Accadeva quattrocentosessanta anni fa.
26 gennaio 1564. Il Concilio di Trento pubblica le sue conclusioni nel Catechismo Tridentino, stabilendo una distinzione tra cattolicesimo e protestantesimo. Indetto per la prima volta dall'anziano pontefice Paolo III nel 1545 (e, a vari intervalli, nel 1547, 1551-52), già la sede scelta rappresentò un modo di separare geograficamente l’identità cattolica, portandola a coincidere con l'opposizione tra mondo latino cattolico e mondo germanico protestante. Fu il Concilio più lungo e travagliato della storia, forse il più carico di conseguenze, tanto da apparire per molto tempo come l’ultimo Concilio possibile. Fu anche il meno influenzato dalla presenza laica: a Roma, dove da troppo tempo si mescolava con disinvoltura politica e religione, era ostaggio di faide familiari che contrapponevano sostenitori dell'Imperatore e seguaci del re di Francia. L’interpretazione e l’applicazione dei decreti e la rigida fedeltà ai canoni tridentini dominarono per secoli la vita della Chiesa d’obbedienza romana: la «professione tridentina di fede» era un giuramento imprescindibile per chiunque, dagli studenti prima della laurea, ai medici e ai maestri di scuola e a tutte le categorie professionali - oltre che, naturalmente, per gli ecclesiastici. Frutto peculiare dei modelli promossi a Trento fu il Seminario, luogo di formazione separata e severa, dal punto di vista culturale e morale, specchio vivente di una Chiesa composta da chierici, uomini riconoscibili dall'abito e dal comportamento (dopo la sbornia umanistico-mondana ed estetizzante degli anni d'oro del Rinascimento), obbligati a incarnare i valori di una religione che l'intera comunità doveva accettare e venerare. Tuttavia, i propositi austeri della controriforma non durarono a lungo. Il pontificato di Urbano VIII (1623-44), che, come ha scritto la storica Judith Hook, creò «la più grande e spettacolare corte barocca d’Europa», segnò un ritorno a un dispendioso sfarzo. Le arti vennero nuovamente patrocinate non solo a scopo d’istruzione o per pubblicizzare la fede nel modo prescritto dal Concilio di Trento, ma anche per intenti edonistici. Tornando al Concilio, furono sanciti il ritorno alla tradizione patristica e soprattutto a Tommaso d’Aquino; la riaffermazione della funzione mediatrice della Santa Sede; la conciliazione del libero arbitrio umano con la predestinazione divina: l'uomo si salva per l'intervento decisivo di Dio, non soltanto per meriti propri, giacché anche le opere sono necessarie alla salvezza. Gli anatemi conclusivi dei canoni dottrinali proiettarono le presenze ostili da esorcizzare e da perseguire con ogni mezzo: l’eresia, lo spirito ribelle e superbo di chi si sottraeva alla dottrina comune per seguire la propria opinione erronea. Sembrò una risposta al libero concilio cristiano in terra tedesca invocato da Lutero nel 1520, ma fra il tronfio concilio lateranense V (1512-1517) e il tormentato concilio tridentino si interpongono la riforma protestante, lo scisma anglicano, le sollevazioni dei contadini tedeschi, sacco di Roma eccetera. Anche se passò alla storia come la tappa principale della Controriforma in risposta alla Riforma luterana, si trattò più precisamente della Riforma cattolica, che maturò in una precisa temperie culturale anteriore e posteriore al Concilio, e che diede contributi originali come la Compagnia di Gesù di sant'Ignazio di Loyola, l'Oratorio di S. Filippo Neri e la congregazione di Francesco di Sales. La Chiesa romana, vista diminuire la presa sui regni nordeuropei, ripiegò sull'Italia e lo Stato della Chiesa divenne un vero e proprio stato-nazione teocratico. Il quadro storico vedeva lo scettro Asburgico non lontano dal sogno ecumenico – poi sfumato – di un Impero mondiale. Il Papa, che in teoria avrebbe dovuto gongolare, dato che gli Asburgo erano cattolici devoti, era preoccupatissimo poiché vedeva in loro una minaccia al suo potere temporale. L'imperatore Carlo V vedeva di buon occhio il Concilio, a patto che sanasse la crepa religiosa formatasi fra i suoi sudditi, o quantomeno non ne creasse di ulteriori. Carlo voleva che lo si tenesse in una città tedesca, in modo da poterne controllare lo svolgimento. Teniamo presente che i suoi consiglieri erano Alfonso de Valdés, imbevuto del pensiero di Erasmo da Rotterdam, e Bartolomeo da Gattinara, lettore appassionato del De monarchia di Dante. Dai tempi dei concili di Costanza e Basilea era sopravvissuta una tendenza mirava a rimettere in discussione, se necessario trovando sponde nei protestanti, l'assolutismo papale nel governo della Chiesa. Carlo V diede ordine ai Vescovi spagnoli che partecipavano al Concilio di Trento di darsi da fare al fine di ridurre l’autorità papale. Paolo III replicò trasferendo il Concilio a Bologna (1547), cioè nei propri possedimenti, con la scusa che a Trento, provincia imperiale, era scoppiata un’epidemia di tifo. Carlo ingiunse ai suoi di non muoversi da Trento. E così, l'evento che avrebbe dovuto riportare l’unità nel mondo cristiano provocò la disunione di quello cattolico, con Vescovi «guelfi» fedeli al Papa e vescovi «ghibellini» fedeli all’Imperatore. Chi ne fece le spese fu il figlio del pontefice, Pier Luigi Farnese, cui era toccato il Ducato di Parma e Piacenza. Non c’è il minimo dubbio che ad armare la mano dei sicari era stato il governatore imperiale di Milano, se non per ordine di Carlo, certo per compiacergli. La reazione di Paolo III è rivelatrice del suo carattere. Adorava Pier Luigi, nel quale aveva investito le fortune e le speranze della dinastia Farnese. Eppure non si lasciò accecare dal desiderio di vendetta. Finse di non credere alla responsabilità dell’Imperatore, aderì al suo invito di riportare il Concilio a Trento e gli promise perfino di fare di lui il proprio successore al Soglio pontificio. Tutto questo, pur di salvare il Ducato di Parma e Piacenza. Pochi decenni dopo, nel XVII secolo, la volontà del cattolico idealista Ferdinando II, sovrano asburgico e sacro romano imperatore, di imporre la riforma tridentina ai principi protestanti tedeschi sarà una delle cause della guerra dei trent’anni (1618-1648). Il cardinale Richelieu si schierò contro questo tentativo, che da cattolico avrebbe dovuto avallare. L’interesse precipuo del porporato era quello di scardinare lo sbarramento asburgico che serrava il “suo” paese, la Francia, da nord (Fiandre o Belgio e Olanda), da sud (Spagna e Italia settentrionale) e, se fosse riuscita l’operazione di Ferdinando II, anche da est (Germania).
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