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Caligorante

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Accadeva ventisei anni fa. 21 gennaio 1998. Papa Giovanni Paolo II visita Cuba. Mentre partecipava al vertice mondiale sull’alimentazione organizzato dalla FAO, il 19 novembre 1997 Castro era stato ricevuto dal pontefice. Nel corso della sua udienza in Vaticano, il lider maximo aveva rivolto un invito ufficiale a Sua Santità. Non era più il momento dei grandi discorsi da rivoluzionario, ma delle joint ventures, del turismo di massa, del capitalismo di Stato, delle visite di delegazioni imprenditoriali provenienti dai quattro angoli del pianeta. Castro, insomma, cercava di adottare la linea cinese di Deng Xiaoping. Annunciò anche un provvedimento eccezionale: reintegrare nel calendario la festa di Natale del 1997 e consentire ai cristiani di celebrare la messa di mezzanotte. Quando Giovanni Paolo II atterrò all’Avana, il 21 gennaio 1998, il terreno era preparato alla perfezione. Un poster alto più di venti metri con l’immagine di Cristo era stato installato sulla facciata della Biblioteca nazionale in piazza della Rivoluzione, con questo slogan da calciatore: «Ho fiducia in te». Nel suo discorso di benvenuto, Castro espose le sue condizioni: se i prelati inviati da Roma avessero evitato atteggiamenti colonialisti, la coabitazione sarebbe stata possibile. Per rassicurare il padrone di casa, Wojtyla criticò severamente l’embargo americano, quindi fece il giro delle diocesi dell’isola. Celebrò messe davanti a folle festanti all’Avana, a Santa Clara, Camagüey e Santiago. Presiedette una cerimonia notturna nell’aula magna dell’università dell’Avana, di fronte al sepolcro di padre Varela, eroe antischiavista ed emblema del ruolo avuto dalla Chiesa cattolica nella formazione del sentimento nazionale cubano. Il 25 gennaio il pontefice tornò a Roma con la convinzione che l'isola si apprestasse a voltare pagina e a collaborare. Il Comandante aveva rispolverato il suo populismo gesuita, elogiando il Cristo castigatore dei mercanti nel tempio, e sostenuto le tesi dei fautori della Teologia della Liberazione, come il suo amico brasiliano Frei Betto. «Se Gesù Cristo ha scelto i pescatori» spiegò al papa «è perché era comunista» (sic!) I vescovi cubani tesero la mano all'attempato dittatore e in una lettera pastorale scrissero «La dottrina sociale della Chiesa, tanto lontana dal neoliberalismo in voga quanto da un collettivismo a oltranza oggi superato, può servire da riferimento all’economia e alla società civile.» Soltanto il vescovo di Santiago, monsignor Meurice, dubitava della sincerità di Castro. Fidel, in fondo, era un gesuita ateo con l’uniforme al posto dell’abito e un qualunquista nemico della politiquería, la politica politicante; col papa polacco era destinato a intendersi: Wojtyla voleva Cuba nell’ovile cristiano, non spingerla verso l’orbita capitalista. I credenti e gli anticastristi masticarono amaro vedendo gli scambi di cordialità fra i due. Il loro comune nemico era il liberalismo («chi non ama altro Dio che l’oro») e l'antiliberalismo in fondo univa ben più di quanto il socialismo dividesse. Eppure Castro non mancò di imputare alla Chiesa gli orrori della conquista spagnola, paragonandoli alle atrocità naziste. Il papa polacco rispose alludendo alla libertà politica; un vescovo si scagliò contro la fusione tra patria e partito; dalla folla si levarono cori di libertad; ma ci voleva ben altro per scalfire l'autorità del regime. Poi vestì i panni del crociato fautore del cristianesimo socialista contro il consumismo e le ingiustizie che imperversavano nella civiltà occidentale. Al momento del commiato, Fidel era soddisfatto: nulla di insanabile separava il papa che aveva sconfitto il comunismo sovietico dall’ultimo bastione comunista nelle Americhe. Pochi mesi dopo la visita del pontefice, il «Bicho» palesò la propria inflessibilità nei confronti dell’opposizione varando un ulteriore giro di vite. I vescovi scoprirono che la religione di Fidel era il castrolicesimo: la visita del papa era stata una vetrina per il governo. Pochi anni dopo accadde un evento che mosse il patetismo dell’opinione pubblica cubana. La “telenovela” di Elián González, sei anni, il Mosé cubano miracolosamente salvato dalle acque e ritrovato il 25 novembre 1999 a circa cinquanta chilometri a nord di Fort Lauderdale (Florida). Sua madre Elizabeth, prima di annegare, lo aveva aggrappato a una camera d’aria, nutrito con biscotti e protetto dagli squali facendogli indossare un giubbotto fluorescente. Quel dramma sembrò colpire personalmente il settantatreenne Comandante, che dedicò al caso anima e corpo. Elián era figlio di una coppia divorziata. Lei lavorava come cameriera all’hotel Paradiso di Varadero, ed era segretaria di cellula e membro dei Comitati di Difesa della Rivoluzione. Il padre, Juan Miguel, faceva la guida per turisti. Eliza si era innamorata di Lázaro Munero, detto «Rafa», un giovanotto ambizioso che sognava di avviare un’impresa. Nel 1998 fuggì in cerca di fortuna a Miami. In Florida, svolgeva modeste mansioni nelle stazioni di servizio, ma ben presto decise di tornare a Cuba e di portare con sé Eliza e Elián. Durante la traversata, la barcaccia fu sorpresa da una terribile tempesta. Rafa venne portato via da un’onda gigantesca. Il «miracolato» diventò l’eroe dei cubani in esilio, simbolo politico di un intero popolo sotto il giogo della “tirannia castrista”. Anche i politici si impadronirono del caso. La rappresentante del Congresso, Ileana Ros-Lehtinen, fece visita al niño a calle Ocho, l’arteria principale di Miami, dove vivevano gli esuli cubani. La visita papale e (in misura minore) la vicenda di Elián riportarono l'isola caraibica al centro dell'attenzione, spezzarono momentaneamente l’isolamento internazionale, riaprirono le porte della grande casa cattolica in cui ambiva a rientrare: dinanzi a tanti vantaggi, i rischi valevano la pena. Originally posted in:
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