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Il forum dei patrioti italiani

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Accadeva cinquantasei anni fa
15 gennaio 1968. La notte tra il 14 ed il 15 gennaio, nella Sicilia occidentale, si verifica il terremoto del Belice, che provoca vittime, ingenti danni, e la distruzione parziale o totale di alcuni paesi, come nel caso di Gibellina, Salaparuta, Poggioreale e Montevago. È il primo sisma raccontato dall'occhio televisivo. I mezzibusti Rai storpiarono il nome del luogo colpito dal disastro: da Belìce, come si chiama la valle che da Salaparuta scende fino all’acropoli di Selinunte sul Mar di Sicilia, a Bèlice con l’accento sulla «e». È uno dei più forti terremoti che la lunga memoria siciliana ricordi, uno dei peggiore con il quale l’Italia si confronta, l'ennesimo deplorevole emblema di ricostruzione incompiuta, o compiuta a passo di lumaca, ostacolata dalla melina burocratica e dal disinteresse della politica regionale e nazionale. All'improvviso la terra tremò, radendo al suolo l’edilizia tradizionale di case fatiscenti a due o tre piani, costruite con travi e pietre, con gesso e canne. Difficile una stima precisa delle vittime, forse 296 o forse 352 o 370, con circa un migliaio di feriti e quasi 100.000 senza casa in un’area abitata da meno di 200.000 persone. Ai senzatetto il governo distribuirà 40.000 biglietti ferroviari di sola andata per il nord Italia o l’estero. La sequenza mortale iniziò il 14 gennaio 1968 con la forte scossa delle ore 13.28 e i primi crolli a Montevago, Gibellina, Salaparuta, Poggioreale, Santa Margherita di Belice, Menfi, Roccamena e Camporeale. Passata poco meno di un’ora, alle 14.15 con la seconda scossa tremò tutta la Sicilia. Altre due ore e mezza, e alle 16.48 la terza scossa fa sollevare in aria ampie nuvole di edifici polverizzati anche a Partanna, Salemi, Chiusa Scafani, Contessa Entellina, Sciacca, Santa Ninfa, Vita, Calatafimi, Alcamo, Corleone, Palermo. A quell’ora, il sociologo Lorenzo Barbera vide questa scena:
All’improvviso, da una delle case basse che danno sulla piazza, esce un uomo che afferra per i polsi uno dei bambini e lo spinge dentro casa gridando: «Dentro, dentro, disgraziato! Dentro che c’è lu terremoto». E lo trascina dentro casa, sbarrando il portone con tutti i ferri disponibili. Per chiudere fuori il terremoto.
Un lampo dell’incoscienza di massa in un’Italia che crede che dal terremoto ci si può difendere sprangando le porte. Il comandante dei carabinieri di Palermo è Carlo Alberto Dalla Chiesa. Sente la scossa e, ricevute le prime notizie via telefono, sale sull’auto e si reca nei centri colpiti più vicini, raccomandando di restare all’aperto e allontanarsi dagli edifici. I suoi uomini vanno in giro esortando la gente a prendere questa precauzione. E fanno bene, perché nella notte, alle 2.33, la terra esplode con violenza inaudita. Poco dopo, alle 3.01, un altro colpo con effetti del X grado quasi solleva da terra i territori delle province di Agrigento, Trapani e Palermo, con forti repliche senza tregua. La zona più devastata è la Valle del Belice, fino a quel momento nemmeno classificata come sismica. Anche per questo, il dramma è totalmente ignorato, al punto che i quotidiani del 16 gennaio descrivono una situazione non di emergenza, con tanta paura, alcuni crolli ma pochi feriti. Quando però i primi volonterosi, superando voragini che hanno inghiottito tratti di strada, raggiungono la zona, ai loro occhi si presenta uno scenario bellico: Gibellina, Salaparuta, Poggioreale, Montevago sono rase al suolo. Allertati i comandi militari, l’Aeronautica fa decollare da Roma un aereo da ricognizione. Quando il pilota rientra è sotto choc e ripete: «È stata la bomba atomica. Ho volato sull’inferno». Sulle prime, la mobilitazione generale è lenta e blanda. Come per Firenze alluvionata, prima dei soccorritori giungono i rappresentanti delle istituzioni: il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, il presidente del Consiglio Aldo Moro e il ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani. Ripartono traumatizzati. Solo dopo il loro arrivo e dopo dure contestazioni dei terremotati che annunciano la renitenza alla leva e un mese di picchettaggio a Roma in piazza Montecitorio, viene dato l’ordine di partenza a reparti militari, vigili del fuoco, Croce rossa, carabinieri e polizia. Dalle rovine vengono disseppellite centinaia di cadaveri e carcasse di animali. I morti e i feriti sono in gran parte anziani, donne e bambini poiché gli adulti sono quasi tutti emigrati. I feriti sono trasportati negli ospedali di Palermo, Agrigento e Sciacca. Chi non è ferito è uno sfollato senza più nulla. Giovanni Russo, per il Corriere della Sera, racconta i paesi distrutti, la vita disumana dei superstiti, e denuncia l’assoluta carenza di soccorsi. Egisto Corradi, sempre sul Corriere, descrive la tragedia sotto i nubifragi:
La pioggia ha ridotto la piana ad un acquitrino nel quale si affonda fino alle caviglie. Macchine ed autocarri si sono impantanati sia tra le tende che lungo la strada.
Di fronte alla catastrofe emersero la totale impreparazione logistica dello Stato, l’inerzia istituzionale, l’incapacità di coordinamento e la gestione caotica di aiuti e volontari che arrivarono da tutta Italia. La ferrovia Salaparuta-Castelvetrano, che collegava la maggior parte dei centri dell’area terremotata alla zona costiera, distrutta dal sisma, non è mai stata ricostruita. La verità la scrivono sui muri delle rovine: «La burocrazia uccide più del terremoto». A partire da quella della Regione Sicilia. Oggi, quei nostri antichi paesi ricchi di storia sono stati in gran parte ricostruiti, anche in luoghi distanti da quelli originari come è accaduto per Gibellina, Salaparuta e Poggioreale. Ma tutto è avvenuto sotto il pungolo della velocità di realizzazione e l'esigenza del risparmio economico. Lo scandalo della ricostruzione infinita è un altro emblema del fallimento dello Stato e della classe politica dell’isola, nonostante stanziamenti continui definiti con decine di leggi e di decreti. La tragedia è stata dimenticata in fretta, malgrado il Cretto di Alberto Burri, una delle più grandi opere di land art. A Santa Margherita di Belice, 6700 abitanti, solo da pochi anni non ci sono più baraccati (dove visse anche il vescovo di Acerra don Antonio Riboldi, all’epoca parroco di Santa Ninfa) nelle casette di lamiera con tetti in eternit, ma mancano le nuove case per 84 famiglie e, cinquant’anni dopo, un pezzo di città ancora aspetta la ricostruzione; tra Cannatello e via Genova più di 200 famiglie vivono in case nuove ma senza strade, fognature e rete idrica. Il diluvio di denunce, interrogazioni e atti di commissioni d’inchiesta istituite dal 1978 è sempre finito nel nulla. Fino al 1990, gli stanziamenti ammontavano a 7932,6 miliardi di lire. Eppure noi italiani paghiamo dal 1968 un’accisa sui carburanti di 10 lire al litro per ricostruire il Belice. Dal 1971 al 2015 l’erario ha incassato 8,6 miliardi di euro nominali. Secondo il Consiglio nazionale degli ingegneri, la ricostruzione è costata 2,2 miliardi di euro nominali. In valori attualizzati al 2016, invece, il costo è stimabile in 9,1 miliardi di euro e la copertura ricavata dal gettito fiscale è stata di 24,6 miliardi.

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