Il primo evento relativo all'America Latina di cui ho buona memoria è il tentato golpe dei cosiddetti Carapintadas del dicembre del 1990, in Argentina. Le “Facce Dipinte” cercarono di assaltare e prendere alcuni edifici governativi, ma incontrarono la resistenza del resto dell'esercito, ed essendo appena qualche unità ribelle vennero ridotti in brevissimo tempo all'impotenza. Scoprii molto più tardi che quello era solo il quarto ed ultimo alzamiento di cui questo gruppo di rivoltosi si era reso protagonista. E tuttavia, il fallimento di questi tentativi di golpe sembrava più un'eccezione che la regola, in un'area geografica caratterizzata da colpi di Stato generalmente riusciti a cui succedevano regimi militari o comunque repressivi, tutti espressione delle politiche statunitensi nell'area.
Anni dopo sentii dire da qualcuno, di cui purtroppo non ricordo più il nome, qualcosa che mi torna sempre in mente quando si parla o si sente qualcosa del Sudamerica: che noi, di quell'enorme realtà geopolitica, non sappiamo letteralmente niente. Ebbene, è una delle affermazioni di cui ho avuto il maggior numero di prove a favore nel tempo. Tutto quello che posso dire dei Paesi dell'America Latina lo deduco dall'ampia letteratura che ho letto, dalle testimonianze di prima mano di chi è emigrato da poco nel mio paese, e da un ristretto numero di fonti ulteriori. Ne escludo accuratamente le fonti diplomatiche, l'informazione mainstream e tutto ciò che ci arriva in qualsiasi maniera ufficializzato ad usum delphini, dato che, a prestarci fede, il risultato sarebbe saperne ancor meno che se non ci si fosse informati per nulla. E ciò è vero anche per ciò che è accaduto ieri a Brasilia.
Che cosa sappiamo, infatti, dai tiggì di regime su questi fatti? Che un gruppo ben nutrito (si parla di decine di migliaia di persone) di sostenitori dell'ex-presidente Bolsonaro si siano radunati nella capitale brasiliana e abbiano tentato di prendere il potere a nome dell'ex-presidente, estromettendo l'attuale capo di Stato Lula da Silva, che ha vinto le recenti elezioni. Hanno occupato alcuni palazzi del potere nell'indifferenza o nell'impotenza delle forze di polizia, prima che le istituzioni reagissero estromettendo il capo delle stesse forze di sicurezza, uomo legato a Bolsonaro e lasciato lì da Lula, e l'esercito ristabilisse l'ordine. La sedicente “comunità internazionale”, ossia paesi UE, Stati Uniti e poco altro, hanno fermamente condannato il tentativo di golpe mentre lo stesso Bolsonaro, negli USA al momento dei disordini, si dissociava dalle violenze e ribadiva il suo sostegno alla democrazia.
Tutto molto limpido e che pare fatto apposta per far scuotere la testa alle vecchie signore intente a prendere il tè delle cinque, ma proprio per questo una versione edulcorata che, anche a non aver fatto studi approfonditi sulla società brasiliana, dà l'impressione di un racconto della nonna con accluso lieto fine. E proprio per questo non spiega assolutamente niente di ciò che bolle in pentola, in Brasile come nel resto del continente.
Come detto, l'America Latina è stata retta da regimi poco o per nulla democratici, per circa un secolo e mezzo, più o meno dall'indipendenza, conquistata con feroci guerre o violenti colpi di mano contro al potere coloniale iberico, fra il 1810 e il 1830 circa. Il Brasile in particolare ottenne l'indipendenza nel 1821 in modo relativamente incruento, come impero retto da un ramo della dinastia portoghese dei Braganza. Una dinastia particolarmente illuminata che, sotto a Don Pedro II, espanse i propri confini e si incamminò in un lungo processo che sarebbe culminato con l'abolizione della schiavitù. Un colpo di Stato, purtroppo, mise fine all'esperienza monarchica nel 1889 e inaugurò anche per il Brasile un lungo periodo di governi repubblicani oligarchici sostenuti dall'esercito e legati ad interessi che non erano precisamente quelli di larga parte della popolazione.
Una delle definizioni di “Stato” in cui meglio mi ritrovo è quella che dà Franco Marino, ossia “il gruppo, o i gruppi di potere che sono risultati vincenti dalle prove di forza con gli altri gruppi presenti sul territorio nazionale”. (cito a memoria, e mi scuso se ho reso in modo imperfetto quello che, secondo me, ne è il concetto fondamentale) Questo è vero ovunque, anche da noi, ma risulta in modo particolarmente lampante in America Latina. In Brasile, in particolare, è anche facile individuare chi siano stati, per gran parte della storia, questi gruppi. I proprietari terrieri che controllavano la produzione dei due principali prodotti d'esportazione del Paese, ossia cacao e caffè, erano quelli più ricchi e quindi più capaci di tenere sotto controllo l'esercito, tramite il quale imporre di volta in volta i vari governi nazionali. Essendo legati ai mercati europei inizialmente, e nordamericani poi, costoro dovevano venire a patti innanzitutto con quei centri di potere situati oltre l'oceano, a migliaia di chilometri dalle favelas di Rio o di Salvador de Bahia, con il prevedibile risultato che la miseria e l'abbandono alla criminalità di queste aree non poteva che peggiorare, indifferente ai profitti nella vendita delle derrate agricole. Per chi, come me, è stato un appassionato dei romanzi di Jorge Amado, nonostante la (o forse proprio a causa della) prospettiva marxista in cui quelle bellissime, tragicomiche storie sono immerse, l'onnipresenza di interessi economici enormi, lontani nella sede eppure spietati negli effetti sin nel più sperduto villaggio del Mato Grosso o del Nordeste, è il filo conduttore della stessa esistenza della varia umanità ivi rappresentata con tanta arte. E per oltre un secolo l'esistenza della Repubblica è stata in pugno a quegli interessi, determinandone le scelte fondamentali in politica interna ed estera, dalla dittatura di Getulio Vargas all'ingresso in guerra a fianco degli USA nel 1942. (pochi sanno che un minuscolo contingente brasiliano partecipò alla campagna d'Italia fra il 1943 e il 1945) In questo senso, il Brasile seguì le vicende del resto del continente, senza eccezione. Regimi repressivi, miseria interna, criminalità, traffico di droga, violenza (gli Squadroni della Morte in cui militò persino Jair Bolsonaro) e l'iperinflazione incontrollata ne furono le caratteristiche principali. Ogni tanto, un partito o una fazione arrivava al governo e cercava di rimettere in discussione questo intreccio perverso di interessi consolidati, per venire quasi sempre rovesciato in modo violento e senza troppi scrupoli. Fu il caso del Cile di Allende. Di ispirazione marxista, Allende cercò di rappresentare gli interessi del Cile in maniera più ampia del solito, andando a toccare direttamente i patrimoni e gli investimenti delle multinazionali USA che controllavano l'estrazione e l'esportazione di nitrati. Fu messo sotto attacco in maniera sistematica, con ogni mezzo. Ai parlamentari cileni vennero offerte cifre enormi affinché non ne confermassero l'elezione. Il Paese venne paralizzato dagli scioperi generali degli autotrasportatori. Infine, per farla finita, comprarono lo stesso Capo di Stato Maggiore Augusto Pinochet, appena nominato dallo stesso Allende, che con un colpo di Stato instaurò un regime militare ferreo che durò dal 1973 al 1989. In Argentina accadde più o meno lo stesso, e stavolta a finire sotto attacco fu il regime nazionalista del partito di Juan Peron, che era stato presidente nel dopoguerra e la cui seconda moglie, Isabelita, era divenuta a sua volta presidente dopo la morte del marito, nel 1974. In Argentina il rovesciamento fu più difficoltoso, perché Peron incarnò a lungo proprio gli interessi nazionali del Paese e perciò ebbe la fedeltà delle classi dirigenti oltre che dei militari, ma, quando ci si riuscì, il quadro fu esattamente lo stesso che altrove. In entrambi i casi si sa con certezza e dovizia di particolari del coinvolgimento della CIA e del Dipartimento di Stato delle amministrazioni Nixon e Ford, ma la successiva amministrazione Carter non fece niente per disconoscere quei risultati, a riprova che l'alternanza Democratici-Repubblicani ai vertici degli USA è una risibile finzione dietro la quale regna la tutela degli interessi delle multinazionali che comprano la Casa Bianca per questo o quel candidato. Ma fra la fine degli anni '80 e i primi 2000 qualcosa è cambiato, e il fallimento degli alzamientos argentini ne fu uno dei preavvisi più eloquenti. Il fatto che i colpi di mano militari o paramilitari non incontrassero più il successo che era solito accompagnarli mostrò come le condizioni per l'instaurazione del solito regime militare eterodiretto da Washington si stavano dissolvendo. L'ascesa di un governo populista con coloritura marxista come quello di Hugo Chavez in Venezuela, che trionfò rapidamente di un tentativo di colpo di Stato in cui l'amministrazione Bush si ritrovò immischiata sino al collo (l'allora Segretario di Stato Condoleeza Rice riconobbe immediatamente il governo golpista, rovesciato da una reazione popolare, e dell'esercito lealista, del tutto inattesa per Washington) nel 2002, diede il via ad un effetto domino. La bancarotta argentina con l'ascesa dei Kirchner e l'elezione di Lula in Brasile esemplificano il cambio di rotta di un continente che, a fatica ma in maniera inarrestabile, si è gradualmente affrancato dal dominio del capitale nordamericano e dai dettami dei Chicago Boys, le cui politiche di privatizzazione e manipolazione economica sono state forse il più grande esperimento economico mai condotto nella Storia, assieme alla collettivizzazione sovietica. E con gli stessi effetti fallimentari.
Questo processo è stato affrontato dagli USA con i soliti mezzi, e alterni successi. L'Argentina è rimasta con la corda al collo da parte dei sicari della globalizzazione, l'FMI e la Banca Mondiale, per quasi vent'anni. In Brasile e in Bolivia i governi popolari furono non solo sostituiti con squadre di colore diverso, ma gli ex-presidenti Lula e Morales vennero persino arrestati e sottoposti a processo. Il Venezuela si trovò sotto assedio per anni, con un sedicente presidente, Guaidò, chiara marionetta telecomandata da oltreoceano, che pur non avendo alcun seguito popolare è stato riconosciuto e promosso sia da Washington che dai gregari europei di contro al successore di Chavez, Nicolas Maduro. Successi del tutto effimeri, come sappiamo: Morales e Lula sono usciti dal carcere e se il partito del primo oggi governa la Bolivia, il secondo è tornato lui stesso alla presidenza del Brasile, mentre Guaidò ormai non può più presentare la sua faccia in giro per il Venezuela senza rischiare di essere preso pubblicamente a schiaffi.
Cosa può significare tutto questo, a voler leggere fra le righe dei movimenti sotterranei che portano le società dell'America Latina verso il cammino che seguiranno per gli anni a venire? Che, semplicemente, le classi dirigenti locali hanno individuato i propri interessi come legati allo sviluppo interno più che ai mercati stranieri. Questo non significa che verranno portate avanti necessariamente politiche socialiste o di pura beneficenza, ma di sicuro che questi Paesi, se dovessero trovarsi in rotta di collisione con gli interessi di gruppi economici e di potere stranieri, sceglieranno piuttosto lo scontro. Come sta già accadendo.
Chi ha in mano le armi ha in mano il potere, questo lo si sa sin dai tempi più remoti. L'esercito obbedisce generalmente ai propri ufficiali. Quando questo non accade, allora è la rivoluzione, e gli ufficiali vengono fatti fuori, anche fisicamente, ma solo per sostituirli con una nuova infornata di graduati, stavolta espressione di quelle forze che raccolgono le simpatie della massa dei militari. In Sudamerica non abbiamo assistito a rivoluzioni di questo tipo, fatte alcune trascurabili eccezioni in America Centrale, Cuba in massima parte. E gli ufficiali degli eserciti dei principali Paesi, dal Messico al Cile, dal Brasile all'Argentina, provengono tutti, tradizionalmente, da quella borghesia che è la spina dorsale delle relative classi dirigenti. Queste non hanno nulla da guadagnare, evidentemente, da un cambio di regime violento, e di conseguenza gli eserciti non hanno appoggiato massicciamente neppure i tentativi di golpe contro a regimi almeno ufficialmente vicini al marxismo che, in teoria, avrebbero dovuto detestare.
Se però analizziamo nei dettagli le immagini che ci è dato vedere da Brasilia, emerge almeno un punto in cui la narrazione ufficiale non sbaglia: le analogie con la prova di forza di Capitol Hill a pochi giorni dall'insediamento di Biden, due anni fa. Per quanto è possibile giudicare, infatti, è impressionante l'aspetto comune e “popolare” dei partecipanti a quelli che vengono tutt'ora presentati come dei colpi di Stato. Gente qualsiasi, vestita casual (i brasiliani in stragrande maggioranza con la maglia della nazionale carioca, cosa che mi è sembrata surreale), spesso avvolta nella bandiera nazionale, e tutta evidentemente disarmata (tant'è che, per farsi largo, hanno dovuto usare mezzi di fortuna come gli infissi e le transenne trovate per strada). Il fatto che fossero disarmati è una prova schiacciante che non c'era dietro nessuna organizzazione militare. Soprattutto nel caso degli statunitensi, che vivono in un Paese in cui, citando l'ammiraglio Yamamoto, c'è un fucile dietro ad ogni filo d'erba, fa impressione constatare che tutti i morti meno uno sono stati fra i manifestanti. Se fossero andati con intenzioni golpiste, di armi ce ne sarebbero state a migliaia e oggi parleremmo di un bagno di sangue. Idem a Brasilia: il massimo che si può ammettere è un'esplosione di rabbia popolare culminata in gesti di cieco vandalismo, ma senza alcuna regia degna di questo nome, e soprattutto degna del nome di colpo di Stato. Da quanto emerge, la maggior parte dei brasiliani fermati sinora, alcune migliaia, hanno raccontato di essere disoccupati e di essere arrivati solo perché qualcuno ha organizzato dei viaggi pagati in autobus. Cosa che farebbe pensare sì a qualcuno che avrebbe spinto un reale malcontento popolare verso i disordini, ma poco altro. L'esercito non ha mai vacillato. La polizia, inizialmente incerta o indifferente (si può sospettare per le simpatie pro-Bolsonaro del capo della Sicurezza), è poi rientrata nei ranghi. Come già in Venezuela e Bolivia, verrebbe da pensare che limitati settori dell'establishment abbiano cercato di destabilizzare la situazione, ma non abbiano avuto né la competenza né l'appoggio interno necessario a raggiungere il successo. E anche stavolta conviene spregiare le classiche letture destra/sinistra tanto care al giornalismo d'accatto italiano: se è vero che Lula era inviso agli USA soprattutto negli anni dell'amministrazione Bush (repubblicano), la sua destituzione, l'incriminazione e la condanna sulla scorta di prove poi riconosciute come false, è avvenuta durante l'amministrazione Obama. E se Bolsonaro, l'anti-Lula, è un classico rappresentante di quelle democrazie autoritarie tipiche della storia sudamericana, pure il suo atteggiamento durante la cosiddetta pandemia è stato un pugno nello stomaco alla narrazione demenziale funzionale alla propaganda della lobby del farmaco. Quel che è accaduto in Brasile è, con tutta probabilità, una serie di scosse d'assestamento mentre la politica nazionale torna nel solco di quella riconquistata indipendenza che ha portato la stragrande maggioranza dei paesi latinoamericani a smarcarsi dalle politiche USA, ad esempio rimanendo equidistanti nei confronti della Russia, quando non persino apertamente a favore del blocco dei BRICS di cui il Brasile fa da un pezzo parte.
Per concludere su di una nota di leggerezza, il Brasile sta vivendo la situazione di un personaggio fra i più amati di Jorge Amado, Dona Flor, che nel romanzo di cui è protagonista si trova a decidere fra due mariti: quello attuale, rispettabile e puritano, e quello defunto, ma presente in modo piuttosto ingombrante in veste di fantasma, dissoluto e sfrontato. Come nella storia di Amado, il Brasile, pur con le incertezze e le lacerazioni fra aspettative e desideri conflittuali, non rinnegherà interamente né l'uno né l'altro, cercando di tenersi il meglio di entrambi a tutto e proprio vantaggio.
Anni dopo sentii dire da qualcuno, di cui purtroppo non ricordo più il nome, qualcosa che mi torna sempre in mente quando si parla o si sente qualcosa del Sudamerica: che noi, di quell'enorme realtà geopolitica, non sappiamo letteralmente niente. Ebbene, è una delle affermazioni di cui ho avuto il maggior numero di prove a favore nel tempo. Tutto quello che posso dire dei Paesi dell'America Latina lo deduco dall'ampia letteratura che ho letto, dalle testimonianze di prima mano di chi è emigrato da poco nel mio paese, e da un ristretto numero di fonti ulteriori. Ne escludo accuratamente le fonti diplomatiche, l'informazione mainstream e tutto ciò che ci arriva in qualsiasi maniera ufficializzato ad usum delphini, dato che, a prestarci fede, il risultato sarebbe saperne ancor meno che se non ci si fosse informati per nulla. E ciò è vero anche per ciò che è accaduto ieri a Brasilia.
Che cosa sappiamo, infatti, dai tiggì di regime su questi fatti? Che un gruppo ben nutrito (si parla di decine di migliaia di persone) di sostenitori dell'ex-presidente Bolsonaro si siano radunati nella capitale brasiliana e abbiano tentato di prendere il potere a nome dell'ex-presidente, estromettendo l'attuale capo di Stato Lula da Silva, che ha vinto le recenti elezioni. Hanno occupato alcuni palazzi del potere nell'indifferenza o nell'impotenza delle forze di polizia, prima che le istituzioni reagissero estromettendo il capo delle stesse forze di sicurezza, uomo legato a Bolsonaro e lasciato lì da Lula, e l'esercito ristabilisse l'ordine. La sedicente “comunità internazionale”, ossia paesi UE, Stati Uniti e poco altro, hanno fermamente condannato il tentativo di golpe mentre lo stesso Bolsonaro, negli USA al momento dei disordini, si dissociava dalle violenze e ribadiva il suo sostegno alla democrazia.
Tutto molto limpido e che pare fatto apposta per far scuotere la testa alle vecchie signore intente a prendere il tè delle cinque, ma proprio per questo una versione edulcorata che, anche a non aver fatto studi approfonditi sulla società brasiliana, dà l'impressione di un racconto della nonna con accluso lieto fine. E proprio per questo non spiega assolutamente niente di ciò che bolle in pentola, in Brasile come nel resto del continente.
Come detto, l'America Latina è stata retta da regimi poco o per nulla democratici, per circa un secolo e mezzo, più o meno dall'indipendenza, conquistata con feroci guerre o violenti colpi di mano contro al potere coloniale iberico, fra il 1810 e il 1830 circa. Il Brasile in particolare ottenne l'indipendenza nel 1821 in modo relativamente incruento, come impero retto da un ramo della dinastia portoghese dei Braganza. Una dinastia particolarmente illuminata che, sotto a Don Pedro II, espanse i propri confini e si incamminò in un lungo processo che sarebbe culminato con l'abolizione della schiavitù. Un colpo di Stato, purtroppo, mise fine all'esperienza monarchica nel 1889 e inaugurò anche per il Brasile un lungo periodo di governi repubblicani oligarchici sostenuti dall'esercito e legati ad interessi che non erano precisamente quelli di larga parte della popolazione.
Una delle definizioni di “Stato” in cui meglio mi ritrovo è quella che dà Franco Marino, ossia “il gruppo, o i gruppi di potere che sono risultati vincenti dalle prove di forza con gli altri gruppi presenti sul territorio nazionale”. (cito a memoria, e mi scuso se ho reso in modo imperfetto quello che, secondo me, ne è il concetto fondamentale) Questo è vero ovunque, anche da noi, ma risulta in modo particolarmente lampante in America Latina. In Brasile, in particolare, è anche facile individuare chi siano stati, per gran parte della storia, questi gruppi. I proprietari terrieri che controllavano la produzione dei due principali prodotti d'esportazione del Paese, ossia cacao e caffè, erano quelli più ricchi e quindi più capaci di tenere sotto controllo l'esercito, tramite il quale imporre di volta in volta i vari governi nazionali. Essendo legati ai mercati europei inizialmente, e nordamericani poi, costoro dovevano venire a patti innanzitutto con quei centri di potere situati oltre l'oceano, a migliaia di chilometri dalle favelas di Rio o di Salvador de Bahia, con il prevedibile risultato che la miseria e l'abbandono alla criminalità di queste aree non poteva che peggiorare, indifferente ai profitti nella vendita delle derrate agricole. Per chi, come me, è stato un appassionato dei romanzi di Jorge Amado, nonostante la (o forse proprio a causa della) prospettiva marxista in cui quelle bellissime, tragicomiche storie sono immerse, l'onnipresenza di interessi economici enormi, lontani nella sede eppure spietati negli effetti sin nel più sperduto villaggio del Mato Grosso o del Nordeste, è il filo conduttore della stessa esistenza della varia umanità ivi rappresentata con tanta arte. E per oltre un secolo l'esistenza della Repubblica è stata in pugno a quegli interessi, determinandone le scelte fondamentali in politica interna ed estera, dalla dittatura di Getulio Vargas all'ingresso in guerra a fianco degli USA nel 1942. (pochi sanno che un minuscolo contingente brasiliano partecipò alla campagna d'Italia fra il 1943 e il 1945) In questo senso, il Brasile seguì le vicende del resto del continente, senza eccezione. Regimi repressivi, miseria interna, criminalità, traffico di droga, violenza (gli Squadroni della Morte in cui militò persino Jair Bolsonaro) e l'iperinflazione incontrollata ne furono le caratteristiche principali. Ogni tanto, un partito o una fazione arrivava al governo e cercava di rimettere in discussione questo intreccio perverso di interessi consolidati, per venire quasi sempre rovesciato in modo violento e senza troppi scrupoli. Fu il caso del Cile di Allende. Di ispirazione marxista, Allende cercò di rappresentare gli interessi del Cile in maniera più ampia del solito, andando a toccare direttamente i patrimoni e gli investimenti delle multinazionali USA che controllavano l'estrazione e l'esportazione di nitrati. Fu messo sotto attacco in maniera sistematica, con ogni mezzo. Ai parlamentari cileni vennero offerte cifre enormi affinché non ne confermassero l'elezione. Il Paese venne paralizzato dagli scioperi generali degli autotrasportatori. Infine, per farla finita, comprarono lo stesso Capo di Stato Maggiore Augusto Pinochet, appena nominato dallo stesso Allende, che con un colpo di Stato instaurò un regime militare ferreo che durò dal 1973 al 1989. In Argentina accadde più o meno lo stesso, e stavolta a finire sotto attacco fu il regime nazionalista del partito di Juan Peron, che era stato presidente nel dopoguerra e la cui seconda moglie, Isabelita, era divenuta a sua volta presidente dopo la morte del marito, nel 1974. In Argentina il rovesciamento fu più difficoltoso, perché Peron incarnò a lungo proprio gli interessi nazionali del Paese e perciò ebbe la fedeltà delle classi dirigenti oltre che dei militari, ma, quando ci si riuscì, il quadro fu esattamente lo stesso che altrove. In entrambi i casi si sa con certezza e dovizia di particolari del coinvolgimento della CIA e del Dipartimento di Stato delle amministrazioni Nixon e Ford, ma la successiva amministrazione Carter non fece niente per disconoscere quei risultati, a riprova che l'alternanza Democratici-Repubblicani ai vertici degli USA è una risibile finzione dietro la quale regna la tutela degli interessi delle multinazionali che comprano la Casa Bianca per questo o quel candidato. Ma fra la fine degli anni '80 e i primi 2000 qualcosa è cambiato, e il fallimento degli alzamientos argentini ne fu uno dei preavvisi più eloquenti. Il fatto che i colpi di mano militari o paramilitari non incontrassero più il successo che era solito accompagnarli mostrò come le condizioni per l'instaurazione del solito regime militare eterodiretto da Washington si stavano dissolvendo. L'ascesa di un governo populista con coloritura marxista come quello di Hugo Chavez in Venezuela, che trionfò rapidamente di un tentativo di colpo di Stato in cui l'amministrazione Bush si ritrovò immischiata sino al collo (l'allora Segretario di Stato Condoleeza Rice riconobbe immediatamente il governo golpista, rovesciato da una reazione popolare, e dell'esercito lealista, del tutto inattesa per Washington) nel 2002, diede il via ad un effetto domino. La bancarotta argentina con l'ascesa dei Kirchner e l'elezione di Lula in Brasile esemplificano il cambio di rotta di un continente che, a fatica ma in maniera inarrestabile, si è gradualmente affrancato dal dominio del capitale nordamericano e dai dettami dei Chicago Boys, le cui politiche di privatizzazione e manipolazione economica sono state forse il più grande esperimento economico mai condotto nella Storia, assieme alla collettivizzazione sovietica. E con gli stessi effetti fallimentari.
Questo processo è stato affrontato dagli USA con i soliti mezzi, e alterni successi. L'Argentina è rimasta con la corda al collo da parte dei sicari della globalizzazione, l'FMI e la Banca Mondiale, per quasi vent'anni. In Brasile e in Bolivia i governi popolari furono non solo sostituiti con squadre di colore diverso, ma gli ex-presidenti Lula e Morales vennero persino arrestati e sottoposti a processo. Il Venezuela si trovò sotto assedio per anni, con un sedicente presidente, Guaidò, chiara marionetta telecomandata da oltreoceano, che pur non avendo alcun seguito popolare è stato riconosciuto e promosso sia da Washington che dai gregari europei di contro al successore di Chavez, Nicolas Maduro. Successi del tutto effimeri, come sappiamo: Morales e Lula sono usciti dal carcere e se il partito del primo oggi governa la Bolivia, il secondo è tornato lui stesso alla presidenza del Brasile, mentre Guaidò ormai non può più presentare la sua faccia in giro per il Venezuela senza rischiare di essere preso pubblicamente a schiaffi.
Cosa può significare tutto questo, a voler leggere fra le righe dei movimenti sotterranei che portano le società dell'America Latina verso il cammino che seguiranno per gli anni a venire? Che, semplicemente, le classi dirigenti locali hanno individuato i propri interessi come legati allo sviluppo interno più che ai mercati stranieri. Questo non significa che verranno portate avanti necessariamente politiche socialiste o di pura beneficenza, ma di sicuro che questi Paesi, se dovessero trovarsi in rotta di collisione con gli interessi di gruppi economici e di potere stranieri, sceglieranno piuttosto lo scontro. Come sta già accadendo.
Chi ha in mano le armi ha in mano il potere, questo lo si sa sin dai tempi più remoti. L'esercito obbedisce generalmente ai propri ufficiali. Quando questo non accade, allora è la rivoluzione, e gli ufficiali vengono fatti fuori, anche fisicamente, ma solo per sostituirli con una nuova infornata di graduati, stavolta espressione di quelle forze che raccolgono le simpatie della massa dei militari. In Sudamerica non abbiamo assistito a rivoluzioni di questo tipo, fatte alcune trascurabili eccezioni in America Centrale, Cuba in massima parte. E gli ufficiali degli eserciti dei principali Paesi, dal Messico al Cile, dal Brasile all'Argentina, provengono tutti, tradizionalmente, da quella borghesia che è la spina dorsale delle relative classi dirigenti. Queste non hanno nulla da guadagnare, evidentemente, da un cambio di regime violento, e di conseguenza gli eserciti non hanno appoggiato massicciamente neppure i tentativi di golpe contro a regimi almeno ufficialmente vicini al marxismo che, in teoria, avrebbero dovuto detestare.
Se però analizziamo nei dettagli le immagini che ci è dato vedere da Brasilia, emerge almeno un punto in cui la narrazione ufficiale non sbaglia: le analogie con la prova di forza di Capitol Hill a pochi giorni dall'insediamento di Biden, due anni fa. Per quanto è possibile giudicare, infatti, è impressionante l'aspetto comune e “popolare” dei partecipanti a quelli che vengono tutt'ora presentati come dei colpi di Stato. Gente qualsiasi, vestita casual (i brasiliani in stragrande maggioranza con la maglia della nazionale carioca, cosa che mi è sembrata surreale), spesso avvolta nella bandiera nazionale, e tutta evidentemente disarmata (tant'è che, per farsi largo, hanno dovuto usare mezzi di fortuna come gli infissi e le transenne trovate per strada). Il fatto che fossero disarmati è una prova schiacciante che non c'era dietro nessuna organizzazione militare. Soprattutto nel caso degli statunitensi, che vivono in un Paese in cui, citando l'ammiraglio Yamamoto, c'è un fucile dietro ad ogni filo d'erba, fa impressione constatare che tutti i morti meno uno sono stati fra i manifestanti. Se fossero andati con intenzioni golpiste, di armi ce ne sarebbero state a migliaia e oggi parleremmo di un bagno di sangue. Idem a Brasilia: il massimo che si può ammettere è un'esplosione di rabbia popolare culminata in gesti di cieco vandalismo, ma senza alcuna regia degna di questo nome, e soprattutto degna del nome di colpo di Stato. Da quanto emerge, la maggior parte dei brasiliani fermati sinora, alcune migliaia, hanno raccontato di essere disoccupati e di essere arrivati solo perché qualcuno ha organizzato dei viaggi pagati in autobus. Cosa che farebbe pensare sì a qualcuno che avrebbe spinto un reale malcontento popolare verso i disordini, ma poco altro. L'esercito non ha mai vacillato. La polizia, inizialmente incerta o indifferente (si può sospettare per le simpatie pro-Bolsonaro del capo della Sicurezza), è poi rientrata nei ranghi. Come già in Venezuela e Bolivia, verrebbe da pensare che limitati settori dell'establishment abbiano cercato di destabilizzare la situazione, ma non abbiano avuto né la competenza né l'appoggio interno necessario a raggiungere il successo. E anche stavolta conviene spregiare le classiche letture destra/sinistra tanto care al giornalismo d'accatto italiano: se è vero che Lula era inviso agli USA soprattutto negli anni dell'amministrazione Bush (repubblicano), la sua destituzione, l'incriminazione e la condanna sulla scorta di prove poi riconosciute come false, è avvenuta durante l'amministrazione Obama. E se Bolsonaro, l'anti-Lula, è un classico rappresentante di quelle democrazie autoritarie tipiche della storia sudamericana, pure il suo atteggiamento durante la cosiddetta pandemia è stato un pugno nello stomaco alla narrazione demenziale funzionale alla propaganda della lobby del farmaco. Quel che è accaduto in Brasile è, con tutta probabilità, una serie di scosse d'assestamento mentre la politica nazionale torna nel solco di quella riconquistata indipendenza che ha portato la stragrande maggioranza dei paesi latinoamericani a smarcarsi dalle politiche USA, ad esempio rimanendo equidistanti nei confronti della Russia, quando non persino apertamente a favore del blocco dei BRICS di cui il Brasile fa da un pezzo parte.
Per concludere su di una nota di leggerezza, il Brasile sta vivendo la situazione di un personaggio fra i più amati di Jorge Amado, Dona Flor, che nel romanzo di cui è protagonista si trova a decidere fra due mariti: quello attuale, rispettabile e puritano, e quello defunto, ma presente in modo piuttosto ingombrante in veste di fantasma, dissoluto e sfrontato. Come nella storia di Amado, il Brasile, pur con le incertezze e le lacerazioni fra aspettative e desideri conflittuali, non rinnegherà interamente né l'uno né l'altro, cercando di tenersi il meglio di entrambi a tutto e proprio vantaggio.