Accadeva centotrentanove anni fa.
5 febbraio 1885. Al termine della conferenza di Berlino, il re Leopoldo II del Belgio si assicura il controllo sul cosiddetto Stato Libero del Congo. L'esistenza dell'entità sarebbe cessata dopo ventitré anni, cinque mesi e quindici giorni, il 15 novembre del 1908, allorché divenne una colonia del Belgio. Il suo capo-padrone (Leopoldo, a differenza dei suoi omologhi europei, i territori d’oltremare li possedeva personalmente) viveva a più di seimila chilometri a nord, a quattro settimane di navigazione, un viaggio che d’altronde lui non intraprese mai. Eppure le grandi potenze europee non avevano riconosciuto re Leopoldo, ma l’Association Internationale du Congo come l’istanza con sovranità sul bacino del Congo. La conferenza di Berlino, a cui lo sfuggente Leopoldo non partecipò di persona, gli fornì l'opportunità di stringere la propria morsa sul cuore dell'Africa. Uno dei consulenti legali della delegazione britannica era sir Travers Twiss, che poco tempo prima aveva dato consigli al sovrano belga in merito ai trattati con i capi congolesi. Chi era, infine, uno dei due delegati americani alla conferenza? Niente meno che Henry Shelton Sanford, che quasi ogni giorno inviava a Bruxelles dispacci informativi. E chi svolgeva la funzione di «consulente tecnico» della delegazione americana pur essendo sul libro paga di Leopoldo? Il celebre esploratore britannico Henry Morton Stanley. Quando qualcuno sembrava esitare sull’importanza delle rivendicazioni di Leopoldo, Stanley poteva perorare la causa di Bruxelles dall'alto dell'autorità di chi, come lui, aveva appena trascorso cinque anni in Congo su incarico del re. All’inizio della conferenza, riferì un diplomatico, Stanley si avvicinò alla grande cartina dell’Africa e «attirò subito l’attenzione di ogni delegato mediante una vivida descrizione delle caratteristiche del bacino del Congo; e quindi dei territori limitrofi che sarebbero dovuti passare sotto il medesimo regime per garantire la massima libertà di comunicazione». Contrariamente a quanto si crede, la conferenza di Berlino non procedette alla spartizione dell’Africa (il padrone di casa Bismarck se ne servì per acuire le rivalità tra Francia e Gran Bretagna); il bottino era troppo ricco, e ci sarebbe voluto un numero molto maggiore di trattati per ripartirlo tutto. Gli europei pensavano ancora che le ricchezze dell’Africa nera si concentrassero perlopiù sulle coste, e non vi furono conflitti di rilievo in merito alla cessione dei vasti spazi dell’entroterra a un piccolo regno come il Belgio. Durante le negoziazioni con i britannici, il sovrano belga diede per esempio a intendere che, se non avesse ottenuto tutte le terre cui ambiva, si sarebbe ritirato del tutto dall’Africa, il che, in base al patto sul diritto di prelazione, avrebbe comportato la vendita del Congo alla Francia. Il bluff funzionò; ma chi fu il vero beffato: la Francia o l'Inghilterra? Ciò che ingolosiva maggiormente il Belgio era il porto di Matadi, sul basso corso del fiume Congo, e i territori necessari a costruire una ferrovia che, partendo da quel punto, aggirasse le rapide del fiume e conducesse a Kinshasa, sulle rive della palude nota come Stanley Pool (oggi Malebo). La ferrovia, lunga 400 chilometri, richiese lavori ingenti costati circa 70 milioni di franchi dell'epoca. Inaugurata nel marzo 1898, essa fu interamente opera del colonnello Thys, che presentò il progetto nel 1887. Uno dei motivi fondamentali per cui Bruxelles riuscì a mettere le mani su così tanti territori sta nel fatto che gli altri paesi avevano creduto di approvare una sorta di colonia internazionale aperta ai commercianti di qualsiasi paese. In realtà, nessuno ne beneficiò più di re Leopoldo II. Significativo era il fatto che nessuno sapesse con precisione dove si situassero i confini dello Stato libero del Congo. Un primissimo abbozzo del futuro territorio l’aveva elaborato insieme a Stanley, il 7 agosto 1884, nella villa reale di Ostenda. Stanley spiegò la cartina, molto provvisoria, che aveva disegnato dopo la sua traversata dell’Africa, un foglio in gran parte bianco che riproduceva dettagliatamente il fiume Congo con le sue centinaia di villaggi rivieraschi. Fu su quel foglio di carta che i due tracciarono dei segni a matita, con un’arbitrarietà insuperabile. Nessuna necessità storica obbligava gli abitanti di quella regione a diventare compatrioti. C’erano soltanto due uomini bianchi, uno con i baffi e l’altro con la barba, che con una matita rossa univano alcune linee su un grande foglio di carta. Due mesi dopo la conferenza di Berlino, il Lancaster, una nave della marina statunitense, fece la sua comparsa alla foce del Congo e sparò una salva di ventuno colpi di cannone in onore della bandiera blu con la stella d’oro. Non è del tutto inesatto affermare che il Congo belga era un protettorato ombra dell'Anglosfera. Quando, nel 1888, il veterinario scozzese John Boyd Dunlop inventò lo pneumatico in gomma, la domanda mondiale di gomma schizzò alle stelle. Per Leopoldo ciò significava una salvezza miracolosa. Giravano sempre meno elefanti nel suo Libero Stato, ma di alberi della gomma ce n’erano a iosa. Nel 1891 il Congo non produceva che un centinaio di tonnellate di gomma, mentre nel 1896 era già salito di botto a milletrecento tonnellate e nel 1901 a seimila. Il sovrano belga accumulò milioni e finalmente poté mostrare a che cosa servisse una colonia. Leopoldo rifiutò di reinvestire le entrate in Congo, e mise in atto una grandiosa campagna di abbellimento del Belgio. A Bruxelles sorsero il Museo del Cinquantenario e un nuovo Palazzo reale, a Tervuren fu costruito un immenso museo coloniale e realizzato un parco, ispirato a Versailles, e a Ostenda comparvero le Gallerie veneziane. Non essendoci ancora piantagioni, la gomma proveniva esclusivamente da alberi selvatici, ma la raccolta comportava un lavoro lungo e faticoso che esigeva una manodopera numerosa. Il mezzo ideale per riscuotere le imposte, in assenza di moneta, era la stessa gomma. Gli indigeni dovevano entrare nella foresta vergine per incidere le liane da caucciù, recuperare la linfa e trasformarla in blocchi appiccicosi. I soprastanti che dovevano riscuotere la gomma venivano pagati in base alla quantità di materiale radunato: No rubber, no pay. Se fosse stato introdotto il sistema dei premi, allora le persone sarebbero state ricompensate per i loro sforzi e motivate a continuare a produrre. Invece no, la gomma doveva scorrere gratuitamente verso lo stato. Si trattava di tasse, non di una paga; di fatto si trasformò in un saccheggio. Il lavoro sporco della riscossione delle imposte fu lasciato a dei subalterni africani armati di fucile, i cosiddetti sentry’s. In diversi luoghi, prese piede l’abitudine di tagliare la mano destra della vittima come prova della punizione. Le disgrazie non colpirono solamente gli abitanti dei villaggi pagani, ma anche i congolesi convertiti. Sarebbe grottesco in tale contesto parlare di “genocidio” o di “olocausto”, perché un genocidio sottintende la distruzione cosciente, pianificata, di un gruppo etnico specifico, e questo non è mai stato né l’intento né il risultato. Quando scoppiò la malattia del sonno, Leopoldo II chiese aiuto alla Liverpool School of Tropical Medicine, che all’epoca era il centro di medicina tropicale più rinomato. Non l’avrebbe mai fatto se avesse avuto l’intenzione di perpetrare un genocidio, ma ciò comunque non implicava che stesse recitando un mea culpa, cosa che non fece mai. Ma fu comunque una ecatombe, un massacro perpetrato su una scala incredibile, certo non intenzionale ma comunque conseguenza inevitabile di una politica di sfruttamento perfida e rapace.
5 febbraio 1885. Al termine della conferenza di Berlino, il re Leopoldo II del Belgio si assicura il controllo sul cosiddetto Stato Libero del Congo. L'esistenza dell'entità sarebbe cessata dopo ventitré anni, cinque mesi e quindici giorni, il 15 novembre del 1908, allorché divenne una colonia del Belgio. Il suo capo-padrone (Leopoldo, a differenza dei suoi omologhi europei, i territori d’oltremare li possedeva personalmente) viveva a più di seimila chilometri a nord, a quattro settimane di navigazione, un viaggio che d’altronde lui non intraprese mai. Eppure le grandi potenze europee non avevano riconosciuto re Leopoldo, ma l’Association Internationale du Congo come l’istanza con sovranità sul bacino del Congo. La conferenza di Berlino, a cui lo sfuggente Leopoldo non partecipò di persona, gli fornì l'opportunità di stringere la propria morsa sul cuore dell'Africa. Uno dei consulenti legali della delegazione britannica era sir Travers Twiss, che poco tempo prima aveva dato consigli al sovrano belga in merito ai trattati con i capi congolesi. Chi era, infine, uno dei due delegati americani alla conferenza? Niente meno che Henry Shelton Sanford, che quasi ogni giorno inviava a Bruxelles dispacci informativi. E chi svolgeva la funzione di «consulente tecnico» della delegazione americana pur essendo sul libro paga di Leopoldo? Il celebre esploratore britannico Henry Morton Stanley. Quando qualcuno sembrava esitare sull’importanza delle rivendicazioni di Leopoldo, Stanley poteva perorare la causa di Bruxelles dall'alto dell'autorità di chi, come lui, aveva appena trascorso cinque anni in Congo su incarico del re. All’inizio della conferenza, riferì un diplomatico, Stanley si avvicinò alla grande cartina dell’Africa e «attirò subito l’attenzione di ogni delegato mediante una vivida descrizione delle caratteristiche del bacino del Congo; e quindi dei territori limitrofi che sarebbero dovuti passare sotto il medesimo regime per garantire la massima libertà di comunicazione». Contrariamente a quanto si crede, la conferenza di Berlino non procedette alla spartizione dell’Africa (il padrone di casa Bismarck se ne servì per acuire le rivalità tra Francia e Gran Bretagna); il bottino era troppo ricco, e ci sarebbe voluto un numero molto maggiore di trattati per ripartirlo tutto. Gli europei pensavano ancora che le ricchezze dell’Africa nera si concentrassero perlopiù sulle coste, e non vi furono conflitti di rilievo in merito alla cessione dei vasti spazi dell’entroterra a un piccolo regno come il Belgio. Durante le negoziazioni con i britannici, il sovrano belga diede per esempio a intendere che, se non avesse ottenuto tutte le terre cui ambiva, si sarebbe ritirato del tutto dall’Africa, il che, in base al patto sul diritto di prelazione, avrebbe comportato la vendita del Congo alla Francia. Il bluff funzionò; ma chi fu il vero beffato: la Francia o l'Inghilterra? Ciò che ingolosiva maggiormente il Belgio era il porto di Matadi, sul basso corso del fiume Congo, e i territori necessari a costruire una ferrovia che, partendo da quel punto, aggirasse le rapide del fiume e conducesse a Kinshasa, sulle rive della palude nota come Stanley Pool (oggi Malebo). La ferrovia, lunga 400 chilometri, richiese lavori ingenti costati circa 70 milioni di franchi dell'epoca. Inaugurata nel marzo 1898, essa fu interamente opera del colonnello Thys, che presentò il progetto nel 1887. Uno dei motivi fondamentali per cui Bruxelles riuscì a mettere le mani su così tanti territori sta nel fatto che gli altri paesi avevano creduto di approvare una sorta di colonia internazionale aperta ai commercianti di qualsiasi paese. In realtà, nessuno ne beneficiò più di re Leopoldo II. Significativo era il fatto che nessuno sapesse con precisione dove si situassero i confini dello Stato libero del Congo. Un primissimo abbozzo del futuro territorio l’aveva elaborato insieme a Stanley, il 7 agosto 1884, nella villa reale di Ostenda. Stanley spiegò la cartina, molto provvisoria, che aveva disegnato dopo la sua traversata dell’Africa, un foglio in gran parte bianco che riproduceva dettagliatamente il fiume Congo con le sue centinaia di villaggi rivieraschi. Fu su quel foglio di carta che i due tracciarono dei segni a matita, con un’arbitrarietà insuperabile. Nessuna necessità storica obbligava gli abitanti di quella regione a diventare compatrioti. C’erano soltanto due uomini bianchi, uno con i baffi e l’altro con la barba, che con una matita rossa univano alcune linee su un grande foglio di carta. Due mesi dopo la conferenza di Berlino, il Lancaster, una nave della marina statunitense, fece la sua comparsa alla foce del Congo e sparò una salva di ventuno colpi di cannone in onore della bandiera blu con la stella d’oro. Non è del tutto inesatto affermare che il Congo belga era un protettorato ombra dell'Anglosfera. Quando, nel 1888, il veterinario scozzese John Boyd Dunlop inventò lo pneumatico in gomma, la domanda mondiale di gomma schizzò alle stelle. Per Leopoldo ciò significava una salvezza miracolosa. Giravano sempre meno elefanti nel suo Libero Stato, ma di alberi della gomma ce n’erano a iosa. Nel 1891 il Congo non produceva che un centinaio di tonnellate di gomma, mentre nel 1896 era già salito di botto a milletrecento tonnellate e nel 1901 a seimila. Il sovrano belga accumulò milioni e finalmente poté mostrare a che cosa servisse una colonia. Leopoldo rifiutò di reinvestire le entrate in Congo, e mise in atto una grandiosa campagna di abbellimento del Belgio. A Bruxelles sorsero il Museo del Cinquantenario e un nuovo Palazzo reale, a Tervuren fu costruito un immenso museo coloniale e realizzato un parco, ispirato a Versailles, e a Ostenda comparvero le Gallerie veneziane. Non essendoci ancora piantagioni, la gomma proveniva esclusivamente da alberi selvatici, ma la raccolta comportava un lavoro lungo e faticoso che esigeva una manodopera numerosa. Il mezzo ideale per riscuotere le imposte, in assenza di moneta, era la stessa gomma. Gli indigeni dovevano entrare nella foresta vergine per incidere le liane da caucciù, recuperare la linfa e trasformarla in blocchi appiccicosi. I soprastanti che dovevano riscuotere la gomma venivano pagati in base alla quantità di materiale radunato: No rubber, no pay. Se fosse stato introdotto il sistema dei premi, allora le persone sarebbero state ricompensate per i loro sforzi e motivate a continuare a produrre. Invece no, la gomma doveva scorrere gratuitamente verso lo stato. Si trattava di tasse, non di una paga; di fatto si trasformò in un saccheggio. Il lavoro sporco della riscossione delle imposte fu lasciato a dei subalterni africani armati di fucile, i cosiddetti sentry’s. In diversi luoghi, prese piede l’abitudine di tagliare la mano destra della vittima come prova della punizione. Le disgrazie non colpirono solamente gli abitanti dei villaggi pagani, ma anche i congolesi convertiti. Sarebbe grottesco in tale contesto parlare di “genocidio” o di “olocausto”, perché un genocidio sottintende la distruzione cosciente, pianificata, di un gruppo etnico specifico, e questo non è mai stato né l’intento né il risultato. Quando scoppiò la malattia del sonno, Leopoldo II chiese aiuto alla Liverpool School of Tropical Medicine, che all’epoca era il centro di medicina tropicale più rinomato. Non l’avrebbe mai fatto se avesse avuto l’intenzione di perpetrare un genocidio, ma ciò comunque non implicava che stesse recitando un mea culpa, cosa che non fece mai. Ma fu comunque una ecatombe, un massacro perpetrato su una scala incredibile, certo non intenzionale ma comunque conseguenza inevitabile di una politica di sfruttamento perfida e rapace.