Mio padre è, come tutti i padri (o quasi), entusiasta dei propri figli. E quando ha saputo che scrivevo articoli per questa pagina, non si è limitato a leggerli, ma ha iniziato orgogliosamente a diffonderli ad alcuni contatti come se si trattasse del Verbo. Siccome conosco alcuni di tali contatti, sapevo come sarebbe andata a finire, ma l'ho lasciato fare perché ormai rassegnato al mio destino, che è di finire regolarmente al centro di qualche polemica. Stavolta questa era prevedibile, essendo uno di costoro una persona ben inserita nell'ambiente borghese della propria cittadina, già progressista, già 5 Stelle, vaccinomane di ferro (quattro dosi all'attivo e sostenitore dell'obbligo vaccinale) e attualmente, manco a dirlo, atlantista ed europeista con l'elmetto (virtuale) sempre indosso. Per non farsi mancare proprio nulla, ha anche un'opinione positiva della Massoneria, e qui mi fermo. Costui, dopo aver ricevuto gli ultimi articoli, ha avuto una conversazione di fuoco con mio padre (come se gli articoli li avesse scritti lui...), di cui non espongo i passaggi più stupidi, ma che ha avuto il suo apice nella domanda, posta in tono furioso: “Perché non se ne va in Russia?”, ovviamente rivolta a me.
Mi ha fatto ricordare quando, nei primi anni 2000, all'epoca del secondo governo Berlusconi, io e i miei ex-compagni affollavamo i blog dei giornali progressisti deprecando lo stato infimo delle libertà in Italia, che vedevamo prossima alla rovina e sotto all'incombente regime fascista già all'opera in attività liberticide, e ci paragonavamo alle “vere” democrazie europee (non agli USA: là c'era già Bush, e quindi per noi non poteva essere democrazia) come Francia, Gran Bretagna, gli scandinavi... Ogni tanto ci si imbatteva in qualche utente della riva opposta, che ci chiedeva, ora ironicamente, ora furiosamente, “Se vi piacciono tanto quei paesi, perché non ve ne andate a vivere lì?”. Uno degli ex-compagni, una volta argomentò che restavamo in Italia perché ne avevamo tutto il diritto, anzi il dovere, e che era ben esemplare che la logica della destra fosse quella dell'esilio per tutti quelli che non la pensavano come loro: “una logica fascista”. E giù applausi. Naturalmente ci sbagliavamo, e sappiamo tutti che il pericolo di deriva fascista, allora, non esisteva, ma questo lo so oggi, mentre la maggior parte di quegli ex-compagni ancora non lo sa. E anche questo è esemplare.
Oggi trovo che sia ancora più esemplare il fatto che gli ex-compagni abbiano fatto propria quella logica in maniera ancora più massiccia e convinta, e che gli sbandieratori della libertà e della democrazia non facciano che ripetere, giorno e notte, “Ma perché non te ne vai in Russia?” a chiunque non si beva d'un fiato i liquami di regime su Russia (e Cina, e Iran, e clima, e immigrazione, e Covid, e insomma tutto ciò di cui si possa avere un'opinione politicamente rilevante), e non una volta ogni tanto, come all'epoca che rievoco, ma sempre, non appena salti fuori una divergenza di vedute. Il fatto che non si rendano conto che cacciare dal Paese qualcuno solo perché si rifiuti di credere a quanto detto dai cinegiornali Luce del nostro tempo equivalga proprio ad un tipo di soluzione propria di quel “regime” e “pericolo di deriva fascista” da cui vorrebbero salvarci quando al governo non c'è il loro partito preferito, sembra non sfiorarli, ed è piuttosto illuminante sullo stato psicologico di manipolazione e regressione a cui le menti sono state portate da decenni di disinformazione di massa. Senza contare che in Russia, per chi, come me, l'ha percorsa in lungo e in largo ed è rimasto in contatto per un decennio con gente che ci vive, l'esistenza può essere comoda e soddisfacente come in qualsiasi altro posto, anche se a sentire blaterare qualcuno, già dimentico del Draghistan, laggiù dovrebbero esistere ancora i gulag.
E tuttavia, il punto resta un altro. Perché restiamo quì? Non che mi prema tanto rispondere a costui (tanto più che non mi ha neppure contestato direttamente), ma credo valga la pena mettere in chiaro, nel nostro campo, cosa significhi opporsi alla narrazione dominante e in che prospettiva.
Non credo, intanto, che noi si scriva su queste pagine tanto per sfogare una qualche frustrazione, né di voler esprimere un chiaro malessere esistenziale o materiale che mi faccia vagheggiare paesi lontani, tanto meno idealizzarli. Per quanto mi riguarda, non si tratta neppure di portare avanti una qualche azione che porti al cambiamento sociale con un contributo intellettuale. Ho già esposto, e non sono stato il solo, la convinzione che, in Italia come in generale in tutta l'Europa occidentale, la situazione sia tanto incancrenita e le forze della dissoluzione tanto avanti col proprio lavoro da rendere impossibile ogni opera di contrasto con mezzi pacifici. Questo sistema o viene sovvertito con la forza o non resta che aspettare collassi da sé, cosa che porterà a sua volta ad altra violenza. Per quanto mi riguarda, il mio è un atteggiamento debitore sia di Julius Evola che di Oswald Spengler. Dal primo ho tratto il valore del “mantenere la posizione”, indipendentemente dal fatto che vi sia o meno la possibilità di vincere la battaglia. Anzi, la vittoria, il successo, in sé non aggiungono niente e semmai è meritevole mantenersi saldi anche in mezzo alle rovine, per testimoniare, a sé stessi se non altro, di non aver ceduto alla corruzione e alla dissoluzione generale. Da Spengler, invece, l'importanza, durante il periodo di morte di un'intera civiltà, di salvare il salvabile, e passarlo alle generazioni future, senza preoccuparsi di ciò che queste ne faranno. Perciò è essenziale non farsi corrompere dalle sirene della persuasione di massa, della propaganda, della manipolazione. Mantenere lo spirito critico per poter osservare le cose col grado massimo di obbiettività che è concessa ad un essere umano, non farsi gregge né schiavo. Ho provato, come tanti fra chi mi legge, il senso di oppressione e di minaccia che veniva nientemeno che dal potere statale, nei giorni bui dell'imposizione del Green-Pass. Aver vinto, anche se temporaneamente, è qualcosa capace di rafforzare profondamente il proprio senso di giustizia, di libertà, e di ciò che significa "valore".
Ma c'è di più. Noi non ce ne andiamo perché siamo già a casa nostra. Per nascita, per cittadinanza, e soprattutto per diritto di sangue. Questa è anche la nostra terra, e abbiamo dimostrato di amarla e meritarla molto più di chi, in ossequio ai diktat di una classe dirigente svenduta ad interessi stranieri, apolide e corrotta, diktat strombazzati da giornalisti vili e servili, ha invece fatto vedere al mondo di essere capace di piegarsi a qualsiasi imposizione, persino a quelle in danno proprio e della propria patria. Superando persino il colorito paradosso evocato da quell'ambasciatore rumeno alla Società delle Nazioni che, durante la guerra d'Etiopia, disse: “Les italiens veulent nous faire avaler de la merde. Soit. Nous l'avalerons. Mais ils veulent aussi nous faire déclarer que c'est de la confiture de rose. Ça c'est un peu fort”. Ecco, costoro, se ciò gli fosse stato imposto da un debito DPCM, avrebbero non solo mandato giù lo sterco, assicurando poi trattarsi di confettura di rose, ma ne avrebbero chiesto anche un supplemento. E si incazzano pure se qualcuno non vuole seguirne l'esempio. Viviamo davvero il tempo evocato da Chesterton, quando scrisse: "La grande marcia della distruzione mentale proseguirà. Tutto verrà negato. Tutto diventerà un credo. È un atteggiamento ragionevole negare l'esistenza delle pietre sulla strada; sarà un dogma religioso affermarla. È una tesi razionale pensare di vivere tutti in un sogno; sarà un esempio di saggezza mistica affermare che siamo tutti svegli. Accenderemo fuochi per testimoniare che due più due fa quattro. Sguaineremo spade per dimostrare che le foglie sono verdi in estate. Non ci resterà quindi che difendere non solo le incredibili virtù e saggezze della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile: questo immenso, impossibile universo che ci guarda dritto negli occhi. Combatteremo per i prodigi visibili come se fossero invisibili. Guarderemo l'erba e i cieli impossibili con uno strano coraggio. Saremo tra coloro che hanno visto eppure hanno creduto”.
Ebbene, allo stesso modo noi restiamo perché amiamo questa terra, e gli apparteniamo tanto quanto essa appartiene a noi.
Mi ha fatto ricordare quando, nei primi anni 2000, all'epoca del secondo governo Berlusconi, io e i miei ex-compagni affollavamo i blog dei giornali progressisti deprecando lo stato infimo delle libertà in Italia, che vedevamo prossima alla rovina e sotto all'incombente regime fascista già all'opera in attività liberticide, e ci paragonavamo alle “vere” democrazie europee (non agli USA: là c'era già Bush, e quindi per noi non poteva essere democrazia) come Francia, Gran Bretagna, gli scandinavi... Ogni tanto ci si imbatteva in qualche utente della riva opposta, che ci chiedeva, ora ironicamente, ora furiosamente, “Se vi piacciono tanto quei paesi, perché non ve ne andate a vivere lì?”. Uno degli ex-compagni, una volta argomentò che restavamo in Italia perché ne avevamo tutto il diritto, anzi il dovere, e che era ben esemplare che la logica della destra fosse quella dell'esilio per tutti quelli che non la pensavano come loro: “una logica fascista”. E giù applausi. Naturalmente ci sbagliavamo, e sappiamo tutti che il pericolo di deriva fascista, allora, non esisteva, ma questo lo so oggi, mentre la maggior parte di quegli ex-compagni ancora non lo sa. E anche questo è esemplare.
Oggi trovo che sia ancora più esemplare il fatto che gli ex-compagni abbiano fatto propria quella logica in maniera ancora più massiccia e convinta, e che gli sbandieratori della libertà e della democrazia non facciano che ripetere, giorno e notte, “Ma perché non te ne vai in Russia?” a chiunque non si beva d'un fiato i liquami di regime su Russia (e Cina, e Iran, e clima, e immigrazione, e Covid, e insomma tutto ciò di cui si possa avere un'opinione politicamente rilevante), e non una volta ogni tanto, come all'epoca che rievoco, ma sempre, non appena salti fuori una divergenza di vedute. Il fatto che non si rendano conto che cacciare dal Paese qualcuno solo perché si rifiuti di credere a quanto detto dai cinegiornali Luce del nostro tempo equivalga proprio ad un tipo di soluzione propria di quel “regime” e “pericolo di deriva fascista” da cui vorrebbero salvarci quando al governo non c'è il loro partito preferito, sembra non sfiorarli, ed è piuttosto illuminante sullo stato psicologico di manipolazione e regressione a cui le menti sono state portate da decenni di disinformazione di massa. Senza contare che in Russia, per chi, come me, l'ha percorsa in lungo e in largo ed è rimasto in contatto per un decennio con gente che ci vive, l'esistenza può essere comoda e soddisfacente come in qualsiasi altro posto, anche se a sentire blaterare qualcuno, già dimentico del Draghistan, laggiù dovrebbero esistere ancora i gulag.
E tuttavia, il punto resta un altro. Perché restiamo quì? Non che mi prema tanto rispondere a costui (tanto più che non mi ha neppure contestato direttamente), ma credo valga la pena mettere in chiaro, nel nostro campo, cosa significhi opporsi alla narrazione dominante e in che prospettiva.
Non credo, intanto, che noi si scriva su queste pagine tanto per sfogare una qualche frustrazione, né di voler esprimere un chiaro malessere esistenziale o materiale che mi faccia vagheggiare paesi lontani, tanto meno idealizzarli. Per quanto mi riguarda, non si tratta neppure di portare avanti una qualche azione che porti al cambiamento sociale con un contributo intellettuale. Ho già esposto, e non sono stato il solo, la convinzione che, in Italia come in generale in tutta l'Europa occidentale, la situazione sia tanto incancrenita e le forze della dissoluzione tanto avanti col proprio lavoro da rendere impossibile ogni opera di contrasto con mezzi pacifici. Questo sistema o viene sovvertito con la forza o non resta che aspettare collassi da sé, cosa che porterà a sua volta ad altra violenza. Per quanto mi riguarda, il mio è un atteggiamento debitore sia di Julius Evola che di Oswald Spengler. Dal primo ho tratto il valore del “mantenere la posizione”, indipendentemente dal fatto che vi sia o meno la possibilità di vincere la battaglia. Anzi, la vittoria, il successo, in sé non aggiungono niente e semmai è meritevole mantenersi saldi anche in mezzo alle rovine, per testimoniare, a sé stessi se non altro, di non aver ceduto alla corruzione e alla dissoluzione generale. Da Spengler, invece, l'importanza, durante il periodo di morte di un'intera civiltà, di salvare il salvabile, e passarlo alle generazioni future, senza preoccuparsi di ciò che queste ne faranno. Perciò è essenziale non farsi corrompere dalle sirene della persuasione di massa, della propaganda, della manipolazione. Mantenere lo spirito critico per poter osservare le cose col grado massimo di obbiettività che è concessa ad un essere umano, non farsi gregge né schiavo. Ho provato, come tanti fra chi mi legge, il senso di oppressione e di minaccia che veniva nientemeno che dal potere statale, nei giorni bui dell'imposizione del Green-Pass. Aver vinto, anche se temporaneamente, è qualcosa capace di rafforzare profondamente il proprio senso di giustizia, di libertà, e di ciò che significa "valore".
Ma c'è di più. Noi non ce ne andiamo perché siamo già a casa nostra. Per nascita, per cittadinanza, e soprattutto per diritto di sangue. Questa è anche la nostra terra, e abbiamo dimostrato di amarla e meritarla molto più di chi, in ossequio ai diktat di una classe dirigente svenduta ad interessi stranieri, apolide e corrotta, diktat strombazzati da giornalisti vili e servili, ha invece fatto vedere al mondo di essere capace di piegarsi a qualsiasi imposizione, persino a quelle in danno proprio e della propria patria. Superando persino il colorito paradosso evocato da quell'ambasciatore rumeno alla Società delle Nazioni che, durante la guerra d'Etiopia, disse: “Les italiens veulent nous faire avaler de la merde. Soit. Nous l'avalerons. Mais ils veulent aussi nous faire déclarer que c'est de la confiture de rose. Ça c'est un peu fort”. Ecco, costoro, se ciò gli fosse stato imposto da un debito DPCM, avrebbero non solo mandato giù lo sterco, assicurando poi trattarsi di confettura di rose, ma ne avrebbero chiesto anche un supplemento. E si incazzano pure se qualcuno non vuole seguirne l'esempio. Viviamo davvero il tempo evocato da Chesterton, quando scrisse: "La grande marcia della distruzione mentale proseguirà. Tutto verrà negato. Tutto diventerà un credo. È un atteggiamento ragionevole negare l'esistenza delle pietre sulla strada; sarà un dogma religioso affermarla. È una tesi razionale pensare di vivere tutti in un sogno; sarà un esempio di saggezza mistica affermare che siamo tutti svegli. Accenderemo fuochi per testimoniare che due più due fa quattro. Sguaineremo spade per dimostrare che le foglie sono verdi in estate. Non ci resterà quindi che difendere non solo le incredibili virtù e saggezze della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile: questo immenso, impossibile universo che ci guarda dritto negli occhi. Combatteremo per i prodigi visibili come se fossero invisibili. Guarderemo l'erba e i cieli impossibili con uno strano coraggio. Saremo tra coloro che hanno visto eppure hanno creduto”.
Ebbene, allo stesso modo noi restiamo perché amiamo questa terra, e gli apparteniamo tanto quanto essa appartiene a noi.
E, sia detto per inciso, difenderemo sempre il diritto di saper distinguere fra la putredine e la confettura di rose.