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Accadeva trentasei anni fa.
9 novembre 1987. In Italia si tiene il Referendum sul nucleare. Una considerevole maggioranza di elettori si espresse a sfavore dell'atomo. Lo shock determinato dall'incidente occorso alla centrale sovietica di Černobyl nell'aprile del 1986, presumibilmente, aveva inquinato il giudizio dell'opinione pubblica. Tre quesiti su cinque (gli altri due inerivano la giustizia: responsabilità civile dei magistrati e commissione inquirente) riguardavano l'atomo; nessun quesito richiedeva la chiusura delle centrali, né vietava la costruzione di impianti futuri: i cittadini erano chiamati ad esprimersi sugli incentivi ai comuni che ospitavano impianti, sulla possibilità per lo Stato di decidere sulla localizzazione di un impianto nel caso in cui gli enti locali non fossero riusciti a mettersi d’accordo e sulla possibilità per Enel di gestire impianti nucleari all’estero. Il quesito referendario è tuttavia decaduto nel 2000, quando Enel è stata privatizzata. I governi che si alternarono tra il 1987 e il 1990 decisero di attenersi al giudizio d’opinione evidenziato dalla tornata referendaria e decretarono l’uscita dell’Italia dal nucleare. Le centrali di Trino e Latina si avvicinavano alla fine della loro vita operativa e quella del Garigliano era già disconnessa per problemi tecnici. L’unica a fermarsi realmente fu l'impianto di Caorso, operativo da meno di cinque anni; quello Montalto di Castro, già iniziato, venne convertito in una centrale termoelettrica. L’Italia era stata uno dei primi paesi a investire nella costruzione di centrali nucleari; quella di Borgo Sabotino (Latina) raggiunse la prima criticità nel novembre del 1962: il reattore, di tipo MAGNOX (refrigerato a gas e moderato a grafite), aveva una potenza elettrica di 153 MW, che all’epoca lo rendeva il più potente reattore d’Europa e il più potente reattore a gas del mondo. Purtroppo politica, partiti e opinione pubblica maturarono rapidamente un pregiudizio nei riguardi dell'energia atomica, confermato dalle consultazioni referendarie che in linea di principio non vietavano né la costruzione di nuove centrali, né il mantenimento di quelle tre ancora attive. La domanda maliziosa sorge spontanea: la politica si limitò a interpretare il pensiero dei votanti decidendo di «denuclearizzare» l’Italia, oppure obbedì alle ingiunzioni provenienti da lobby italiane e potentati stranieri? Nel 2011, l’incidente di Fukushima, come a suo tempo il disastro di Černobyl, influì negativamente sulla campagna referendaria per abrogare le nuove norme volte a riportare il nucleare in Italia. Il 12 e il 13 giugno 2011, infatti, il popolo italiano si espresse nuovamente contro l’atomo. I danni causati dall'uscita dell'Italia dal nucleare sono noti: bollette più care rispetto alla media europea, dipendenza elettrica ed energetica, difficoltà di dismissione dei siti delle ex centrali dovute a tempi burocratici biblici. Anche la Germania, a partire dal 2012, ha scelto di accantonare il suo programma atomico. Secondo uno studio dell’università di Berkeley, la chiusura anticipata delle centrali nucleari tedesche ha causato 1.100 morti in più all’anno, per via dell’aumento dell’inquinamento dovuto alla combustione di carbone, usato per sostituire le centrali nucleari. Proprio un bell'affare. Il nucleare ha dei limiti e comporta dei rischi innegabili, ma rimane l'unica fonte di energia efficace e pulita in grado di mandare avanti una nazione priva di risorse energetiche.
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