Accadeva cinquecentoventisette anni fa.
7 febbraio 1497. Il domenicano Girolamo Savonarola, reggente di Firenze, ordina il Falò delle vanità. Il rogo del giorno di carnevale consumò in piazza della Signoria una catasta piramidale di legno a otto facce sui cui gradini erano state disposte tutte le “vanità” che i fanciulli del frate avevano raccolto nelle loro devote scorrerie: libri, strumenti musicali, profumi, dipinti lascivi, carte da gioco ecc. Alla vanità della bellezza e del piacere si oppose allora la verità della penitenza, capace di ridare speranza di salvezza eterna ai cristiani e salute terrena a una città in crisi. Fu una processione allegra, guidata da Savonarola, mentre il canto di laudi dei fanciulli in processione si univa ai suoni di trombe, pifferi e campane e agli scoppi della polvere da sparo mista alla catasta di legna. L’avventura di Savonarola a Firenze iniziò il 5 aprile 1492. In quella notte un fulmine colpì la lanterna della cupola di Santa Maria del Fiore. Dal cielo provenivano i segni dell'ira divina. Savonarola aveva trascorso la notte a preparare la predica e fu quella mattina che la sua voce tonante lanciò la minaccia famosa: «Ecce gladius Domini super terram, cito et velociter». Aveva visto la spada di Dio abbattersi sui peccati dei fiorentini. Pochi giorni dopo, l’8 aprile 1492, la morte di Lorenzo il Magnifico lasciò nella più grave incertezza costituzionale e sociale quella realtà politica che lui stesso aveva chiamato «lo stato suo» quando, ferito e lasciando a terra morto il fratello Giuliano, aveva invocato l’aiuto del duca di Milano. Col venir meno di quel sovrano senza corona e senza scettro cominciò una lunga, interminabile crisi e si aprì una serie di eventi tragici e feroci che doveva durare decenni. Finivano i tempi in cui l’allegra miscredenza di Luigi Pulci si augurava di morire senza litanie, di andare «in valle buia,/senza sentir più cantare alleluja». In mezzo a un generale senso di incertezza e di smarrimento pubblico, le profezie e le visioni che punteggiarono le prediche del frate di San Marco riempirono a lungo quel vuoto e permisero ai fiorentini di esorcizzare l'incerto futuro. Quando Savonarola il 20 aprile parlò della visione delle due croci e ne tradusse il significato in una durissima riprovazione di Roma, Bernardo Vettori scrisse: «Qui s’attende a pensare alle profezie di fra Girolamo». Dunque se a Firenze il frate aveva trovato le condizioni fondamentali per diventare Savonarola, dopo la sua morte quella città divenne il luogo di una battaglia contro la sua memoria, un’isola di ostilità in un mondo dove la fama e l’influsso del frate non conoscevano confini. La condizione di incertezza politica si univa per Firenze a una seria difficoltà per le manifatture e per le banche cittadine: un’economia legata ai traffici internazionali aveva bisogno di una realtà statale in grado di proteggerla. E invece lo Stato non c’era e solo l’abilità di Lorenzo il Magnifico, nell’arte della diplomazia e nella continua attenzione alla politica delle alleanze per salvaguardare l’equilibrio dei piatti della bilancia, aveva consentito fino ad allora a Firenze di contare nei rapporti di forza interstatali. Un altro gradino nell’ascesa del profeta fu salito nel 1494 con l’arrivo a Genova dell’esercito di Carlo VIII. Fu memorabile la predica con cui Savonarola commentò la notizia, attribuendola a un disegno divino: stavolta le sue parole infuocate annunciarono nientemeno che la minaccia biblica del diluvio. Il geniale Giovanni Pico principe della Mirandola si sentì rizzare i capelli in testa, il giovane Michelangelo fu segnato per sempre da quella esperienza. La corrente fortissima che si stabilì in quegli anni fra città e predicatore si tradusse in conversioni improvvise di «garzoni nobili e delle prime famiglie», come scrisse Francesco Guicciardini. Quella corrente unificava una massa eterogenea fatta di mercanti e di intellettuali, di artisti e di madri di famiglia, di ricchi banchieri e di poveri derelitti. Quella massa umana cercava il contatto con Savonarola, gli chiedeva lume e conforto. Ma gli dava anche preziosi consigli che ne favorirono l’ascesa pubblica offrendogli quel rapporto coi bisogni e con le esigenze della piazza che erano anche allora la molla del consenso e del potere. Fu così che l’uomo che aveva scelto giovanissimo la via del convento per disprezzo del mondo e desiderio di solitudine con Dio si trovò catapultato alla ribalta della vita politica, eletto ambasciatore presso Carlo VIII di Francia, scelto come suggeritore e ispiratore di un governo repubblicano. E quando Carlo VIII lasciò la città, fu un trionfo per lui e una conferma della verità delle sue profezie: era Dio che lo aveva ispirato, disse allora dal pulpito. Ora si doveva procedere sulla strada giusta. Solo così, da una Firenze rinnovata nei costumi, liberata da “papa Borgia, il lussurioso minotauro asceso al soglio papale”, doveva rinascere l'Italia. Gli effetti della riforma morale furono la scomparsa dei giochi in pubblico, la serrate delle taverne, la morigeratezza che mandò in soffitta l'amore etero e omosessuale. Il fraticello scopriva la potenza trascinante della parola, e l'ascendente che esercitava sul popolo. Ma la crisi nacque a Firenze: si poteva governare coi paternostri una città e il suo territorio nel tumulto di una crisi profonda dell’intero assetto politico italiano? Il profeta disarmato, provvisto solo della propria eloquenza, si dovette fare i conti con gli uomini e la violenza. Ma lo strumento di cui si serviva – la profezia – era potente quanto pericoloso. Così pericoloso che la Chiesa, di cui lui si sentiva un servitore, l’aveva disinnescato dichiarando chiusa l’età della profezia e incanalando la trasmissione della parola di Dio nella struttura di una gerarchia regolata dal diritto. Questo non impediva che l’ansia di decifrare il futuro e lo smarrimento davanti alle catastrofi naturali e storiche creassero di continuo occasioni per chi pretendeva di saper prevedere il futuro. Il 23 maggio 1498 Savonarola e i suoi due compagni dal palazzo della Signoria salirono i gradini della catasta eretta in piazza, sormontata da una croce. Anche questa volta il rogo siglava una verità raggiunta, quella processuale. Il falò della verità prendeva il posto del falò delle vanità. Parlare di Savonarola a Firenze fu a lungo cosa proibita, almeno nel secolo che seguì alla sua morte. La sua figura restava troppo viva nelle memorie dei cittadini. Subito dopo la sua morte, una terziaria domenicana sua devota, suor Lucia Brocadelli, fu rapita per ordine del duca di Ferrara Ercole I d’Este. Il fatto singolare è che qui il duca ne alimentò la fama di santità visionaria dichiarando autentiche le stimmate che ben sapeva essere sospette di falsità. E non fu questo il solo caso del genere, ché anzi ci fu una rete di mistiche savonaroliane nelle città italiane, la cui fama di santità e chiaroveggenza fu messa al servizio delle famiglie dominanti. Invece la devozione al morto profeta a Firenze fu un fenomeno che venne percepito come una forma di opposizione al potere costituito. Ancora alla fine del Cinquecento le autorità ecclesiastiche sorvegliavano con sospetto chi in città custodiva quelle ceneri e quei resti raccolti frettolosamente in piazza della Signoria nel 1498, per essere disperse come resti maledetti o conservate come reliquie salvifiche. E quando i primi gesuiti si erano avviati da Roma alla conquista di Firenze recavano con sé una istruzione del segretario della Compagnia Juan de Polanco che li avvertiva di evitare ogni familiarità con la “setta di fra Girolamo”.
7 febbraio 1497. Il domenicano Girolamo Savonarola, reggente di Firenze, ordina il Falò delle vanità. Il rogo del giorno di carnevale consumò in piazza della Signoria una catasta piramidale di legno a otto facce sui cui gradini erano state disposte tutte le “vanità” che i fanciulli del frate avevano raccolto nelle loro devote scorrerie: libri, strumenti musicali, profumi, dipinti lascivi, carte da gioco ecc. Alla vanità della bellezza e del piacere si oppose allora la verità della penitenza, capace di ridare speranza di salvezza eterna ai cristiani e salute terrena a una città in crisi. Fu una processione allegra, guidata da Savonarola, mentre il canto di laudi dei fanciulli in processione si univa ai suoni di trombe, pifferi e campane e agli scoppi della polvere da sparo mista alla catasta di legna. L’avventura di Savonarola a Firenze iniziò il 5 aprile 1492. In quella notte un fulmine colpì la lanterna della cupola di Santa Maria del Fiore. Dal cielo provenivano i segni dell'ira divina. Savonarola aveva trascorso la notte a preparare la predica e fu quella mattina che la sua voce tonante lanciò la minaccia famosa: «Ecce gladius Domini super terram, cito et velociter». Aveva visto la spada di Dio abbattersi sui peccati dei fiorentini. Pochi giorni dopo, l’8 aprile 1492, la morte di Lorenzo il Magnifico lasciò nella più grave incertezza costituzionale e sociale quella realtà politica che lui stesso aveva chiamato «lo stato suo» quando, ferito e lasciando a terra morto il fratello Giuliano, aveva invocato l’aiuto del duca di Milano. Col venir meno di quel sovrano senza corona e senza scettro cominciò una lunga, interminabile crisi e si aprì una serie di eventi tragici e feroci che doveva durare decenni. Finivano i tempi in cui l’allegra miscredenza di Luigi Pulci si augurava di morire senza litanie, di andare «in valle buia,/senza sentir più cantare alleluja». In mezzo a un generale senso di incertezza e di smarrimento pubblico, le profezie e le visioni che punteggiarono le prediche del frate di San Marco riempirono a lungo quel vuoto e permisero ai fiorentini di esorcizzare l'incerto futuro. Quando Savonarola il 20 aprile parlò della visione delle due croci e ne tradusse il significato in una durissima riprovazione di Roma, Bernardo Vettori scrisse: «Qui s’attende a pensare alle profezie di fra Girolamo». Dunque se a Firenze il frate aveva trovato le condizioni fondamentali per diventare Savonarola, dopo la sua morte quella città divenne il luogo di una battaglia contro la sua memoria, un’isola di ostilità in un mondo dove la fama e l’influsso del frate non conoscevano confini. La condizione di incertezza politica si univa per Firenze a una seria difficoltà per le manifatture e per le banche cittadine: un’economia legata ai traffici internazionali aveva bisogno di una realtà statale in grado di proteggerla. E invece lo Stato non c’era e solo l’abilità di Lorenzo il Magnifico, nell’arte della diplomazia e nella continua attenzione alla politica delle alleanze per salvaguardare l’equilibrio dei piatti della bilancia, aveva consentito fino ad allora a Firenze di contare nei rapporti di forza interstatali. Un altro gradino nell’ascesa del profeta fu salito nel 1494 con l’arrivo a Genova dell’esercito di Carlo VIII. Fu memorabile la predica con cui Savonarola commentò la notizia, attribuendola a un disegno divino: stavolta le sue parole infuocate annunciarono nientemeno che la minaccia biblica del diluvio. Il geniale Giovanni Pico principe della Mirandola si sentì rizzare i capelli in testa, il giovane Michelangelo fu segnato per sempre da quella esperienza. La corrente fortissima che si stabilì in quegli anni fra città e predicatore si tradusse in conversioni improvvise di «garzoni nobili e delle prime famiglie», come scrisse Francesco Guicciardini. Quella corrente unificava una massa eterogenea fatta di mercanti e di intellettuali, di artisti e di madri di famiglia, di ricchi banchieri e di poveri derelitti. Quella massa umana cercava il contatto con Savonarola, gli chiedeva lume e conforto. Ma gli dava anche preziosi consigli che ne favorirono l’ascesa pubblica offrendogli quel rapporto coi bisogni e con le esigenze della piazza che erano anche allora la molla del consenso e del potere. Fu così che l’uomo che aveva scelto giovanissimo la via del convento per disprezzo del mondo e desiderio di solitudine con Dio si trovò catapultato alla ribalta della vita politica, eletto ambasciatore presso Carlo VIII di Francia, scelto come suggeritore e ispiratore di un governo repubblicano. E quando Carlo VIII lasciò la città, fu un trionfo per lui e una conferma della verità delle sue profezie: era Dio che lo aveva ispirato, disse allora dal pulpito. Ora si doveva procedere sulla strada giusta. Solo così, da una Firenze rinnovata nei costumi, liberata da “papa Borgia, il lussurioso minotauro asceso al soglio papale”, doveva rinascere l'Italia. Gli effetti della riforma morale furono la scomparsa dei giochi in pubblico, la serrate delle taverne, la morigeratezza che mandò in soffitta l'amore etero e omosessuale. Il fraticello scopriva la potenza trascinante della parola, e l'ascendente che esercitava sul popolo. Ma la crisi nacque a Firenze: si poteva governare coi paternostri una città e il suo territorio nel tumulto di una crisi profonda dell’intero assetto politico italiano? Il profeta disarmato, provvisto solo della propria eloquenza, si dovette fare i conti con gli uomini e la violenza. Ma lo strumento di cui si serviva – la profezia – era potente quanto pericoloso. Così pericoloso che la Chiesa, di cui lui si sentiva un servitore, l’aveva disinnescato dichiarando chiusa l’età della profezia e incanalando la trasmissione della parola di Dio nella struttura di una gerarchia regolata dal diritto. Questo non impediva che l’ansia di decifrare il futuro e lo smarrimento davanti alle catastrofi naturali e storiche creassero di continuo occasioni per chi pretendeva di saper prevedere il futuro. Il 23 maggio 1498 Savonarola e i suoi due compagni dal palazzo della Signoria salirono i gradini della catasta eretta in piazza, sormontata da una croce. Anche questa volta il rogo siglava una verità raggiunta, quella processuale. Il falò della verità prendeva il posto del falò delle vanità. Parlare di Savonarola a Firenze fu a lungo cosa proibita, almeno nel secolo che seguì alla sua morte. La sua figura restava troppo viva nelle memorie dei cittadini. Subito dopo la sua morte, una terziaria domenicana sua devota, suor Lucia Brocadelli, fu rapita per ordine del duca di Ferrara Ercole I d’Este. Il fatto singolare è che qui il duca ne alimentò la fama di santità visionaria dichiarando autentiche le stimmate che ben sapeva essere sospette di falsità. E non fu questo il solo caso del genere, ché anzi ci fu una rete di mistiche savonaroliane nelle città italiane, la cui fama di santità e chiaroveggenza fu messa al servizio delle famiglie dominanti. Invece la devozione al morto profeta a Firenze fu un fenomeno che venne percepito come una forma di opposizione al potere costituito. Ancora alla fine del Cinquecento le autorità ecclesiastiche sorvegliavano con sospetto chi in città custodiva quelle ceneri e quei resti raccolti frettolosamente in piazza della Signoria nel 1498, per essere disperse come resti maledetti o conservate come reliquie salvifiche. E quando i primi gesuiti si erano avviati da Roma alla conquista di Firenze recavano con sé una istruzione del segretario della Compagnia Juan de Polanco che li avvertiva di evitare ogni familiarità con la “setta di fra Girolamo”.