Si è appena concluso il Mondiale del Qatar, forse il più criticato e quello su cui si è più polemizzato di sempre. Il fatto che si sia chiuso con una vittoria su tutta la linea del Paese organizzatore dovrebbe far capire dove tira il vento, ma non è di questo che voglio parlare, almeno stavolta.
La gioia che mi è entrata in casa, e nel cuore, quando Montiel ha segnato quell'ultimo gol, è stata immensa, irrefrenabile, e l'urlo liberatorio “Campioni! Campioni! Campioni!” che si è sentito sino in strada deve aver fatto pensare ai passanti che dovevamo essere tutti matti. O tutti argentini. E non è detto che le due cose si escludano.
Il mio rapporto con l'Argentina inizia a 13 anni, nel 1990. il mondiale delle notti magiche, di Totò Schillaci, dei caroselli per le vie del paese. L'Argentina era quella di Maradona, che difendeva il titolo conquistato quattro anni prima in Messico. La squadra più odiata del torneo era la sua, grazie al suo carattere ruvido e al gol di mano contro agli inglesi (replicato stavolta contro all'Unione Sovietica, cosa che nessuno oggi ricorda più). Quanto gioimmo per la sconfitta nella partita inaugurale, contro al Camerun. Ma chi inizia male può solo migliorare, cosa che si ripeté con noi a USA '94 e alla stessa Argentina oggi, e in semifinale il cammino vittorioso degli azzurri si infranse proprio sullo scoglio argentino. Vantaggio del solito Schillaci, pareggio di Caniggia, sconfitta ai rigori (e la maledizione ci inseguì sino al 2006). Quella notte piansi della delusione assoluta di un ragazzino, il mondo intero mi era crollato addosso. Odiai Maradona e tutta l'Argentina in modo puerile, arrivando a sputare sulle pagine del giornale in cui compariva il “nemico”. E in finale tifai per la Germania (come me ne sarei vergognato poi...). L'antipatia rimase sino al Mondale successivo, quando Diego fu costretto ad abbandonare la competizione inseguito dagli scandali e dalle inchieste sulla droga. Seguii la parabola discendente del campione con gran soddisfazione, e neppure immaginavo quanto di manovrato ci fosse dietro. Poi, per caso, scoprii che la stragrande maggioranza degli argentini avevano antenati italiani. Chi gli stessi genitori, chi i nonni. Il 60%, secondo alcune stime, aveva le sue radici in Italia. Praticamente avevamo lo stesso sangue. Mi avvicinai a quel Paese così lontano eppure così vicino, imparai a conoscere Jorge Luis Borges, la Patagonia e la Terra del Fuoco, il tango di Piazzolla e i gauchos della Pampa. Insomma, presi ad amare quel Paese e la sua gente in modo aperto ed entusiasta, quasi a farmi perdonare quel pregiudizio iniziale con un altro, stavolta positivo. E quest'amore si estese, inevitabilmente, alla loro Nazionale. Se nel 2006 e 2010 non soffrii troppo per la loro eliminazione ai quarti, alla finale del 2014 con la Germania tifai chiaramente per loro. E per loro soffrii, quando persero. Ma questa volta le superò tutte. Mio figlio, otto anni, ama Messi. Questi è un campione gentile, le cui azioni nel Barcellona hanno avuto del miracoloso, ed è stato tanto più inspiegabile e triste che, in nazionale, non abbia mai concluso granché. Così alla mia passione insana si è unito un senso di giustizia e riscatto per un merito frustrato. Col mio bambino abbiamo seguito tutte le partite insieme, abbiamo gioito e ci siamo arrabbiati, e poi, arrivati alla finale, abbiamo subito la tortura infinita sino a guardare i rigori abbracciati. A quel punto eravamo affratellati agli argentini in modo inedito, profondo. Sin dall'inno, quando l'intero stadio ne ha intonato note e parole, e Dybala inquadrato cantava a occhi chiusi con espressione estatica, ho sentito la pelle d'oca, come se fossi stato toccato da un'esperienza mistica. E ho tutt'ora la pelle d'oca a rivedere quelle immagini, così come ho i brividi a vedere quelle di un popolo che nereggia per le vie e le piazze di Buenos Aires sventolando i colori nazionali.
Esagero, lo so. Come in tutte le cose che mi capita di amare, lo faccio in maniera assoluta, prendendola subito in maniera personale. Eppure stavolta si può anche razionalizzare l'esperienza, e sotto a più punti di vista. Perché l'avversario era anche lui portatore di significati. Volente o nolente. Da oltre vent'anni, infatti, i prostituti di regime a mezzo stampa ci vogliono ficcare in gola la squadra francese come un modello (non solo sportivo) di integrazione e civiltà, a motivo del suo “multiculturalismo”, ossia della predominanza sempre più smaccata di ceppi razziali non europei. E poco vale che, ad ogni scontro diretto con le rappresentanze magrebine o subsahariane, i "francesi" di seconda e terza generazione si ricordino dei nonni africani e vadano a fischiare la Marsigliese (e magari a spaccare vetrine lungo agli Champs Elysées). Essa è la squadra preferita dalle élite apolidi, traditrici e parassitarie italiche (e non solo) che vi vedono riflesse quelle che credono le virtù della Francia odierna, ossia laicismo, autoflagellazione e rinnegamento del proprio passato in nome degli ideali astratti e freddi consacrati dal razionalismo settecentesco e dal bagno di sangue rivoluzionario. Il fatto che non si tratti solo di una partita di pallone lo si vede dalle reazioni della Presidenza della Repubblica francese. Chirac che nel 2006 arrivò a parlare alla nazione dopo la sconfitta con l'Italia, e Macron che è arrivato direttamente a Doha per fare il tifo e poi si è introdotto persino negli spogliatoi (spero non per molestare i ragazzi). Lo stesso Macron che Mario Quisling e il presiniente Paperella hanno palpeggiato con tanto affetto in occasione del ricevimento al Quirinale per lo scorso G20, accantonando viscidamente persino le misure anti-Covid. Quello che ha tentato di comprarsi, qualche anno fa, la nostra frontiera marittima dalla fantozziana coppia Renzi-Gentiloni neanche fosse Totò che cercava di vendere la Fontana di Trevi. E che poi si accorda regolarmente con la Germania per dividersi le spoglie d'Europa, a tu per tu, mentre lascia alla Commissione il compito di imporre il pizzo quando c'è da pagare per le catastrofiche politiche comuni. Ecco, ditemi se avrei potuto tifare per questo esempio di doppiezza, latrocinio e mistificazione, saccheggio dei patrimoni altrui e violenza ai valori e all'identità costruiti nei millenni. Il tutto per una pacca sulla spalla e i complimenti per esserci fatti fregare ogni volta di più.
Ho tifato Argentina perché sentivo, prima ancora di sapere, che avevo più in comune con quei volti, quel sangue e quella lingua, rispetto all'accozzaglia araba e subsahariana dei transalpini. C'era più Italia, ed Europa nelle vene di quella squadra di là dall'Oceano che nella rappresentanza dell'Unione Franco-africana (e che i tafazzi nostrani si ostinano a definire “cugini”). Ma potevo sentirmi affratellato agli argentini anche sotto altri aspetti: abbiamo entrambi vissuto un'epoca felice grazie al lavoro e alla creatività nostrana, per venire poi rovinati e spolpati dagli avvoltoi stranieri e dai sicari locali in nome del “Mercato” di cui paiono essere sempre i portavoce. Tanto che almeno loro paiono cercare di sottrarsi a quell'abbraccio mortale, per legarsi alle potenze emergenti ed entrare nei BRIC. Somiglianze che, da tanto tempo, fanno dire scherzosamente che gli argentini sono dei tizi che parlano spagnolo, si credono inglesi, ma sono italiani. (Tranne Jorge Luis Borges: lui era un signore che parlava spagnolo, si credeva argentino, ma era inglese)
La gioia che mi è entrata in casa, e nel cuore, quando Montiel ha segnato quell'ultimo gol, è stata immensa, irrefrenabile, e l'urlo liberatorio “Campioni! Campioni! Campioni!” che si è sentito sino in strada deve aver fatto pensare ai passanti che dovevamo essere tutti matti. O tutti argentini. E non è detto che le due cose si escludano.
Il mio rapporto con l'Argentina inizia a 13 anni, nel 1990. il mondiale delle notti magiche, di Totò Schillaci, dei caroselli per le vie del paese. L'Argentina era quella di Maradona, che difendeva il titolo conquistato quattro anni prima in Messico. La squadra più odiata del torneo era la sua, grazie al suo carattere ruvido e al gol di mano contro agli inglesi (replicato stavolta contro all'Unione Sovietica, cosa che nessuno oggi ricorda più). Quanto gioimmo per la sconfitta nella partita inaugurale, contro al Camerun. Ma chi inizia male può solo migliorare, cosa che si ripeté con noi a USA '94 e alla stessa Argentina oggi, e in semifinale il cammino vittorioso degli azzurri si infranse proprio sullo scoglio argentino. Vantaggio del solito Schillaci, pareggio di Caniggia, sconfitta ai rigori (e la maledizione ci inseguì sino al 2006). Quella notte piansi della delusione assoluta di un ragazzino, il mondo intero mi era crollato addosso. Odiai Maradona e tutta l'Argentina in modo puerile, arrivando a sputare sulle pagine del giornale in cui compariva il “nemico”. E in finale tifai per la Germania (come me ne sarei vergognato poi...). L'antipatia rimase sino al Mondale successivo, quando Diego fu costretto ad abbandonare la competizione inseguito dagli scandali e dalle inchieste sulla droga. Seguii la parabola discendente del campione con gran soddisfazione, e neppure immaginavo quanto di manovrato ci fosse dietro. Poi, per caso, scoprii che la stragrande maggioranza degli argentini avevano antenati italiani. Chi gli stessi genitori, chi i nonni. Il 60%, secondo alcune stime, aveva le sue radici in Italia. Praticamente avevamo lo stesso sangue. Mi avvicinai a quel Paese così lontano eppure così vicino, imparai a conoscere Jorge Luis Borges, la Patagonia e la Terra del Fuoco, il tango di Piazzolla e i gauchos della Pampa. Insomma, presi ad amare quel Paese e la sua gente in modo aperto ed entusiasta, quasi a farmi perdonare quel pregiudizio iniziale con un altro, stavolta positivo. E quest'amore si estese, inevitabilmente, alla loro Nazionale. Se nel 2006 e 2010 non soffrii troppo per la loro eliminazione ai quarti, alla finale del 2014 con la Germania tifai chiaramente per loro. E per loro soffrii, quando persero. Ma questa volta le superò tutte. Mio figlio, otto anni, ama Messi. Questi è un campione gentile, le cui azioni nel Barcellona hanno avuto del miracoloso, ed è stato tanto più inspiegabile e triste che, in nazionale, non abbia mai concluso granché. Così alla mia passione insana si è unito un senso di giustizia e riscatto per un merito frustrato. Col mio bambino abbiamo seguito tutte le partite insieme, abbiamo gioito e ci siamo arrabbiati, e poi, arrivati alla finale, abbiamo subito la tortura infinita sino a guardare i rigori abbracciati. A quel punto eravamo affratellati agli argentini in modo inedito, profondo. Sin dall'inno, quando l'intero stadio ne ha intonato note e parole, e Dybala inquadrato cantava a occhi chiusi con espressione estatica, ho sentito la pelle d'oca, come se fossi stato toccato da un'esperienza mistica. E ho tutt'ora la pelle d'oca a rivedere quelle immagini, così come ho i brividi a vedere quelle di un popolo che nereggia per le vie e le piazze di Buenos Aires sventolando i colori nazionali.
Esagero, lo so. Come in tutte le cose che mi capita di amare, lo faccio in maniera assoluta, prendendola subito in maniera personale. Eppure stavolta si può anche razionalizzare l'esperienza, e sotto a più punti di vista. Perché l'avversario era anche lui portatore di significati. Volente o nolente. Da oltre vent'anni, infatti, i prostituti di regime a mezzo stampa ci vogliono ficcare in gola la squadra francese come un modello (non solo sportivo) di integrazione e civiltà, a motivo del suo “multiculturalismo”, ossia della predominanza sempre più smaccata di ceppi razziali non europei. E poco vale che, ad ogni scontro diretto con le rappresentanze magrebine o subsahariane, i "francesi" di seconda e terza generazione si ricordino dei nonni africani e vadano a fischiare la Marsigliese (e magari a spaccare vetrine lungo agli Champs Elysées). Essa è la squadra preferita dalle élite apolidi, traditrici e parassitarie italiche (e non solo) che vi vedono riflesse quelle che credono le virtù della Francia odierna, ossia laicismo, autoflagellazione e rinnegamento del proprio passato in nome degli ideali astratti e freddi consacrati dal razionalismo settecentesco e dal bagno di sangue rivoluzionario. Il fatto che non si tratti solo di una partita di pallone lo si vede dalle reazioni della Presidenza della Repubblica francese. Chirac che nel 2006 arrivò a parlare alla nazione dopo la sconfitta con l'Italia, e Macron che è arrivato direttamente a Doha per fare il tifo e poi si è introdotto persino negli spogliatoi (spero non per molestare i ragazzi). Lo stesso Macron che Mario Quisling e il presiniente Paperella hanno palpeggiato con tanto affetto in occasione del ricevimento al Quirinale per lo scorso G20, accantonando viscidamente persino le misure anti-Covid. Quello che ha tentato di comprarsi, qualche anno fa, la nostra frontiera marittima dalla fantozziana coppia Renzi-Gentiloni neanche fosse Totò che cercava di vendere la Fontana di Trevi. E che poi si accorda regolarmente con la Germania per dividersi le spoglie d'Europa, a tu per tu, mentre lascia alla Commissione il compito di imporre il pizzo quando c'è da pagare per le catastrofiche politiche comuni. Ecco, ditemi se avrei potuto tifare per questo esempio di doppiezza, latrocinio e mistificazione, saccheggio dei patrimoni altrui e violenza ai valori e all'identità costruiti nei millenni. Il tutto per una pacca sulla spalla e i complimenti per esserci fatti fregare ogni volta di più.
Ho tifato Argentina perché sentivo, prima ancora di sapere, che avevo più in comune con quei volti, quel sangue e quella lingua, rispetto all'accozzaglia araba e subsahariana dei transalpini. C'era più Italia, ed Europa nelle vene di quella squadra di là dall'Oceano che nella rappresentanza dell'Unione Franco-africana (e che i tafazzi nostrani si ostinano a definire “cugini”). Ma potevo sentirmi affratellato agli argentini anche sotto altri aspetti: abbiamo entrambi vissuto un'epoca felice grazie al lavoro e alla creatività nostrana, per venire poi rovinati e spolpati dagli avvoltoi stranieri e dai sicari locali in nome del “Mercato” di cui paiono essere sempre i portavoce. Tanto che almeno loro paiono cercare di sottrarsi a quell'abbraccio mortale, per legarsi alle potenze emergenti ed entrare nei BRIC. Somiglianze che, da tanto tempo, fanno dire scherzosamente che gli argentini sono dei tizi che parlano spagnolo, si credono inglesi, ma sono italiani. (Tranne Jorge Luis Borges: lui era un signore che parlava spagnolo, si credeva argentino, ma era inglese)
Per questi motivi, e altri non spiegabili razionalmente, quell'ultimo rigore segnato da Montiel è stato un inno alla libertà e al riscatto. Un calcio alla servitù culturale, morale, ideologica e persino psicologica in cui ci vediamo soffocati giorno dopo giorno da chi vorrebbe cancellarci per ciò che eravamo e ricrearci come la caricatura di qualche congrega nordeuropea o anglosassone. Un ritrovare sé stessi fuori di noi, un inno all'amore, alla vita e alla gioia vero e spontaneo. Momentaneo e illusorio, lo so bene: ma per quanto mi riguarda, se vivere di sogni è pericoloso, vivere senza è inutile. Quindi, un brindisi alla meritata vittoria di un campione immenso, di una squadra solida, e di un popolo vero. Vittoria che è anche la nostra, di chi ama ancora la propria casa, le radici, la terra, la cultura e il sangue. Compreso quello italiano che scorre nelle vene dei fratelli d'oltremare.