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Accadeva cinquantasei anni fa.
31 gennaio 1968. In occasione delle festività del Têt (il capodanno vietnamita), il Vietnam del Nord scatena un'offensiva che sotto certi aspetti ricorda l'attacco perpetrato da Hamas ai danni di Israele il 7 ottobre 2023. Pochi giorni prima, un ironico conoscente vietnamita regalò al generale americano Westmoreland una statuetta dell’eroe del XVIII secolo Nguyen Hue, il cui attacco a sorpresa contro un esercito di occupazione cinese avvenuto durante il Têt del 1789 era servito a scacciare l'invasore. Quasi duecento anni dopo, con una mossa a sorpresa volutamente ispirata all’eroico passato, le truppe nordvietnamite e del Fronte di Liberazione Nazionale (FNL) lanciarono una serie di attacchi coordinati in tutto il paese. L’obiettivo più importante dell’offensiva, scrisse lo storico Ngo Vinh Long, «era costringere gli Stati Uniti a alleggerire la guerra contro il Nord e ad andare al tavolo dei negoziati». Il peso più grosso dei combattimenti sarebbe toccato ai guerriglieri di stanza nel Sud, mentre l’esercito regolare del Nord avrebbe creato diversioni, come a Khe Sanh, oppure avrebbe fornito le riserve, come fece nella battaglia per la conquista di Hue. L’attacco contro Saigon partì da circa trentacinque chilometri di distanza dalla città, dal complesso di gallerie all’interno del Triangolo di Ferro. Armi immagazzinate in previsione dell’attacco vennero trasferite a Saigon dentro carri usati per il trasporto delle verdure al mercato; quattromila guerriglieri si spostarono in città confondendosi facilmente con la folla venuta a trovare i parenti per la festa del Têt e nascondendosi in casa di simpatizzanti. L’offensiva non venne considerata una vittoria dell’FNL e nel breve periodo non causò una diminuzione dell’impegno militare statunitense. Per la prima volta la guerra fu portata direttamente nelle aree urbane. Cinque delle sei grandi città del paese, trentasei su quarantaquattro capoluoghi di provincia, circa un quarto delle duecentoquarantadue città distrettuali, Cholon, la parte cinese di Saigon in fase di grande espansione, la superprotetta ambasciata americana, la città imperiale di Hue, vennero inghiottiti nella battaglia. A Saigon un contingente di mille soldati dell’FNL tenne in scacco per tre settimane undicimila soldati americani e del Sud. Hue venne occupata rapidamente e fu formato un governo municipale di coalizione di cui fecero parte esponenti del movimento di lotta buddhista del 1966. Un corrispondente francese descrisse squadre di sostenitori dell’FNL che camminavano per la città in gruppetti distribuendo volantini e opuscoli: «Ridendo e scherzando i soldati passeggiano per la città e per i giardini senza mostrare alcuna paura. Numerosi civili hanno portato loro grandi quantità di cibo.» Per quasi un mese la bandiera dell’FNL sventolò dalla Cittadella, finché i marine, bombardando e mitragliando dal cielo, combattendo strada per strada e casa per casa, non riconquistarono Hue (la parte finale del film Full Metal Jacket di Stanley Kubrick racconta questa battaglia). Delle 17.134 case della città, 9776 vennero completamente rase al suolo e 3169 gravemente danneggiate. In mezzo alle macerie di Hue e della zona circostante furono scoperte fosse comuni. I sostenitori dell'intervento americano sfruttarono le fosse comuni come ulteriore giustificazione del conflitto: erano solo l’assaggio dell’inevitabile bagno di sangue che sarebbe seguito a una vittoria comunista. Non ci sono dubbi che a Hue avvennero esecuzioni, sia nella fase iniziale dell’occupazione che negli ultimi giorni della battaglia, poiché l’FNL si prefiggeva di smantellare l’amministrazione governativa della città, e di sostituirla con una «giunta rivoluzionaria». Lo studioso di scienze politiche Gareth Porter sostiene che «la versione ufficiale di un massacro indiscriminato perpetrato contro chi era considerato ostile ai comunisti è pura invenzione». Le migliaia di civili morti a Hue, scrisse il fotoreporter Philip Jones Griffiths, «furono uccisi dall’uso sconsiderato della potenza di fuoco americana». Di più: squadre della morte del governo di Saigon percorrevano la città con la loro lista di obiettivi: i simpatizzanti clandestini dell’FNL che si erano esposti durante l’occupazione della città. In ogni caso i comunisti in ritirata giustiziarono molti ostaggi, questo è fuor di dubbio. Le città e i paesi conquistati durante l’Offensiva del Têt vennero poi ripresi da Saigon e dagli americani, ma si trattò di una vittoria di Pirro. Ci vollero dieci battaglioni per riportare la sicurezza nella zona di Saigon. Per tutto il paese la stima ufficiale, e con molto probabilità prudente, relativa ai civili era di 14.300 morti, 24.000 feriti e 627.000 sfollati. Parte dello shock causato dall’Offensiva nasceva dal contrasto tra il recente ottimismo ufficiale e la realtà rivelata dagli attacchi a sorpresa. La popolazione del delta del Mekong sapeva che i vietcong stavano per colpire, gli americani invece no, e se i soldati sudvietnamiti lo sapevano non parlarono. Westmoreland prese sul serio solo il diversivo a Khe Sanh, una base sulle montagne nordoccidentali nei pressi della zona smilitarizzata e del confine con il Laos. Questa era la guerra che si aspettavano gli strateghi del Pentagono, quella che i marines erano meglio preparati a combattere: truppe regolari nordvietnamite che colpivano bersagli militari nel Sud in campo aperto, come contro i francesi a Dien Bien Phu. Ma l’America non era la Francia. L'aviazione a stelle e strisce spogliò il fianco della montagna con 60.000 tonnellate di napalm e 40.000 di esplosivo. L’assedio terminò all’inizio di marzo: furono i nordvietnamiti a toglierlo quando la sua funzione diversiva giunse al termine. Westmoreland a Khe Sanh aveva fatto concentrare circa cinquantamila soldati, sguarnendo il fronte sud e facilitando l’Offensiva di Capodanno. Prendere sul serio altri segnali dell’offensiva nordvietnamita avrebbe significato una revisione dell’idea della guerra a cui tutti nel sud erano legati. Se avesse creduto a quei segnali il comando americano avrebbe dovuto riconoscere che l’FNL era una forza popolare; che la maggioranza della popolazione del Sud vedeva negli USA l’erede del colonialismo francese e nel governo di Saigon una combriccola corrotta, dei nemici del popolo. Questo, per chi amava raccontarsi storie di vietcong poco motivati e male addestrati, era inaccettabile. Westmoreland era sicuro che la sua strategia dell’attrito funzionasse: Hanoi non poteva continuare a sostenere perdite così alte. L’ambasciatore americano alle Nazioni Unite Arthur Goldberg chiese a quanto ammontasse il numero di soldati nemici all’inizio dell’Offensiva. Fra 160.000 e 175.000, fu la risposta. E il rapporto tra morti e feriti? Il funzionario rispose 3,5 a 1. «Be’, se è vero, allora non hanno più forze effettive sul campo», calcolò frettolosamente Goldberg. Se dopo l’Offensiva del Têt la guerra aerea nel Nord venne parzialmente ridotta, nel Sud tutte le forme di combattimento si intensificarono. Il Presidente Johnson ordinò che gli attacchi aerei venissero destinati ai santuari presenti nel Sud, soprattutto sul popoloso delta del Mekong, con conseguenze devastanti. Il costo per l’FNL fu enorme. La perdita di molte unità lasciò paesi e villaggi esposti alle devastazioni del fuoco degli USA e ai saccheggi dell’ARVN. Durante i primi sei mesi del 1969 la 9ª divisione di fanteria degli USA condusse un’opera di «pacificazione» in una provincia del Delta che ebbe come risultato 11.000 morti (tra cui gli abitanti di My Lai) e solo 748 armi sequestrate. «I saccheggi e altri comportamenti riprovevoli delle truppe della Repubblica del Vietnam nei confronti della popolazione civile hanno eroso la fiducia della gente verso le forze armate» riferì la CIA dopo l’Offensiva del Têt. Per lo stesso motivo, tuttavia, le perdite elevate e l’incapacità dell’FNL di proteggere gli abitanti dei villaggi e il semplice peso dei morti durante gli attacchi contro le città, incoraggiarono la passività (brutto sintomo per chi è impegnato in una lotta rivoluzionaria) e fecero nascere il desiderio di pace. Il generale Tran Van Tra, uno dei principali artefici dell’offensiva, retrospettivamente fece un’autocritica per «non aver valutato correttamente l’equilibrio tra le nostre forze e quelle del nemico. Se avessimo esaminato le cose con maggiore attenzione la nostra vittoria sarebbe stata ancora più grande, i nostri capi, i nostri soldati e la nostra gente avrebbero versato meno sangue». La pressione militare tra il ’68 e il ’70 aumentò. Henry Kissinger sostenne che l’Offensiva del Têt «condusse a un punto critico le debolezze composite o, come dicevano i nordvietnamiti, le contraddizioni interne, della posizione americana. Qualsiasi strategia adottata non avrebbe potuto conseguire i propri obiettivi in breve tempo o con un impiego di forze politicamente accettabile dagli americani». Un'altra ammissione indiretta della sconfitta venne dall'ex ambasciatore americano a Saigon, Henry Cabot Lodge, che raccomandò la fine delle operazioni search and destroy nel Sud e suggerì l’impiego delle truppe americane come «scudo per permettere alla società sudvietnamita di svilupparsi come quella del Vietnam del Nord». Fu coniato il neologismo “vietnamizzazione”, ovvero continuare a sostenere gli anticomunisti sudvietnamiti nel quadro di un progressivo ritiro del personale americano. Un sondaggio Gallup illustrò il cambiamento causato dall’Offensiva del Têt: a novembre 1967, dopo le ottimistiche previsioni di Westmoreland, il 50 per cento degli intervistati credeva che gli Stati Uniti stessero compiendo progressi in Vietnam; dopo la cifra calò al 33 per cento, mentre un incredibile 49 per cento riteneva che gli Stati Uniti non sarebbero mai dovuti intervenire.

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