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Accadeva sei anni fa.
6 dicembre 2017. Il presidente statunitense Donald Trump riconosce ufficialmente Gerusalemme come capitale d'Israele. Il proposito, con relativo spostamento dell'ambasciata, era nel cassetto già da tempo, ma i predecessori si erano sempre rifiutati di avviare la procedura. La decisione di Trump è stata una vera e propria inversione a U. Il 18 febbraio 2016 a Colombia, South Carolina, nel corso di un dibattito con gli altri candidati repubblicani alle primarie, Trump disse che sarebbe stato “neutrale” nel cercare di negoziare un accordo di pace tra israeliani e palestinesi. In una precedente intervista del 3 dicembre 2015, aveva affermato: “Molto dipenderà da Israele: se vuole raggiungere un accordo o meno, se sarà o non sarà disposta a sacrificare certe cose”. Il salto della quaglia riflette un’altra verità della politica americana: non presentarsi come uno strenuo difensore di Israele (unico vero alleato in Medio Oriente) significa attirarsi l’ira degli alleati della destra israeliana come American Israel Public Affairs Committee e molte figure autorevoli di entrambi gli schieramenti. Appena un mese dopo i suoi commenti nel South Carolina, Trump promise di spostare l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme – promessa fatta anche da George W. Bush e Barack Obama, ma mai effettivamente mantenuta – e nel maggio 2016 incoraggiò le autorità sioniste a continuare a costruire nuovi insediamenti, criticando le pressioni contrarie esercitate da Obama, che a quel punto aveva rapporti pessimi con il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a causa dell'accordo nucleare con l'Iran. C'è chi ipotizza che si sia trattato di una mossa per marginalizzare la Giordania, che alcuni anni più tardi, nell’aprile del 2021, è stata scossa dalla crisi più importante della sua storia recente: un possibile golpe ai danni di re Abdullah II in cui sarebbe stato coinvolto, non si sa quanto a sua insaputa, il fratellastro del monarca, il principe Hamza, estromesso dalla linea successione proprio per far posto a quel giovanissimo principe Hussein che voleva andare a visitare la Cupola della Roccia. Durante i primi anni del suo mandato Trump è rimasto vicino alle posizioni sioniste, seppur con qualche dichiarazione “fuori posto” per poter risultare credibile nel caso di un possibile negoziato con i palestinesi. Nel 2019 The Donald riconobbe la sovranità israeliana sulle Alture del Golan, altra azione condannata dai palestinesi e da buona parte della comunità internazionale. Dopo questa serie di prese di posizione ai limiti della provocazione, la Casa Bianca tirò fuori dal cilindro un piano di pace per il Medio Oriente, rimandato a causa delle ripetute tornate elettorali in Israele. Il 28 gennaio 2020 il piano fu presentato durante la visita di Netanyahu a Washington, e promosso da Jared Kushner, uomo di punta dell’amministrazione, oltre che genero del Presidente Trump. Kushner tenne a sottolineare la sua parzialità, dichiarando in un’intervista televisiva che se i palestinesi avessero rifiutato il piano, “avrebbero rovinato un’altra opportunità, come hanno rovinato ogni opportunità che hanno avuto nella loro esistenza”. L’amministrazione Trump tirò in ballo un percorso dalla “pace alla prosperità”, e accennò a un possibile “Piano Marshall”, ma gli elementi chiave del piano furono respinti subito dai palestinesi, intenzionati a non legittimare gli insediamenti israeliani nella Cisgiordania e nella Valle del Giordano, perché ciò avrebbe creato un’entità palestinese sfilacciata, senza nemmeno il controllo pieno sui propri confini e cittadini. I sostenitori del piano elogiarono il suo “realismo”, affermando che nessuno può veramente pretendere di spostare le persone e ritornare alle condizioni di un secolo fa, e Israele non potrà mai rinunciare alla propria sicurezza. Trump ha scelto una posizione talmente squilibrata rispetto alle attese palestinesi, che non potrà essere oggetto di una trattativa realistica. Anche la posizione di Trump sull’Iran era musica per le orecchie di Benjamin Netanyahu, che da anni spingeva gli Stati Uniti ad attaccare l’Iran, o a non bloccare Israele se avesse deciso di farlo da solo. Netanyahu è sempre stato un forte critico del JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action), ossia l'accordo sul nucleare iraniano, e non andava per nulla d’accordo con Barack Obama, che mirava a riequilibrare i rapporti statunitensi nel Medio Oriente in modo da contenere la crescente influenza sino-russa nell'area. Il premier israeliano applaudì vigorosamente quando Trump decise il ritiro dall’accordo nucleare, elogiando la “leadership coraggiosa” del presidente americano e ripetendo la visione dei critici secondo cui l’accordo aveva solo fatto aumentare l’aggressività iraniana in tutta la regione.
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