Non parlo spesso della politica italiana, per il fatto che, considerando l'Italia uno Stato-fantoccio i cui governi vengono decisi a tavolino da chi prende le decisioni importanti in vece nostra (e quindi più a Wall Street o al Pentagono che a Roma), la politica interna ed estera così come viene è del tutto irrilevante, un insieme di giochi di palazzo i cui risultati non escono dalle mura del palazzo stesso, e che si concretano in questa o quella poltrona, questa o quella prebenda che passa dall'uno all'altro rappresentante di una classe politica del tutto inutile e parassitaria. E però, ogni tanto, è utile osservare anche queste scene da un teatrino, in quanto è possibile leggere in filigrana significati ben più pregnanti. Come ad esempio lo svolgersi dell'appena concluso viaggio-premio della presidente del Consiglio Giorgia Meloni ad Addis Abeba.
Pimpante e baldanzosa, la nostra premier è sbarcata in Etiopia carica di sorrisi e strette di mano, e se in novant'anni siamo passati dal “posare lo stivale in Africa Orientale” ad una più leggera scarpa con tacco, la maniera in cui i tiggì di regime hanno trattato l'odierna campagna d'Abissinia dell'ardita Giorgia sembrava coronare una vera svolta nei rapporti fra Italia e Africa, un cambio di passo che riportasse alla sua importanza strategica il Continente Nero (paraponzi ponzipò) nella politica estera italiana, se mai ve ne fosse una. Quindi immancabili foto ricordo con bambini neri, visita alla scuola italiana all'estero più grande nel mondo (e se quelle in Germania e Cina sono più piccole che ad Addis Abeba si capisce quale interesse per noi nutrano i Paesi che contano) e dichiarazioni altisonanti (“C'è tanta voglia di Italia in Africa”, come se non fosse chiaro già dai barconi pieni, e come se fosse qualcosa di cui vantarsi). E sin qui, le solite scenette trite e ritrite da viaggio-premio del politico italiano di turno, tanto fumo, niente arrosto e grande abbuffata finale. Quello che però si poteva notare, e anzi, sarebbe stato bello se qualcuno l'avesse fatto notare lì sul posto alla nostra presidente, magari mentre parlava con la bandiera dell'Organizzazione dell'Unità Africana alle spalle, è altro. Magari si trovava proprio nel palazzo sede dell'OUA, che sta proprio ad Addis Abeba. È un palazzone nuovo di zecca, che proprio all'ingresso espone una targa molto interessante, che dice pressappoco così: “Dono della Repubblica Popolare Cinese”.
In soldoni, la Cina in trent'anni ha investito così tanto in Africa, comprandosi terreni agricoli, l'accesso alle risorse minerarie ed energetiche, costruendo impianti industriali ed estrattivi, strade e vie di comunicazione, oltre che importando un numero impressionante (alcune fonti stimano a 750.000 le unità permanenti) di lavoratori cinesi per fare tutto il lavoro, con un ritorno di sicuro più che soddisfacente se si è potuta permettere di costruire un intero palazzo e regalarlo all'organizzazione che rappresenta la cooperazione continentale africana. I simboli sono importanti, se quel palazzo è dono della Cina, tant'è che la stessa Cina è, in Africa, il primo partner commerciale globale: 250 miliardi di dollari di interscambio, che superano i 235 di tutta l'Unione Europea, e ridicolizzano i 62 degli Stati Uniti.
Dopo aver visto chi è che mette i soldi, e quanti, i mirabolanti progetti della Meloni sembrano più un numero da tristissimo cabaret di periferia che un qualcosa dotato di prospettive e sostanza. Al solito, si cerca di mascherare la caduta verticale del peso e dell'influenza di un Paese che negli anni '80 era ancora la quarta potenza industriale al mondo, e che oggi non ha più né potenza, facendosi dettare le regole e dovendo mendicare i propri stessi soldi da una banda di burocrati europei nominati fra Parigi e Berlino, né l'industria, trasferitasi da un pezzo proprio in Cina, con la giustificazione che “conveniva”. Capirai la convenienza di spogliarsi dei mezzi con cui fabbricarsi il necessario e sostenersi per poi ritrovarsi con le pezze al culo (scusate il francesismo) balbettando di “turismo come risorsa primaria”, quasi che passare da quelli che costruivano i computer per la NASA quando gli americani da soli non erano capaci di mandare un satellite in orbita a gestori di B&B per stranieri in ferie sia un felice progresso.
Ecco, dopo aver saputo quanto spende e ha speso la Cina in Africa, la Meloni dovrebbe avere almeno una pallida idea di quanti soldi servirebbero per “rimetterci al centro” e soprattutto da dove cacciarli, dato che un anno sì e un anno pure dobbiamo sorbirci le minacce dell'INPS che non sa neppure come continuare a pagare le pensioni. Perché per “rimetterci al centro” occorrerebbe innanzitutto guardare al nostro problema principale, che si chiama Euro, e mettere mano alla trappola in cui stiamo soffocando, che si chiama Unione Europea, evitando costosi viaggi ufficiali in posti esotici da cui tornare con un pugno di mosche spacciandole per diamanti. Né suona meno che grottesco il richiamo a Mattei: al tempo in cui quest'uomo metteva mano al suo ambiziosissimo piano, l'Italia era un Paese che insegnava al mondo come si facevano le cose, tanto che la Olivetti vendeva i suoi computer alla NASA, come ricordato. Mattei, in sostanza, voleva che la politica italiana fosse coerente con la sua economia, stringendo i legami con i nostri fornitori naturali di materie prime, ossia il Nordafrica, il Vicino Oriente e l'Europa Orientale. Attualmente siamo in guerra proprio con la parte orientale d'Europa mentre il Vicino Oriente e l'Africa tutta si rivolgono alla Russia e alla Cina per risolvere i propri problemi e progettare il futuro. Ecco, Mattei fu assassinato proprio da quelli che hanno realizzato questo bel quadro e dai loro eredi spirituali. Sarebbe bello e onesto lasciar riposare in pace almeno il suo nome.
Pimpante e baldanzosa, la nostra premier è sbarcata in Etiopia carica di sorrisi e strette di mano, e se in novant'anni siamo passati dal “posare lo stivale in Africa Orientale” ad una più leggera scarpa con tacco, la maniera in cui i tiggì di regime hanno trattato l'odierna campagna d'Abissinia dell'ardita Giorgia sembrava coronare una vera svolta nei rapporti fra Italia e Africa, un cambio di passo che riportasse alla sua importanza strategica il Continente Nero (paraponzi ponzipò) nella politica estera italiana, se mai ve ne fosse una. Quindi immancabili foto ricordo con bambini neri, visita alla scuola italiana all'estero più grande nel mondo (e se quelle in Germania e Cina sono più piccole che ad Addis Abeba si capisce quale interesse per noi nutrano i Paesi che contano) e dichiarazioni altisonanti (“C'è tanta voglia di Italia in Africa”, come se non fosse chiaro già dai barconi pieni, e come se fosse qualcosa di cui vantarsi). E sin qui, le solite scenette trite e ritrite da viaggio-premio del politico italiano di turno, tanto fumo, niente arrosto e grande abbuffata finale. Quello che però si poteva notare, e anzi, sarebbe stato bello se qualcuno l'avesse fatto notare lì sul posto alla nostra presidente, magari mentre parlava con la bandiera dell'Organizzazione dell'Unità Africana alle spalle, è altro. Magari si trovava proprio nel palazzo sede dell'OUA, che sta proprio ad Addis Abeba. È un palazzone nuovo di zecca, che proprio all'ingresso espone una targa molto interessante, che dice pressappoco così: “Dono della Repubblica Popolare Cinese”.
In soldoni, la Cina in trent'anni ha investito così tanto in Africa, comprandosi terreni agricoli, l'accesso alle risorse minerarie ed energetiche, costruendo impianti industriali ed estrattivi, strade e vie di comunicazione, oltre che importando un numero impressionante (alcune fonti stimano a 750.000 le unità permanenti) di lavoratori cinesi per fare tutto il lavoro, con un ritorno di sicuro più che soddisfacente se si è potuta permettere di costruire un intero palazzo e regalarlo all'organizzazione che rappresenta la cooperazione continentale africana. I simboli sono importanti, se quel palazzo è dono della Cina, tant'è che la stessa Cina è, in Africa, il primo partner commerciale globale: 250 miliardi di dollari di interscambio, che superano i 235 di tutta l'Unione Europea, e ridicolizzano i 62 degli Stati Uniti.
Dopo aver visto chi è che mette i soldi, e quanti, i mirabolanti progetti della Meloni sembrano più un numero da tristissimo cabaret di periferia che un qualcosa dotato di prospettive e sostanza. Al solito, si cerca di mascherare la caduta verticale del peso e dell'influenza di un Paese che negli anni '80 era ancora la quarta potenza industriale al mondo, e che oggi non ha più né potenza, facendosi dettare le regole e dovendo mendicare i propri stessi soldi da una banda di burocrati europei nominati fra Parigi e Berlino, né l'industria, trasferitasi da un pezzo proprio in Cina, con la giustificazione che “conveniva”. Capirai la convenienza di spogliarsi dei mezzi con cui fabbricarsi il necessario e sostenersi per poi ritrovarsi con le pezze al culo (scusate il francesismo) balbettando di “turismo come risorsa primaria”, quasi che passare da quelli che costruivano i computer per la NASA quando gli americani da soli non erano capaci di mandare un satellite in orbita a gestori di B&B per stranieri in ferie sia un felice progresso.
Ecco, dopo aver saputo quanto spende e ha speso la Cina in Africa, la Meloni dovrebbe avere almeno una pallida idea di quanti soldi servirebbero per “rimetterci al centro” e soprattutto da dove cacciarli, dato che un anno sì e un anno pure dobbiamo sorbirci le minacce dell'INPS che non sa neppure come continuare a pagare le pensioni. Perché per “rimetterci al centro” occorrerebbe innanzitutto guardare al nostro problema principale, che si chiama Euro, e mettere mano alla trappola in cui stiamo soffocando, che si chiama Unione Europea, evitando costosi viaggi ufficiali in posti esotici da cui tornare con un pugno di mosche spacciandole per diamanti. Né suona meno che grottesco il richiamo a Mattei: al tempo in cui quest'uomo metteva mano al suo ambiziosissimo piano, l'Italia era un Paese che insegnava al mondo come si facevano le cose, tanto che la Olivetti vendeva i suoi computer alla NASA, come ricordato. Mattei, in sostanza, voleva che la politica italiana fosse coerente con la sua economia, stringendo i legami con i nostri fornitori naturali di materie prime, ossia il Nordafrica, il Vicino Oriente e l'Europa Orientale. Attualmente siamo in guerra proprio con la parte orientale d'Europa mentre il Vicino Oriente e l'Africa tutta si rivolgono alla Russia e alla Cina per risolvere i propri problemi e progettare il futuro. Ecco, Mattei fu assassinato proprio da quelli che hanno realizzato questo bel quadro e dai loro eredi spirituali. Sarebbe bello e onesto lasciar riposare in pace almeno il suo nome.
P.S. Avevo già finito di scrivere questo testo, quando è arrivato l'incredibile endorsement del Washington Post che ha elogiato la Meloni definendola “il leader ideale di una destra europea”. Non so se ci capiamo: una delle grancasse principali della propaganda Dem, che è notoriamente sul libro paga della CIA da decenni (insieme agli altri giornaloni americani) fa i complimenti al nostro Presidente del Consiglio. Che è come se il papa di Roma ricevesse l'appoggio dell'Unione Satanisti Italiani (cosa che potrebbe sempre accadere). Ecco, quando arrivi al vertice di un paese e ricevi l'apprezzamento dei più micidiali nemici dello stesso, io dico che qualcosa dovrebbe penetrare anche nei cervelli dei tuoi elettori più ottusi.