiti, uno dei giornaloni di sinistra che leggevo descrisse quel Paese come “perennemente sull'orlo di una catastrofe”. In effetti bastava qualsiasi evento meteorologico per fare una strage e mandare in tilt l'intero apparato statale di soccorso, e se nella vicina Cuba (che non è certo la punta di diamante mondiale in fatto di servizi) un uragano faceva venti morti, lo stesso giorno lo stesso uragano ad Haiti ne causava trecento.
Il commento era fatto con un sentimento a metà fra lo sconforto e la superiorità. Ma oggi mi chiedo se lo stesso autore, ammesso che sia vivo e disposto a rifletterci sopra, saprebbe vedere gli stessi, sconfortanti segni nel Paese che ci circonda.
Perché sarà anche vero che siamo ancora ben lungi dal presentare gli stessi standard di quella che ha il poco invidiabile primato di nazione più povera del mondo, ma se solo provassimo a liberarci dalla narcosi dell'abitudine e a guardare in casa nostra con un occhio ai sistemi al cui livello crediamo (o ci dicono) di essere pari, i segnali di uno sfascio generale sarebbero evidenti. E allarmanti.
Quando vivevo in Ucraina, a Odessa, nel 2010, ebbi l'occasione di viaggiare per le strade di quella provincia e della Crimea. Notai che in un luogo conosciuto più che altro per essere un relitto d'epoca sovietica lo stato di incuria delle strade (urbane ed extraurbane) era né più né meno di quello di casa mia, nel nord Sardegna. Anni prima, invece, durante il periodo in cui vissi a Londra, mi accadde di trovare la fermata a cui prendevo abitualmente il bus chiusa per lavori stradali. Siccome era molto comoda, ci rimasi molto male: chissà quando sarà di nuovo agibile, mi dissi. Non vi dico quale fu la mia sorpresa, pochi giorni dopo, nel rivederla di nuovo libera e immacolata. Abituato ai cantieri che, dalle mie parti, restano aperti anche per decenni, quella velocità nell'iniziare un lavoro e terminarlo lasciando tutto in ordine aveva del miracoloso. Eppure dovrebbe essere la norma. Ma tutt'ora, sia in paese che in città, le strade costellate di voragini, le trincee circondate da transenne e le deviazioni per “lavori in corso” (anche se di gente al lavoro non se ne vede più da mesi o anni) sono la nostra norma.
Purtroppo ho avuto anche incontri ravvicinati del terzo tipo col Servizio Sanitario Nazionale. Mia moglie ha avuto, come in altre occasioni ricordato, un tumore, fortunatamente individuato e asportato in tempi utili. Da allora è tutto un vai e vieni fra casa, cliniche e ambulatori per controlli ed esami vari. Nelle prescrizioni è indicato chiaramente che si tratta di un paziente oncologico, ma, regolarmente, da quando l'intera trafila non è gestita dall'ospedale e tocca a me chiamare quel numero magico che è il CUP per prenotare un qualsiasi esame, la risposta è sempre la stessa: non c'è posto in tutta la regione. E questo chiamando ogni due o tre giorni per tre mesi di fila. Sarà anche vero che potrebbero esserci casi di estrema urgenza a cui dare priorità, ma tutti i giorni? Per tre mesi? In un'intera regione? Stiamo parlando della salute di un caso non proprio di raffreddore cronico, ed io trovo inverosimile che gli ambulatori e le apparecchiature siano assediate dalla mattina alla sera da casi disperati che debbono essere trattati ora o mai più. E infatti, disperati noi per l'approssimarsi della visita oncologica per la quale avevamo bisogno di quei risultati, l'anno scorso ci siamo rivolti ad una persona che in ospedale ci lavora, anche se non nel reparto in cui avevamo bisogno di andare. Ci credereste? Miracolosamente, la prenotazione è arrivata in giornata. E con abbondante anticipo rispetto alla nostra scadenza. Quanti casi del genere si verificano ogni giorno in Italia, casi che senza la spintarella di qualche santo in Paradiso rimarrebbero privi di assistenza, oppure costretti a rivolgersi al privato? Qualcuno si rende conto che questa sarebbe la norma di un paese africano?
Poi c'è l'Agenzia delle Entrate, e, prima di questa, la famigerata Equitalia. Posso dire orgogliosamente di non aver mai scucito un centesimo, pur essendo stato oggetto, come praticamente chiunque, delle sue richieste usurarie. Cartelle da decine di migliaia di euro che mi chiedevano tributi o multe di otto, dieci o dodici anni prima, ossia non solo decadute e prescritte sotto ad ogni rispetto, ma la cui stessa esistenza era indimostrabile e, per quel che ne sapevo, potevano benissimo essere già state pagate o non essere mai esistite. Alle mie repliche incentrate su questi punti, che un qualsiasi giudice sano di mente avrebbe riconosciuto banalmente veri, anonimi impiegati (non si degnavano neppure di firmare le loro missive) rispondevano surrealmente che se me li avevano chiesti loro, quei pagamenti erano “evidentemente” validi. Al mio silenzio seguiva la loro inerzia, per anni, a dimostrazione che non c'era neppure una concreta volontà di recuperare somme dovute, ma solo un gioco perverso simile a quello dei truffatori virtuali, che spediscono le loro email e messaggi-esca a milioni, nella speranza che qualche pollo, per la legge dei grandi numeri, abbocchi e paghi.
E veniamo all'alluvione in Emilia Romagna, si parva licet. Nonostante la spazzatura mediatica con cui si è cercato di rintronare il pubblico convincendolo che è tutta colpa di quelli che non si comprano l'auto elettrica e causano il riscaldamento climatico, è emerso un quadro molto più inquietante di una regione che, presentata come una vetrina di efficienza e civiltà, anche grazie ad una millantatissima buona amministrazione di sinistra, ha letteralmente cessato di interessarsi di tutti quegli interventi di routine che rendono il territorio sicuro e pronto ad eventuali emergenze, ambientali e meteorologiche. La cosiddetta regione rossa ha non solo abbandonato a sé stessi gli argini dei fiumi, quegli stessi che hanno poi esondato causando i danni maggiori, ma i suoi amministratori hanno persino rispedito indietro i milioni dell'UE (che poi son sempre i nostri) destinati a quegli interventi da cui, evidentemente, non riteneva di guadagnare abbastanza (meglio lucrare su business più remunerativi). Gli stessi amministratori che hanno poi avuto la faccia di presentarsi durante la catastrofe tirando fuori dal cappello cause surreali come gli istrici o pavoneggiandosi in uniforme da Protezione Civile, loro che non ispirerebbero più neppure ad un bambino l'ombra di protezione, né del civile. E come se non bastasse, allo scandalo dei denari pubblici scomparsi chissà dove e come, si aggiunge l'ennesima fiera dell'accattonaggio delle mille associazioni ed enti, sponsorizzate dai prostituti dei cinegiornali di regime, che chiedono a noi cittadini di donare altri soldi, in modo che si perdano anch'essi nelle tasche di qualche furbo, l'unica categoria vincente nello sfascio generale. E nel silenzio di una magistratura che non ha mai condannato nessuno per questi furti.
Ah, aggiungo la chicca che, fra le mie esperienze, c'è anche quella con la sanità pubblica romagnola, in uno degli ospedali più rinomati di Bologna. L'incuria e l'arroganza non avevano nulla da invidiare agli standard della mia provincia profonda meridionale.
Questa è solo la mia esperienza, ma a 46 anni credo di averne abbastanza per saper distinguere fra ciò che può essere l'eccezione, e ciò che è la regola. E credo che chiunque, fra i miei lettori, possa attingere alle proprie memorie, comprese quelle più fresche, per confermare quello che sto per dire.
Siamo un sistema che sta andando a pezzi. La classe dirigente ha ormai abdicato a qualsiasi ruolo che non sia quello del semplice parassitismo. La finta destra e la finta sinistra non sono sensibili ad altro che ai vantaggi monetari più diretti delle poltrone che occupano. Il loro unico programma è quello di restare lì il più a lungo possibile. Franco Marino, in un suo recente intervento, parlava delle cause dell'astensione galoppante. Ho trovato che avesse colto nel segno: se la politica è l'arte di risolvere i problemi, la nostra politica ha cessato del tutto di essere tale. E perciò non importa più ad un numero sempre maggiore di persone che non si sentono più cittadini, ma sudditi vessati.
Sotto di loro, un esercito di impiegati, funzionari e manovali delle PPAA che hanno capito dove tira il vento e navigano a vista, cercando di fare il meno possibile in attesa di tirarsene fuori con una pensione. Il risultato è che nessuno fa più nulla, schivando abilmente le responsabilità (è per una banale questione di responsabilità rifiutate che, pur essendo il MOSE pronto, non fu attivato, causando qualche anno fa il disastro di Venezia). E giocando a scaricabarile, mentre nel frattempo tutto, fisicamente, perde pezzi e il degrado si infiltra ovunque, rendendo anche un banale viaggio di pochi chilometri una gimcana fra fossati e gradini, o l'attesa di un esame urgente un esercizio di morte per inedia. A chi sta dall'altra parte dello sportello o della scrivania non importa più nulla del disagio o delle sofferenze di chi, col proprio lavoro, gli paga lo stipendio. Forse neppure per insensibilità, ma per assuefazione, vedendo che, anno dopo anno, decennio dopo decennio, nulla cambia se non in peggio, e solo le pratiche più viscide o criminose ottengono un risultato.
Che è poi il quadro di ciò che ci si aspetta da un Paese del Terzo Mondo. Ossia un Paese in cui non funziona più niente, ciascuno è assorbito dalla propria sopravvivenza se si trova in basso, o dal latrocinio se sta abbastanza in alto da poter rubare i beni pubblici. Un Paese in cui servizi, comunicazioni, lavoro, sono tutti ormai merce di scambio di un suk generale in cui la moneta corrente è la corruzione, i nepotismi e i favori illeciti. Un Paese in cui la classe dirigente è la prima responsabile dello sfascio, anzi, sono loro i primi a spingere per il degrado, intascando quello che dovrebbe servire a rendere decente la vita della collettività. Gente che vive di una sola ideologia, lo sfascismo, da veri saccheggiatori, locuste avide e fameliche neppure capaci di vedere come rovinino un posto che è anche casa loro.
E tutti ci vivono come in una sorta di trance, convinti che il gioco durerà all'infinito. Senza pensare che nessuno ha interesse a pagare perché un circo del genere resti in piedi indefinitamente. E se non è collassato, è solo perché c'è un qualche interesse maggiore a tenere ancora in piedi la baracca.
Il commento era fatto con un sentimento a metà fra lo sconforto e la superiorità. Ma oggi mi chiedo se lo stesso autore, ammesso che sia vivo e disposto a rifletterci sopra, saprebbe vedere gli stessi, sconfortanti segni nel Paese che ci circonda.
Perché sarà anche vero che siamo ancora ben lungi dal presentare gli stessi standard di quella che ha il poco invidiabile primato di nazione più povera del mondo, ma se solo provassimo a liberarci dalla narcosi dell'abitudine e a guardare in casa nostra con un occhio ai sistemi al cui livello crediamo (o ci dicono) di essere pari, i segnali di uno sfascio generale sarebbero evidenti. E allarmanti.
Quando vivevo in Ucraina, a Odessa, nel 2010, ebbi l'occasione di viaggiare per le strade di quella provincia e della Crimea. Notai che in un luogo conosciuto più che altro per essere un relitto d'epoca sovietica lo stato di incuria delle strade (urbane ed extraurbane) era né più né meno di quello di casa mia, nel nord Sardegna. Anni prima, invece, durante il periodo in cui vissi a Londra, mi accadde di trovare la fermata a cui prendevo abitualmente il bus chiusa per lavori stradali. Siccome era molto comoda, ci rimasi molto male: chissà quando sarà di nuovo agibile, mi dissi. Non vi dico quale fu la mia sorpresa, pochi giorni dopo, nel rivederla di nuovo libera e immacolata. Abituato ai cantieri che, dalle mie parti, restano aperti anche per decenni, quella velocità nell'iniziare un lavoro e terminarlo lasciando tutto in ordine aveva del miracoloso. Eppure dovrebbe essere la norma. Ma tutt'ora, sia in paese che in città, le strade costellate di voragini, le trincee circondate da transenne e le deviazioni per “lavori in corso” (anche se di gente al lavoro non se ne vede più da mesi o anni) sono la nostra norma.
Purtroppo ho avuto anche incontri ravvicinati del terzo tipo col Servizio Sanitario Nazionale. Mia moglie ha avuto, come in altre occasioni ricordato, un tumore, fortunatamente individuato e asportato in tempi utili. Da allora è tutto un vai e vieni fra casa, cliniche e ambulatori per controlli ed esami vari. Nelle prescrizioni è indicato chiaramente che si tratta di un paziente oncologico, ma, regolarmente, da quando l'intera trafila non è gestita dall'ospedale e tocca a me chiamare quel numero magico che è il CUP per prenotare un qualsiasi esame, la risposta è sempre la stessa: non c'è posto in tutta la regione. E questo chiamando ogni due o tre giorni per tre mesi di fila. Sarà anche vero che potrebbero esserci casi di estrema urgenza a cui dare priorità, ma tutti i giorni? Per tre mesi? In un'intera regione? Stiamo parlando della salute di un caso non proprio di raffreddore cronico, ed io trovo inverosimile che gli ambulatori e le apparecchiature siano assediate dalla mattina alla sera da casi disperati che debbono essere trattati ora o mai più. E infatti, disperati noi per l'approssimarsi della visita oncologica per la quale avevamo bisogno di quei risultati, l'anno scorso ci siamo rivolti ad una persona che in ospedale ci lavora, anche se non nel reparto in cui avevamo bisogno di andare. Ci credereste? Miracolosamente, la prenotazione è arrivata in giornata. E con abbondante anticipo rispetto alla nostra scadenza. Quanti casi del genere si verificano ogni giorno in Italia, casi che senza la spintarella di qualche santo in Paradiso rimarrebbero privi di assistenza, oppure costretti a rivolgersi al privato? Qualcuno si rende conto che questa sarebbe la norma di un paese africano?
Poi c'è l'Agenzia delle Entrate, e, prima di questa, la famigerata Equitalia. Posso dire orgogliosamente di non aver mai scucito un centesimo, pur essendo stato oggetto, come praticamente chiunque, delle sue richieste usurarie. Cartelle da decine di migliaia di euro che mi chiedevano tributi o multe di otto, dieci o dodici anni prima, ossia non solo decadute e prescritte sotto ad ogni rispetto, ma la cui stessa esistenza era indimostrabile e, per quel che ne sapevo, potevano benissimo essere già state pagate o non essere mai esistite. Alle mie repliche incentrate su questi punti, che un qualsiasi giudice sano di mente avrebbe riconosciuto banalmente veri, anonimi impiegati (non si degnavano neppure di firmare le loro missive) rispondevano surrealmente che se me li avevano chiesti loro, quei pagamenti erano “evidentemente” validi. Al mio silenzio seguiva la loro inerzia, per anni, a dimostrazione che non c'era neppure una concreta volontà di recuperare somme dovute, ma solo un gioco perverso simile a quello dei truffatori virtuali, che spediscono le loro email e messaggi-esca a milioni, nella speranza che qualche pollo, per la legge dei grandi numeri, abbocchi e paghi.
E veniamo all'alluvione in Emilia Romagna, si parva licet. Nonostante la spazzatura mediatica con cui si è cercato di rintronare il pubblico convincendolo che è tutta colpa di quelli che non si comprano l'auto elettrica e causano il riscaldamento climatico, è emerso un quadro molto più inquietante di una regione che, presentata come una vetrina di efficienza e civiltà, anche grazie ad una millantatissima buona amministrazione di sinistra, ha letteralmente cessato di interessarsi di tutti quegli interventi di routine che rendono il territorio sicuro e pronto ad eventuali emergenze, ambientali e meteorologiche. La cosiddetta regione rossa ha non solo abbandonato a sé stessi gli argini dei fiumi, quegli stessi che hanno poi esondato causando i danni maggiori, ma i suoi amministratori hanno persino rispedito indietro i milioni dell'UE (che poi son sempre i nostri) destinati a quegli interventi da cui, evidentemente, non riteneva di guadagnare abbastanza (meglio lucrare su business più remunerativi). Gli stessi amministratori che hanno poi avuto la faccia di presentarsi durante la catastrofe tirando fuori dal cappello cause surreali come gli istrici o pavoneggiandosi in uniforme da Protezione Civile, loro che non ispirerebbero più neppure ad un bambino l'ombra di protezione, né del civile. E come se non bastasse, allo scandalo dei denari pubblici scomparsi chissà dove e come, si aggiunge l'ennesima fiera dell'accattonaggio delle mille associazioni ed enti, sponsorizzate dai prostituti dei cinegiornali di regime, che chiedono a noi cittadini di donare altri soldi, in modo che si perdano anch'essi nelle tasche di qualche furbo, l'unica categoria vincente nello sfascio generale. E nel silenzio di una magistratura che non ha mai condannato nessuno per questi furti.
Ah, aggiungo la chicca che, fra le mie esperienze, c'è anche quella con la sanità pubblica romagnola, in uno degli ospedali più rinomati di Bologna. L'incuria e l'arroganza non avevano nulla da invidiare agli standard della mia provincia profonda meridionale.
Questa è solo la mia esperienza, ma a 46 anni credo di averne abbastanza per saper distinguere fra ciò che può essere l'eccezione, e ciò che è la regola. E credo che chiunque, fra i miei lettori, possa attingere alle proprie memorie, comprese quelle più fresche, per confermare quello che sto per dire.
Siamo un sistema che sta andando a pezzi. La classe dirigente ha ormai abdicato a qualsiasi ruolo che non sia quello del semplice parassitismo. La finta destra e la finta sinistra non sono sensibili ad altro che ai vantaggi monetari più diretti delle poltrone che occupano. Il loro unico programma è quello di restare lì il più a lungo possibile. Franco Marino, in un suo recente intervento, parlava delle cause dell'astensione galoppante. Ho trovato che avesse colto nel segno: se la politica è l'arte di risolvere i problemi, la nostra politica ha cessato del tutto di essere tale. E perciò non importa più ad un numero sempre maggiore di persone che non si sentono più cittadini, ma sudditi vessati.
Sotto di loro, un esercito di impiegati, funzionari e manovali delle PPAA che hanno capito dove tira il vento e navigano a vista, cercando di fare il meno possibile in attesa di tirarsene fuori con una pensione. Il risultato è che nessuno fa più nulla, schivando abilmente le responsabilità (è per una banale questione di responsabilità rifiutate che, pur essendo il MOSE pronto, non fu attivato, causando qualche anno fa il disastro di Venezia). E giocando a scaricabarile, mentre nel frattempo tutto, fisicamente, perde pezzi e il degrado si infiltra ovunque, rendendo anche un banale viaggio di pochi chilometri una gimcana fra fossati e gradini, o l'attesa di un esame urgente un esercizio di morte per inedia. A chi sta dall'altra parte dello sportello o della scrivania non importa più nulla del disagio o delle sofferenze di chi, col proprio lavoro, gli paga lo stipendio. Forse neppure per insensibilità, ma per assuefazione, vedendo che, anno dopo anno, decennio dopo decennio, nulla cambia se non in peggio, e solo le pratiche più viscide o criminose ottengono un risultato.
Che è poi il quadro di ciò che ci si aspetta da un Paese del Terzo Mondo. Ossia un Paese in cui non funziona più niente, ciascuno è assorbito dalla propria sopravvivenza se si trova in basso, o dal latrocinio se sta abbastanza in alto da poter rubare i beni pubblici. Un Paese in cui servizi, comunicazioni, lavoro, sono tutti ormai merce di scambio di un suk generale in cui la moneta corrente è la corruzione, i nepotismi e i favori illeciti. Un Paese in cui la classe dirigente è la prima responsabile dello sfascio, anzi, sono loro i primi a spingere per il degrado, intascando quello che dovrebbe servire a rendere decente la vita della collettività. Gente che vive di una sola ideologia, lo sfascismo, da veri saccheggiatori, locuste avide e fameliche neppure capaci di vedere come rovinino un posto che è anche casa loro.
E tutti ci vivono come in una sorta di trance, convinti che il gioco durerà all'infinito. Senza pensare che nessuno ha interesse a pagare perché un circo del genere resti in piedi indefinitamente. E se non è collassato, è solo perché c'è un qualche interesse maggiore a tenere ancora in piedi la baracca.
Baracca che verrà lasciata sprofondare in modo ancora più catastrofico quando non ci sarà più nulla da spolpare.