Accadeva novantuno anni fa.
23 gennaio 1933. Con decreto regio viene istituito l'Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI), a capo del quale Benito Mussolini pone Alberto Beneduce, designato alla presidenza il 27 gennaio del 1933. Beneduce, uomo dell'establishment, era un matematico del calcolo della probabilità, in buoni rapporti con la finanziaria privata Bastogi. Ma era anche un socialista riformista seguace di Bissolati e un massone. Aveva collaborato con i governi Giolitti e Nitti, era stato ministro del Lavoro nel gabinetto Bonomi (luglio 1921-febbraio 1922), aperto oppositore del fascismo sino al suicidio aventiniano, amico del ministro delle Finanze (1925 al 1928) Volpi di Misurata. Beneduce rappresentò l’Italia nei principali consessi economici mondiali come fiduciario di Mussolini. L’idea dell’IRI prese corpo da lui e dal ministro delle finanze Guido Jung, attraverso le travagliate operazioni di soccorso alle banche nei primi anni Trenta (Credito Italiano, Banca Commerciale ecc.), sostenute con risorse pubbliche, ma gestita dalle medesime mani private. Le trattative tra Beneduce, che riferiva direttamente a Mussolini, e la finanza privata di Toeplitz, assistito da Raffaele Mattioli, furono serrate e meriterebbero un capitolo a parte. La depressione dell’economia dopo il 1929 risultò pesante anche nella penisola. Ma si sarebbe tremendamente aggravata se l’Italia, molto meno sviluppata, avesse sperimentato un panico finanziario con ritiro di depositi dalle banche, generale restringimento del credito, crollo degli investimenti. Grazie alla tempestiva istituzione dell'IRI, tutto ciò non avvenne. Nata come ente transitorio, nel 1937 acquisì statuto permanente per soddisfare le esigenze dello stato, volte anche al riarmo, e progressivamente divenne uno dei principali snodi finanziari, bancari e industriali. Nel 2002 venne definitivamente liquidata, dopo essere stata per gran parte del secondo dopoguerra la maggiore holding occidentale fuori dagli Stati Uniti d'America, la punta di lancia delle partecipazioni statali e uno dei motori del boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta. Molti detrattori, a destra, e lodatori, a sinistra, consideravano l'IRI l'anticamera del socialismo. Sbagliavano entrambi. Innanzitutto statalismo non è sempre sinonimo di socialismo, e l'IRI, inizialmente preposta a risanare banche e imprese per poi restituirle nelle mani dei legittimi proprietari, nei suoi momenti migliori fu gestita in maniera oculata, seguendo criteri rigidamente imprenditoriali. Inoltre l'interventismo targato IRI fu determinato, bisogna ammetterlo, dalla fragilità di un capitalismo privato già abbondantemente protetto e assistito e non sempre capace di venire incontro ai bisogni della nazione. Il sistema produttivo italiano era formato da una moltitudine di microaziende e ditte familiari, con la tendenza a restare tali, poco propense a innovare e a rischiare; da grandi imprese non in grado di lanciare su larga scala le produzioni più promettenti, così da diffondere i benefici del progresso tecnico in un mercato di massa. Il sistema suppliva ricercando il profitto nel basso costo del lavoro e nella protezione dalla concorrenza. La sottrazione alla concorrenza non aveva assunto la forma della grande impresa schumpeteriana, oligopolistica perché all'avanguardia, ma quella del rapporto collusivo con la politica, con lo Stato, con le amministrazioni locali e fra le stesse aziende. Presso le maggiori imprese si era radicata l’idea che alla privatizzazione del profitto poteva unirsi il trasferimento delle perdite su lavoratori, consumatori e contribuenti, e che il capitalista potesse conservare il controllo dell’impresa, impegnandovi quote modeste del patrimonio personale e familiare, con le banche disposte a conferirlo in loro vece. L'IRI sorse in seguito a un ventennio di shock: Grande Guerra e primo dopoguerra; apprezzamento del cambio a «quota 90» lire per sterlina; depressione internazionale del 1929-1932. Questi eventi, diversi per origine e natura, ebbero pesanti ricadute sull’attività economica, e sfociarono nel crollo industriale e finanziario che l’Istituto dovette fronteggiare. E altresì vero che le esigenze belliche del 1915-18 forgiarono la punta di diamante del capitalismo industriale del paese, poi ereditata dall’IRI. Mi riferisco a quel manipolo di gruppi con controllo piramidale operanti nei settori siderurgico, metallurgico, meccanico, chimico, elettrico, della gomma, cantieristico. Erano i settori d’avanguardia tecnologica, a maggiore intensità di capitale, produttori anche di beni strumentali. All’IRI, infine, si pervenne sotto l’incalzare degli eventi, dopo aver scartato o sperimentato senza esito altre soluzioni di fronte ai dissesti di imprese e banche. Alla Camera, nel maggio del 1934, Mussolini schernì i capitalisti privati affermando che l’economia era ampiamente ricaduta «sulle braccia dello Stato». Vittorio Cini, con orgoglio imprenditoriale e un filo di ipocrisia, ribatté che la richiesta di aiuto allo Stato non era provenuta dalle imprese bensì dalle banche, «ingolfate in titoli fino alla saturazione»; che i salvataggi avevano riguardato «pochi [industriali] incapaci» non rappresentativi della categoria, per una cifra inferiore a tre o quattro miliardi, appena l’1% della ricchezza nazionale; che niente sarebbe avvenuto in assenza di interventi, poiché le perdite si sarebbero ripartite tra i portatori dei titoli; che «vi sono enti, gruppi, persone solidissime disposti ad aiutare il ritorno all’economia privata di quelle aziende che gravano sulle braccia dello Stato». Le affermazioni di Cini erano prive di fondamento. Le difficoltà delle banche originavano da quelle delle imprese, non in grado di rimborsare il loro debito. Gli industriali italiani contavano da sempre sull’aiuto dello Stato. Il sostegno pubblico superava ampiamente i tre o quattro miliardi. Il formale fallimento, la chiusura di imprese e banche, avrebbe depresso le aspettative, acuito la recessione, minato governo e regime. Le “persone solidissime”, se sottoscrivevano il discorso di Cini, avrebbero rifiutato di sottoscrivere, con propri capitali e a condizioni non di favore, i titoli rappresentativi delle imprese pesanti allorché l’IRI tentò di restituirle ai privati. Fra i vari istituti diretti da Beneduce e Stringher, erano già operanti il Consorzio di credito per le opere pubbliche (Crediop, istituito nel 1919), l’Istituto di credito per le imprese di pubblica utilità (Icipu, fondato nel 1924), l’Istituto per il credito navale (sorto nel 1928). Finanziandosi con emissione di obbligazioni questi intermediari – partecipati da Cassa depositi e prestiti, Ina, previdenza sociale, casse di risparmio – potevano offrire mutui ipotecari a scadenza medio-lunga per investimenti a lento ammortamento. L’ambito di operatività era tuttavia circoscritto alle infrastrutture pubbliche, all’energia, alle comunicazioni, al trasporto marittimo. Non si estendeva a rami d’industria diversi da quelli previsti da leggi e statuti. Gli istituti di Beneduce erano volti a selezionare e sostenere nuovi progetti d’investimento. Non dovevano snaturarsi rilevando i crediti e le azioni di dubbio valore con cui nel passato investimenti rischiosi erano stati alimentati da banche commerciali imprudenti. La linea resa esplicita dal presidente Teodoro Mayer nella seduta di insediamento, alla presenza del capo del governo era chiara: «Non è tra le funzioni dell’Istituto quella di correggere gli errori e di sanare i mali altrui».
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