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Accadeva centoventiquattro anni fa.
2 gennaio 1900. Il segretario di Stato americano John Hay annuncia la politica della “porta aperta” per promuovere i commerci con la Cina. Da sempre attratti dalle potenzialità del mercato cinese, gli Stati Uniti vollero assicurarsene il libero accesso, al pari delle potenze europee, senza doversi impegnare in faticose campagne di conquista. Quando però in Cina scoppiò la Rivolta dei Boxers (1899-1901), un movimento di nazionalisti cinesi che cercava confusamente di impedire lo sfruttamento economico da parte degli stranieri e che aveva attaccato le delegazioni europee a Pechino, Washington si unì alla forza multinazionale che represse sanguinosamente l’insurrezione. La guerra alla Spagna (1898), oltre a rafforzare la presa sullo spazio panamericano, servì a impadronirsi delle Filippine; l'arcipelago rivestiva importanza strategica: doveva infatti costituire la base di lancio verso i favolosi mercati asiatici in generale e cinesi in particolare. Gli Stati Uniti avevano manifestato interesse in questa direzione fin dalla metà dell’Ottocento. Nel 1853 era stato un americano, il commodoro Matthew G. Perry, a imporre per la prima volta al Giappone di aprire i suoi porti al commercio occidentale. Ma il boccone più prelibato era soprattutto quello della popolosa Cina. Negli anni successivi, commercianti e missionari americani cominciarono a insediarsi nei territori dell’impero celeste, suscitando numerosi atti ostili da parte dei locali. Sulla Cina si concentravano anche le mire degli europei, che nella fase finale dell’Ottocento non mancarono di creare ampie zone di influenza e imporre trattati commerciali favorevoli. Di fronte al rischio di una spartizione che li avrebbe penalizzati, gli Stati Uniti, in accordo con l’Inghilterra, emisero nel 1899 e 1900 due note in cui chiedevano alla concorrenza di garantire pari opportunità commerciali. Questo principio della «porta aperta» mirava ad assicurare all’economia americana possibilità di espandersi nel mercato cinese, senza però impegnare gli Stati Uniti in un’autentica conquista territoriale. La «Open Door» divenne così, accanto alla dottrina Monroe, un altro cardine della politica estera a stelle e strisce, richiamato soprattutto nelle aree dove gli interessi erano di natura essenzialmente economico-commerciale piuttosto che strategico-militare. D’altro canto, se nel caso di nazioni ritenute «inferiori» non esitarono a prevaricare e invadere, nei confronti di quelle «civilizzate» gli Stati Uniti furono in prima fila nel promuovere arbitrati e trattati che evitassero conflitti su grande scala. Nel 1905, per esempio, Theodore Roosevelt contribuì a negoziare il trattato che pose fine alla guerra russo-giapponese, ottenendo per questo il premio Nobel per la pace. In conclusione, gli Stati Uniti del primo Novecento conquistarono rapidamente un nuovo ruolo da protagonisti sulla scena internazionale, cercando di presentarsi come portatori di intenti e metodi europei. In verità l’imperialismo americano fu tendenzialmente un imperialismo «liberista» e con aspirazioni globali, differenziandosi in parte dall’imperialismo «per sfere» delle potenze europee. Esso non mirava a protettorati territoriali e aree commerciali esclusive, bensì ad assicurare quella libertà dei flussi commerciali e finanziari che meglio rispondeva agli interessi delle sue colossali concentrazioni economiche. Ciò esigeva però due condizioni spesso in contraddizione con i principi del liberismo e dell’autogoverno: la difesa di un ordine internazionale stabile e consono agli interessi americani; il controllo delle vie marittime attraverso basi navali statunitensi. Al tempo stesso, l’espansionismo americano fu segnato da una convinzione particolarmente forte che gli Stati Uniti avessero una missione civilizzatrice nei confronti del mondo, il compito di diffondere la libertà, le istituzioni democratiche, il capitalismo e il benessere. Se da un lato ciò favorì la presenza di risvolti riformatori e umanitari nella proiezione estera americana, dall’altra le conferì un’ambiziosa proiezione globale che trovò nelle guerre mondiali l’occasione per manifestarsi.
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