Accadeva duecentotrentuno anni fa.
11 dicembre 1792. In Francia inizia ufficialmente il processo contro Luigi XVI, accusato di alto tradimento. Il Capeto comparve innanzi al tribunale della Convenzione alle ore undici del 10 dicembre 1792, accompagnato dal nuovo sindaco di Parigi, il medico Nicolas Chambon de Montaux, e dal generale Santerre. Ad attenderlo trovò il giudice tolosano Bertrand Barère, un uomo distinto ma pieno di veleno antimonarchico, soprannominato "l’Anacreonte della ghigliottina". All'accusa di aver attentato alla sovranità nazionale sospendendo (20 giugno 1789) le assemblee dei suoi rappresentanti Luigi XVI rispose di essersi attenuto alle leggi allora vigenti. Negò di aver deliberatamente ordinato repressioni sanguinose. Il sovrano ammise di aver rifiutato di sottoscrivere la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e di aver moltiplicato il corpo di guardia, ma negò sdegnosamente di aver orchestrato orge e bagordi ove si calpestava la coccarda nazionale. Il presidente Barère gli rimproverò di non aver mantenuto il giuramento prestato alla Federazione del 14 luglio 1790; Luigi rispose di non ricordare. Sulla corruzione usata per ingraziarsi il popolo, rispose di aver soccorso i bisognosi, in accordo con i precetti cristiani. Respinse poi l'assurda accusa di essere stato favorito da un pugno di nobili nella fuga delle Tuileries del 28 febbraio 1791. Per quanto concerne la tentata fuga a Varennes (20-21 giugno 1791) preferì parlare di “viaggio”, e ribadì la sua estraneità ai complotti lealisti. L'accordo di Pillnitz per ripristinare la monarchia assoluta? L’ho reso noto appena ne sono venuto a conoscenza, ergo non ho tradito la Costituzione. I miei fratelli unitisi ai nemici della Francia? Li ho sconfessati, attenendomi al dettato costituzionale. Nella tristemente nota Torre del Tempio non gli era concesso nemmeno di radersi o di comunicare con la famiglia. Il monarca stentò a riunire il proprio collegio difensivo. La proposta più bizzarra giunse dall’attrice Olympe de Gouges, l’autrice della Dichiarazione dei diritti delle donne e delle cittadine, la quale giudicava Luigi XVI una vittima. Era infine Malesherbes a dichiararsi disponibile alla difesa del cittadino Capeto, unitamente a François-Denis Tronchet, un ex magistrato, e all’avvocato Raymond de Sèze, un girondino dall'eloquio commovente. A de Sèze il sovrano disse: «Non spero di convincere i deputati e neppure di commuoverli. Vi prego di non ricorrere a perorazioni poco consone alla mia dignità.» Il giorno di Natale del 1792 il re vergava il proprio testamento: da buon cristiano affidava la sua sorte nelle mani di Dio e attendeva il martirio. Il giorno successivo alla Convenzione, de Sèze sviluppava la sua arringa con un’argomentazione giuridicamente ineccepibile, ma politicamente fragile. Egli intendeva dimostrare ai giudici l’inviolabilità del sovrano in base a quanto previsto nella Costituzione del 1791 e chiedeva che fosse giudicato soltanto come semplice cittadino e non come capo di Stato. Eppure, la magniloquente arringa di de Sèze non funzionò. Il poeta Lamartine nella "Storia dei Girondini" scrisse «Il difensore del re parlò con dignità, ma non seppe trascinare. Dimenticò che non c’è miglior convinzione, per un popolo, della sua emozione». Nella Convenzione, i girondini guidati da Brissot erano favorevoli a risparmiare la vita al monarca. I deputati dovevano pronunciarsi essenzialmente su tre argomenti: la colpevolezza o meno del sovrano, l’appello al popolo e la pena da applicare. Sulla prima quaestio c’era assoluta unanimità, l’appello al popolo, invece, era respinto con 423 voti contro 286. Ecco infine la conclusione. Su 721 suffragi espressi, 366 erano a favore della pena di morte, 319 per il carcere seguito dall’esilio, 23 per la morte ma con discussione sulla data dell’esecuzione, 8 per la pena capitale da eseguirsi dopo la cacciata di tutti i Borbone compreso Philippe Egalité, 2 perché l’esecuzione avvenisse alla fine della guerra, 2 per una condanna ai lavori forzati, 1 per la pena di morte con riserva di commutarla in carcere a vita. La sentenza fu letta da Barère alle due del mattino del 19 gennaio. A de Sèze toccava leggere una lettera di Luigi XVI, in cui l'ex sovrano «Il mio onore, la mia famiglia, m’impongono di non sottostare a un giudizio che mi accusa di un delitto che non posso rimproverarmi». La sentenza di morte era pronunciata e l’esecuzione fissata per il 21 gennaio per le ore undici in Place de la Révolution, come era stata ribattezzata Place Louis XV (oggi Place de la Concorde). De Sèze esclamava avvilito: «Cercavo fra voi dei giudici, ma ho trovato soltanto degli accusatori». Luigi porse al ministro della Giustizia Garat il biglietto con i suoi ultimi desideri: che gli fosse accordata una dilazione di tre giorni per potersi meglio preparare alla morte; di poter ricevere ogni volta che desiderasse e senza testimoni i familiari; che i deputati si prendessero cura della famiglia reale; di avere un sacerdote cattolico per la confessione, Henry Essex Edgeworth de Firmont, figlio di un pastore protestante irlandese convertitosi al cattolicesimo. Soltanto l’ultima richiesta fu esaudita. Dell’ultimo incontro con i familiari, durato circa un’ora, esistono racconti e dipinti, ma nessuno sa veramente cosa mai si siano detti Luigi e i suoi congiunti. Luigi aveva appena trentotto anni, sebbene per i mali patiti ne mostrasse il doppio: una maschera di dolore immortalata dal pittore Joseph Ducreux. Quando Santerre, il capo della guardia Nazionale, si presentò a reclamarlo, egli rispose: «Signore, andiamo!». Era una giornata fredda e nebbiosa. Per impedire qualsiasi sommossa, le porte della capitale erano state chiuse. Lungo il tragitto erano schierati milleduecento soldati pronti a intervenire al minimo tafferuglio. Migliaia erano i francesi accorsi a vedere il re salire sul patibolo. Ecco il racconto dell’esecuzione dalle colonne della rivista «Magicien républicain»: «La carrozza arrivò alle dieci e un quarto ai piedi del patibolo. Le strade di accesso erano difese da numerosi pezzi d’artiglieria. Luigi Capeto fu consegnato ai carnefici che gli tagliarono i capelli e gli legarono le mani dietro la schiena. Poi gli domandarono per tre volte consecutive se avesse ancora qualcosa da dire o da dichiarare al suo confessore. Poiché continuava a rispondere di no, l’abate lo abbracciò e, lasciandolo, gli disse: “Andate, figlio di San Luigi, il Cielo vi attende”. Egli, a cui era stato negato di pronunciare l'arringa finale, pronunciò con voce alta e chiara queste parole: “Muoio innocente dei delitti di cui mi si accusa. Perdono coloro che mi uccidono. Che il mio sangue non ricada mai sulla Francia!” (il contrario della celebre frase di Aldo Moro) Imperturbato e forte lo ritrae Vincenzo Monti; impavido ed altero lo dipinge Vittorio Alfieri nel sonetto “Supplizio di Luigi XVI”. A Roma Pio VI già parlava di una beatificazione del re. Un aiutante del boia vendeva sui gradini del patibolo pacchetti di capelli del sovrano e nastri per tenerli legati. Ogni confezione conteneva anche qualche frammento di vestito e altri souvenir. Non una lapide, non una croce sulla sua tomba. Di lì a pochi mesi lo avrebbero raggiunto Maria Antonietta e Madame Elisabetta, Madame du Barry e lo stesso Philippe Egalité. Ma anche Danton e Robespierre, Marat e Saint-Just. Infine il figliolo, l’ultimo delfino di Francia.
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