Accadeva ottantacinque anni fa.
10 novembre 1938. A Istanbul muore Mustafa (“il Prescelto”) Kemal (“Perfezione”), denominato Atatürk, “padre dei turchi”. Alle 9,05 di ogni 10 novembre il paese si ferma in ricordo della dipartita del fondatore della Turchia moderna, laica e occidentalizzante. Mustafa nacque nella greca Salonicco, allora sotto la giurisdizione ottomana, città culturalmente stimolante, a maggioranza ortodossa e con una robusta comunità ebraica (nel 1900 gli ebrei sono 75 mila, la metà della popolazione, senza contare quelli apparentemente convertiti all'islam, i dunmeh). Rimasto orfano del padre, preferì intraprendere la carriera militare. Seguace del movimento dei “giovani turchi”, dopo le campagne balcaniche e la guerra italo-turca partecipò alla prima guerra mondiale distinguendosi nella battaglia di Gallipoli, dove sfumò il progetto franco-inglesi di conquistare Costantinopoli. Per la retorica nazionale turca Gallipoli è l'atto fondativo della repubblica. Si narra che Mehmet, rotto il fucile, affrontò un marine nemico a sassate. Il diminutivo Mehmetçik (‘Piccolo Mehmet’) è tuttora l’affettuoso nome simbolico del soldato della mezzaluna. Nel dopoguerra Kemal vivacchiò senza incarichi per alcuni mesi. L’armistizio concluso a Mudros il 31 ottobre 1918 tolse ogni possedimento alla Sublime Porta e impose dure condizioni alla nuova Turchia: disarmo, cessione degli stretti e delle reti telegrafiche e ferroviarie. Inoltre gli stranieri premevano ai confini: italiani ad Antalya, francesi in Cilicia, inglesi a Mosul. Ma soprattutto imperversavano i greci, allettati dalla Megali Idea, la grande idea di riedificare Bisanzio (i greci consideravano Costantinopoli la loro vera capitale). Il 19 maggio 1919 – comunemente considerata la data di inizio della guerra di indipendenza turca – la karakol, lo Stato profondo ottomano, inviò Kemal a Samsun, sul mar Nero. La priorità era preservare l'integrità della nazione e rigettare le pesanti condizioni di pace imposte dagli Alleati, in primis dall'inglese Lloyd George, detrattore implacabile dei “barbari asiatici”. Ben presto si consumò uno strappo tra il governo centrale di Istanbul, sostanzialmente commissariato dalle potenze occidentali, e i nazionalisti anatolici con base ad Ankara. Fedele al motto “Il turco non ha altro amico che il turco”, Mustafa Kemal non disdegnò l'aiuto della Russia bolscevica. Egli non era né pro né pregiudizialmente contro l'ideologia comunista: da politico abile capiva che le due rivoluzioni, quella sociale russa e quella nazionale turca, in quel frangente fronteggiavano gli stessi nemici. Tra le due nazioni si sviluppò una sorta di asse strategico, e Mosca fornì ad Ankara armi e soprattutto oro in cambio della copertura del fianco transcaucasico. Atatürk, proclamando di voler restaurare califfato e sultanato – quando in realtà voleva modernizzare il paese – seppe destreggiarsi fra le differenti anime del fronte nazionalista e mantenere una solida compattezza. La campagna dell'ambiziosa Grecia di Venizelos si risolse in una sconfitta, sancita dal trattato di Losanna nel luglio del 1923. La giovanissima Repubblica Turca, proclamata il 29 ottobre 1923, usciva vittoriosa ma provata da un decennio di conflitti: solo nel 1930 il PIL tornò ai livelli del 1914. Oltre a frenare i greci, Kemal riprese l'Armenia turca e dovette lasciare l'Armenia russa ai bolscevichi. Rimasero aperte, invece, le ferite di Mosul e del prorompente nazionalismo curdo. Numerose furono le riforme realizzate negli anni Venti; tra le più salienti segnaliamo l'introduzione dell'alfabeto latino con conseguente abbandono dei caratteri arabi; l’introduzione del cognome (fino ad allora erano invalsi soltanto il nome e i nomignoli); la proibizione del fez rosso di feltro per gli uomini e del velo per le donne, sostituiti con cappelli di foggia occidentale; la chiusura delle scuole religiose note come madrasse; la liberalizzazione delle bevande alcoliche; l'abolizione del sultanato degli Osman (l’ultimo sultano, Mehmet VI, morirà in una villa di Sanremo nel 1926) e del califfato; la chiusura di mausolei religiosi (türbe) e conventi dervisci (tekke). Questi ultimi provvedimenti, insieme a quelli sul copricapo, incontrarono un’ostinata resistenza da parte delle frange conservatrici. Kemal adottò il calendario europeo, il codice civile svizzero e il codice penale dell’Italia fascista. I titoli di cortesia come Bey, Efendi o Paşa decaddero. Si procedette alla completa laicizzazione della giustizia (l'islam come religione di Stato e la sharia divennero lettera morta) e del diritto di famiglia, con la soppressione dei matrimoni religiosi e della poligamia. Si trattò di una rivoluzione nazionale calata dall'alto da un partito-Stato che ben presto si liberò delle opposizioni (limitate a un irrilevante movimento comunista e agli indipendentisti curdi) e palesò venature totalitarie; un partito-Stato seguace dello scientismo, del centralismo amministrativo e del dirigismo economico, senza tuttavia stravolgere i rapporti sociali e di proprietà. La rivoluzione kemalista volle sradicare l'immagine esotica del turco goffo e indolente prodotta dal secolo delle umiliazioni. Era giunto il momento di scrutare l'orizzonte e affrontare a testa alta il futuro, di smetterla di professare il passatismo e venerare i defunti: «È una disgrazia per una società chiedere aiuto ai morti». E l'islam doveva tornare a parlare il linguaggio dei fatti e dell'efficienza senza fare sconti all'anarchismo, alle superstizioni e al fatalismo del popolino. La repubblica voluta da Atatürk si basava sulla concezione di una società vista come un solo organo sociale retto da un’élite, una concezione mutuata dal cosiddetto darwinismo sociale in voga nella sociologia di fine Ottocento. Pare che Erdogan abbia mitigato l'influsso delle teorie darwiniane, nella speranza forse di minare il kemalismo. Erdogan sa che una Turchia kemalista, pienamente laica ed europeizzata, è destinata a rimanere una periferia, un'appendice dell'Occidente. A una Turchia cinghia di trasmissione tra Europa e Asia, invece, spetterebbe un ruolo preminente.
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